Francia: “La Polizia è fuori controllo e potenzialmente golpista”
“Questa polizia è maledetta, razzista nel profondo, fuori controllo, impazzita per la violenza, bloccata nella negazione collettiva e ha solo episodi di attacchi terroristici per rifarsi l’immagine”. Intervista a Frédéric Lordon
È da poco uscito nelle librerie “Police”, opera collettiva pubblicata dalla casa editrice La Fabrique, in cui viene analizzata, grazie ai contributi eterogenei dei diversi autori, la natura storica e sociale della polizia, il suo ruolo e le sue funzioni all’interno dell’attuale società capitalista, la “legittimità” della violenza, la “degenerazione” aggressiva e la fascistizzazione dei suoi agenti. Partendo dalle enormi mobilitazioni di piazza degli ultimi anni in Francia – da quelle contro la Loi Travail fino al movimento dei Gilets Jaunes – e sull’onda lunga delle manifestazioni contro le violenze brutali e spesso letali (Geroge Floyd, Jacob Blake, Breonna Taylor, Dijon Kizzee, Deon Kay…) della polizia negli Stati Uniti, viene investigato a fondo lo stretto legame oggi vigente tra politiche neoliberiste, repressione del dissenso e controllo sociale.
Di seguito la traduzione della prima parte dell’intervista ad uno degli autori, Frédéric Lordon, realizzata da Selim Derkaoui e Nicolas Framont per la “rivista indipendente di critica sociale per il grande pubblico” Frustration.
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Nel lavoro collettivo “Police” vi chiedete “Quale “violenza legittima”?”, espressione usata regolarmente dall’“alto” della gerarchia, che poi parla di “monopolio della violenza legittima” (come la prefettura, la DGSI, il governo, i politologi e gli esperti di televisione, ecc.). Tuttavia, tra le violenze della polizia nei quartieri popolari, che esistono già da diversi decenni, e la repressione dei Gilets Jaunes, i/le francesi sono sempre più diffidenti nei confronti della loro polizia [solo il 43% dei francesi si “fida” della polizia, secondo un sondaggio dell’Ifop pubblicato su L’Express, ndt]. Ma da dove viene questa “legittimità”, che oggi sembra essere contestata?
In effetti, dobbiamo cominciare a chiederci quale sia la legittimità – in generale – poiché, quando si tratta della polizia e della sua violenza, essa è diventata oggetto di dibattito. La legittimità non è una qualità occulta, come dicevano gli Scolastici, né una qualità sostanziale, acquisita una volta per tutte – per esempio attraverso la prova elettorale. La legittimità è il prodotto di una formazione immaginaria collettiva, come tale costantemente da produrre e riprodurre. In parole povere, un’istituzione è legittima se e fintanto che la gente la considera legittima. Si potrebbe dire che questa è una perfetta circolarità. Questo è vero. Ma il mondo sociale funziona costantemente grazie a questo tipo di circolarità. Perché è la circolarità della convinzione, il mondo sociale è pieno di credenze, non è pieno di nient’altro. Riprodurre un ordine sociale, riprodurre le sue istituzioni, mantenerle in “legittimità”, suppone riprodurre e mantenere la convinzione – la convinzione che queste istituzioni sono buone, che la loro azione è giusta e giustificata, ecc. Per questo motivo ogni ordine sociale, per perseverare, deve mobilitare, oltre alle forze fisiche, anche forze simboliche dell’ordine; le prime hanno la vocazione di minimizzare il ricorso alle seconde e di rendere accettabile questo ricorso quando deve comunque avvenire. Così l’ordine sociale e il potere producono continuamente discorsi e immagini sulla polizia, il cui consolidamento simbolico è una questione vitale poiché la polizia è la soluzione di ultima istanza per la sopravvivenza – questo è ciò che la mobilitazione dei Gilets Jaunes ha dimostrato in maniera cruda: ora sappiamo come vanno le cose quando un potere è tenuto insieme solo dalla sua polizia.
