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Forze di polizia, la riforma interrotta

E’ del 1981 l’ultima grande riforma delle forze dell’ordine. Con la legge 121 la polizia veniva smilitarizzata, entrava il sindacato, si apriva al reclutamento femminile, si riconosceva dignità professionale al poliziotto, al pari degli altri lavoratori e, soprattutto, si introduceva un concetto di sicurezza più moderno e attento ai diritti dei cittadini. Insomma, iniziava un cammino molto importante verso la democratizzazione delle forze dell’ordine, cammino che però, trentun anni dopo, pare essersi interrotto.
Almeno se si guarda agli ultimi drammatici fatti di cronaca: il caso più eclatante è quello della scuola Diaz di Genova del 2001, al quale poi è seguito uno stillicidio di pestaggi in caserma, durante un fermo o un arresto che si sono conclusi addirittura con la morte dello sfortunato di turno.
Casi come quello di Cucchi, Aldrovandi, Gugliotta, Uva stanno assumendo una frequenza preoccupante, segno che qualcosa non funziona (e molto sfugge di mano) nei comportamenti di agenti e dirigenti nel momento in cui, al contrario, servirebbe il massimo di autocontrollo e preparazione come, appunto, nel compiere un arresto, sedare una rissa, ripristinare l’ordine pubblico.

La politica, anche in questo ambito, si è mostrata distratta (ma è un eufemismo). Nemmeno dopo i fatti di Genova, che hanno messo in luce la rimilitarizzazione strisciante della polizia di stato, il parlamento si è deciso a dare corpo ad una nuova iniziativa legislativa, mentre l’ossessione securitaria faceva nascere i sindaci-sceriffi e i poliziotti di quartiere (ma chi li ha visti?) e lo stato, progressivamente, tagliava fondi, forniture, mezzi e uomini.

Così sono rimasti nel cassetto quei progetti di legge finalizzati soprattutto a fornire norme di principio e di indirizzo per l’istruzione, la formazione e l’aggiornamento delle forze di polizia. Una voce totalmente carente se è vero che «la formazione permanente che in altri settori lavorativi è una parte fondamentale delle politiche aziendali da decenni, da noi è come parlare di un viaggio su Marte» (Fabio Occhi, segretario generale Silp Cgil Liguria). Un disegno di legge in tal senso è stato presentato nel novembre 2001 al Senato (Occhetto e altri, Ds); ripreso alla Camera nel dicembre dello stesso anno (Cima, Misto); e infine riproposto al Senato nell’aprile 2006 (Malabarba, Prc). Lo spirito è quello di introdurre «metodologie didattiche più idonee ad elevare la capacità tecnica ed operativa del personale di tutte le forze impegnate alla tutela della sicurezza e dell’ordine pubblico», specie nel senso della «nonviolenza», intesa come «la scelta e l’impegno di un intervento attivo contro la violenza, la sopraffazione, l’ingiustizia». Secondo i promotori del progetto di legge, infatti, «conoscere le tecniche della nonviolenza, ed essere addestrati al loro uso, significa avere a disposizione una strumentazione interpretativa ed operativa di grande valore ed efficacia» proprio per poter «agire in modo costantemente legale, efficace e rispettoso della dignità umana nello svolgimento delle proprie mansioni»; oltre ad «offrire un’occasione di riflessione sulle dinamiche relazionali e sulle strategie operative e cooperative nel rapporto interpersonale e particolarmente nel conflitto con la persona». In breve, quattro articoli nei quali: vengono stabiliti «programmi ed attività didattiche coerentemente ispirati ai valori della Costituzione della Repubblica»; il ministero dell’Interno stabilisce le direttive generali, fissa gli obiettivi generali, vigila sugli indirizzi didattici e svolge una relazione annuale da trasmettere al parlamento; si introduce un Comitato parlamentare con il compito di promuovere gli «indirizzi formativi» e svolgere approfondimenti anche attraverso audizioni e sopralluoghi. Ad oggi non se ne è fatto nulla.

Nel cassetto sono rimaste anche altre proposte di legge sulla identificabilità del personale delle forze di polizia: una presentata nel luglio 2002 al Senato (Martone e altri), una nel settembre 2006 (Deiana, Prc) e una nel gennaio 2008 (Mascia e altri, Prc), entrambe alla Camera, per far si che gli appartenenti alle forze dell’ordine siano sempre identificabili e riconoscibili come tali. Sottolineando che spesso è «risultato essere particolarmente difficile se non impossibile risalire all’identificazione dei poliziotti» per stabilire eventuali responsabilità individuali – si propone di rendere «obbligatoria l’identificazione del personale che indossa il casco protettivo mediante l’applicazione di contrassegni univoci sullo stesso»; una pratica, per altro, «già molto diffusa in altri paesi». Inoltre è previsto che «l’operatore delle forze di polizia che sia impegnato in servizi di ordine pubblico e che non indossi l’uniforme prescritta sia tenuto a portare indumenti (giacche, pettorine o altro) che lo identifichino univocamente e a distanza come appartenente alle forze dell’ordine». Al contempo si introduce il «divieto assoluto di indossare, da parte dei membri delle forze di polizia, segni distintivi propri» di altre categorie, come quelle dei giornalisti, dei medici e paramedici o vigili del fuoco (proprio per gli scontri di Genova del 2001 venne denunciato e fotografato l’uso di pettorine rilasciate ai giornalisti da parte di agenti in borghese e armati di pistola).

L’intento di queste proposte di legge non era (e non è) punitivo nei confronti degli agenti di polizia, bensì quello di garantire «legalità e trasparenza», evitare «equivoci o confusioni che, nella tensione inevitabile di talune manifestazioni di piazza, potrebbero acuire proprio tale tensione» e, anche, di ristabilire «l’autorità e il prestigio» delle forze di polizia sulla base non solo del principio «del primato della legge, ma anche sul consenso dell’opinione pubblica e sulla generalizzata percezione che proprio gli appartenenti alle forze di polizia siano per primi soggetti alla legge». Nella consapevolezza, sottolineavano i proponenti, che proprio «rafforzando queste caratteristiche si consolida il loro ruolo centrale nella difesa della democrazia».

Insomma, sarebbe prima di tutto interesse degli stessi operatori dell’ordine pubblico portare avanti simili riforme. Ma se guardiamo alle dichiarazioni dell’attuale sottosegretario ai servizi segreti De Gennaro (all’epoca dei fatti di Genova capo della polizia) dopo la sentenza della Cassazione per la mattanza alla Diaz, non c’è da farsi troppe illusioni.
Romina Velchi da Ombre Rosse