A proposito, è qui che vediamo cosa sia l’egemonia nel senso di Gramsci: qualsiasi altra cosa che non sia l’azione propagandistica di un singolo polo come il potere dello Stato. L’egemonia è l’effetto diffuso ma penetrante di una moltitudine di istanze di produzione simbolica, le cui azioni sono apparentemente del tutto indipendenti l’una dall’altra, ma il cui coordinamento delle opinioni, dei messaggi, è oggettivo e oggettivamente adeguato all’ordine sociale. Per esempio, nessuno ha bisogno di riunire e coordinare formalmente Christophe Barbier, Jacques Attali, Emmanuel Lechypre, Philippe Aghion, Dominique Seux, Jean Tirole, Didier Migaud, Bruno Le Maire, Léa Salamé, Geoffroy Roux de Bézieux, per ottenere discorsi perfettamente e oggettivamente coordinati – che alla fine diventano uno solo: il discorso del neoliberalismo economico.
In sostanza, l’egemonia di Gramsci è l’equivalente politico dell’habitus di Bourdieu a livello sociologico: produce effetti di orchestrazione senza richiedere alcun direttore d’orchestra (Bourdieu). Beh, lo stesso vale per la polizia. Il discorso legittimante della polizia è costituito dalla congiunzione di una moltitudine di discorsi, o produzioni simboliche, formalmente indipendenti, ma notevolmente allineate, in cui si trova: ovviamente i discorsi istituzionali del potere politico e dell’amministrazione della polizia, della giustizia anche nelle sue operazioni di copertura, ma anche del giornalismo di prefettura, che è caratteristico di quasi tutti i media audiovisivi, più tutto il lavoro di giustificazione degli “esperti” e degli editori, soprattutto i continui canali di informazione, e infine, e forse soprattutto, il lavoro a lungo termine, fittizio o “documentario”, per impregnare le menti di immagini positive della polizia. Il testo di Julien Coupat sulla serie Engrenages è esemplare di ciò di cui sto parlando. Anche in questo caso, Engrenages si occupa di esplorare il “lato oscuro” degli individui – senza conseguenze politiche, rassicuriamoci, come sempre, si tratta di “problemi personali”. Un misto di apologetica e asepsi perfetta – anche per i poliziotti, deve sembrare molto strano vedere l’immagine delle loro disgustose stazioni di polizia trasformate in locali di start-up o laboratori high-tech – il tutto sotto la guida di un principio costante: i poliziotti sono persone bellissime, interamente dedicate al bene pubblico.
Ma nell’ordine delle bastonate simboliche, c’è di peggio: ci sono tutti questi programmi di giornalismo embedded, il culmine del falso realismo, quindi sotto questo aspetto infinitamente più feroci della “finzione”, poiché questa è presumibilmente la “realtà”. La TNT, che è una fogna televisiva a cielo aperto, riversa ogni giorno questa marea di propaganda mascherata da obiettività giornalistica. Non c’è una serata della settimana senza che uno di questi canali, a volte diversi, trasmetta un “rapporto” con una telecamera di bordo sulla polizia municipale di Cap d’Agde o di Tolone (“Incidenti, furti con scasso e notti calde”), la gendarmeria autostradale, o la GIGN. Con un copione unico: nella società ci sono persone buone, ma il male si annida ovunque: persone irresponsabili più o meno pericolose, delinquenti incalliti, per fortuna c’è la polizia. Sono sempre perfettamente rispettosi della gente, vuoi arrestarli regolarmente, non ti arrabbiare mai e poi mai, non parlarne. La falsità di queste immagini può essere facilmente paragonata a quella di stazioni di polizia stellari fittizie. Questo è il fascino dell’egemonia nel capitalismo: abbiamo film che potrebbero essere stati commissionati direttamente dalla questura, ma che sono stati realizzati spontaneamente da una miriade di produttori formalmente indipendenti – il meglio dei due mondi.
Chomsky parlava della fabbrica del consenso, ci siamo proprio in mezzo. E, a proposito della polizia e della produzione della legittimità della polizia, quando apriamo il tetto della fabbrica, vediamo tutto questo: da Darmanin e Macron a “Enquête sous haute tension” (C8), “Enquête d’action” (W9), “Au coeur de l’enquête” (C star), “Urgences” (NRJ 12), passando per Yves Calvi, Alain Bauer e lo staff permanente di FranceInfo. È così che consolidiamo le basi simboliche di “un pays qui se tient sage”, come direbbe David Dufresne.
Per inciso, questo la dice lunga sui livelli che la violenza della polizia ha dovuto raggiungere negli ultimi anni per attestare una tale base di granito. Ma ecco, tanto di cappello, è fatta. Inoltre, si potrebbe pensare che l’intensificarsi del lavoro di propaganda delle forze dell’ordine su tutti i fronti, fino ad arrivare al massacro quotidiano, sia il segno di un ordine di dominio forzato sulla difensiva, di cui tutti i tentativi di legittimazione (economica, sociale) falliscono, cosicché lo sforzo di legittimazione si stringe attorno all’ultimo baluardo da proteggere: la polizia, uno sforzo di ultima istanza, poiché qui l’intervento delle forze dell’ordine simboliche funziona solo per sostenere l’intervento delle forze fisiche dell’ordine – cioè se si sente come se fosse al capolinea. La funzione della periferia come “laboratorio” di repressione, funzione che è stata individuata solo negli ambienti più consapevoli (oltre che, inutile dirlo, a quelli più interessati), si rivela costantemente a fasce sempre più ampie della popolazione proprio perché queste fasce vivono oggi, oltre che attraverso la televisione, l’incontro con la polizia. Tale è stato in definitiva lo shock simbolico dei Gilets Jaunes.
La repressione della polizia contro il movimento dei Gilets Jaunes è un passo importante in questa progressiva delegittimazione della polizia agli occhi della popolazione. Tuttavia, all’inizio del movimento, a causa della sociologia e della geografia relativamente vicina tra i manifestanti e la polizia, c’è stata una certa “intesa cordiale”, prima della tempesta, tra i due.
Se volete, parliamone con le categorie della stampa: i “francesi”, tutto ciò che c’è di più “normale”, inseriti nella forza lavoro stipendiata, a volte anche con una bandiera, insomma il tipico ritratto della “brava gente” secondo TF1 o un canale del gruppo Bolloré, hanno rivelato il loro stato di miseria, disordine, abbandono totale. Nella disperazione, contro il loro stesso habitus, scendono in strada. É allora che incontrano la polizia. Il punto importante è la disposizione in cui si trovano al momento di questo incontro. Pochissimi sono inclini a “odiare la polizia”, anzi, al contrario: da un lato, da anni escono dalla fogna di TNT e prendono quotidianamente in testa il flusso della propaganda incastrata; dall’altro, come voi sottolineate, c’è un principio di prossimità nello spazio sociale, da loro intuitivamente percepito e che li dispone spontaneamente all’affinità, forse anche alla simpatia, anche alle speranze di “fraternizzazione”. Solo che, subito, vengono picchiati, gasati, portati via, tutto quanto. Bisogna misurare la violenza dello shock della stupefazione, e il crollo simbolico che ne consegue. “La polizia, non è quello che ci è stato detto; la polizia, ecco cos’è”. In realtà, c’è una dinamica che non può che aumentare: man mano che il disastro neoliberista si diffonde, man mano che sempre più ampie fasce della popolazione vengono colpite, in quanto sperimentano l’assoluta inanità dei consueti canali (elettorali, sindacali) di protesta, sono destinate ad identificare la strada come l’ultima soluzione possibile, e quindi a confrontarsi con le forze dell’ordine nelle condizioni che la situazione generale determina oggi.
Naturalmente, la domanda diventa così la seguente: possiamo fare a meno della polizia in Francia in modo permanente, o almeno, possiamo affrontarla, nella misura in cui la sua sociologia e la sua posizione sociale (al di fuori della gerarchia) la rende di fatto appartenente alla classe lavoratrice?
Se le situazioni non sono strettamente identiche, sono abbastanza vicine da far sì che la congiunzione Portland-Parigi abbia prodotto l’esplosione che abbiamo visto. E nella circolazione transatlantica di immagini e slogan, abbiamo così visto apparire l’idea di “abolire la polizia”. Qui, vorrei dire una parola sull’eterogeneità delle posizioni dei vari autori del lavoro “Police” – eterogeneità che mi sembra un’ottima cosa. Per esempio, Eric Hazan, in linea con l’argomento della vicinanza sociologica che voi avete appena citato, al quale non manca di aggiungere un’analisi storica e strategica, è l’unico che detiene sfacciatamente una posizione di “polizia con noi”, contro il “tutti odiano la polizia” che è diventato un’evidenza primaria nei nostri circoli. Sull’”abolizione della polizia”, che sicuramente vincerà in questi stessi circoli perché può essere presentata come una sorta di conseguenza dedotta dalla premessa “tutti odiano la polizia”, penso che mi ritroverò in minoranza a non condividerla.
Ora, perché il dibattito possa sembrare qualcosa, dobbiamo ancora chiarire di cosa stiamo parlando, e in particolare cosa intendiamo per “polizia”. Se per “polizia” intendiamo l’istituzione di polizia così come ce l’abbiamo sotto gli occhi, simile a quella che vediamo in altri paesi, in particolare negli Stati Uniti, penso che non ci sia dubbio che questa istituzione è maledetta, razzista nel profondo, fuori controllo, impazzita per la violenza, bloccata nella negazione collettiva e ha solo episodi di attacchi terroristici per rifarsi l’immagine, e va a briglia sciolta tutto il resto del tempo. Vive in un tale stato di separazione dal corpo sociale e di macerazione interna, che la sociologia del particolare prevale, di gran lunga, sulla sociologia generale.
Questo è quanto ha dimostrato l’episodio dei Gilets Jaunes, con un’argomentazione a fortiori: nelle condizioni di massima vicinanza sociologica a priori, GJ e la polizia hanno dato quello che sappiamo. Questa forza di polizia non è selvaggia. Oppure richiederebbe prima una trasformazione completa delle strutture più una trasfusione ex sanguigno… cioè prima una quasi distruzione. Segue la ricostruzione dal basso verso l’alto. Tuttavia, l’esercizio di un’architettura istituzionale astratta rischierebbe di incorrere in problemi se si dimenticasse delle pesanti predeterminazioni che la sua appartenenza al moderno Stato borghese – lo Stato del capitale – pone fin dall’inizio all’istituzione di polizia. È certo che, partendo da dove siamo partiti, c’è, anche in questo quadro, un margine di miglioramento, ma non per trasformare la zucca in una carrozza. È abbastanza chiaro che la posizione abolizionista ha (o deve avere) come presupposto implicito di essere situata in una formazione sociale post-capitalistica. In ogni caso, il dibattito inizia a questo punto: distruggere la polizia allora, ma non lasciare nulla al suo posto? Se questo è il significato di “abolire la polizia”, è da lì che non posso andare avanti.
Concettualmente, la polizia è l’insieme dei mezzi e (soprattutto) delle persone alle quali un collettivo consegna una delega di potere per assumere la funzione di interposizione in caso di controversia. Il termine “disputa” va inteso in tutta la sua generalità, non è vero che può andare da un disturbo notturno a un omicidio. In ogni caso, dobbiamo partire da una caratterizzazione così astratta per poter ri-immaginare l’immensa variabilità delle forme concrete che la polizia, così ridefinita, può assumere – ben oltre ciò che l’ordine capitalistico ci impone. Un comitato di quartiere con persone riconosciute come mediatori è una forza di polizia. È chiaro che non c’è paragone con ciò che abbiamo per le mani come forze di polizia – tranne, ma è importante, che entrambe le forme rientrano nella stessa definizione astratta. Mi ha molto interessato l’intervista a Kristian Williams, uno scrittore e attivista anarchico che vive a Portland ed è in prima linea nella lotta per “il definanziamento e l’abolizione della polizia”. Gli viene presentata la domanda-osservazione che di solito viene avanzata contro la posizione abolizionista: “Come rispondete a coloro che prevedono o temono che in un mondo senza polizia, il caos, la vendetta personale diventeranno la norma?”. La risposta di Williams differisce significativamente da quella che ci si aspetta spontaneamente: “Questa preoccupazione non è folle. Con questo intendo dire che dubito che vogliamo vivere in un mondo dove assolutamente nessuno proteggerebbe i deboli e pacifici dai forti e dai predatori… L’agenda abolizionista non può semplicemente rimuovere l’istituzione a cui ci opponiamo. Deve anche offrire alternative per risolvere le controversie, limitare i conflitti, assicurare la pace e rispondere al crimine”. Non c’è bisogno di cavillare sul fatto che questa è un’abolizione che non abolisce, almeno non tutto, lo firmo con entrambe le mani. Quello che io, per esempio, trovo folle è la negazione: la negazione della possibilità della violenza. Non della sua fatalità, perché chi vede Hobbes ovunque lo distorce: della sua possibilità. L’uomo non è essenzialmente né buono né cattivo (non c’è “essenza umana”), ma è capace di essere entrambi. In quali proporzioni? È la configurazione generale di una forma di vita che risponde essenzialmente a questa domanda, è la particolare configurazione della “polizia” che racconta come la comunità sta facendo il male di entrambi.
Probabilmente non ci si dovrebbe ossessionare con i problemi concettuali, ma non si dovrebbe nemmeno ignorarli completamente, se non per ritrovarsi a essere addestrati a dire qualcosa. Vivere senza le forze di polizia che abbiamo oggi, possiamo sicuramente farcela. Vivere del tutto senza polizia, cioè senza una qualche forma istituzionale che assuma la funzione di polizia, cioè la funzione di interposizione delegata dalla comunità, non si può. Quindi, nello stesso movimento in cui ci prepariamo ad abolire “questa polizia che è nostra oggi”, dobbiamo pensare a cosa verrà al suo posto, perché non ci può essere nulla. Abbiamo ancor più motivo di pensarlo, perché dobbiamo preoccuparci di quello che è un difetto molto generale delle istituzioni di qualsiasi tipo, cioè la loro tendenza a cominciare a vivere una vita propria, separata dall’ambiente che le ha create o che le ha richieste. Non c’è motivo di escludere la possibilità che una forma di polizia “ammissibile” all’inizio possa diventare odiosa a causa di abusi successivi. Ma riguardo all’imperativo di supervisionare i supervisori, o di sorvegliare i supervisori, le cose sono state dette da molto tempo.
La questione di “questa polizia”, della sua abolizione e del chiedersi cosa e come sostituirla, sta gradualmente diventando una riflessione inevitabile e necessaria a sinistra. Va bene, ma non finisce per prendere un posto troppo egemonico, soprattutto in diversi movimenti sociali o in alcuni media indipendenti, al punto da dimenticare i nostri obiettivi politici iniziali? Non cadiamo forse nella trappola di questo Stato repressivo, feticizzando la polizia come oggetto principale di protesta e di lotta (manifestazioni contro la violenza della polizia, comizi davanti a una determinata prefettura, ecc.), a scapito del razzismo sistemico in modo più globale, del furto di manodopera nell’impresa capitalista, o del controllo sociale permanente che grava sui poveri attraverso lo “Stato sociale”?
Non è illogico che la polizia diventi un punto di condensazione della congiuntura politica dal momento in cui il regime può resistere solo con la forza armata. Tuttavia, sono meno preoccupato di voi: non credo che i vari settori in lotta vengano inghiottiti, come voi suggerite, dal buco nero della “questione poliziesca” e perdano di vista le loro ragioni primarie per essere in lotta. Stando così le cose, sono sensibile alla vostra domanda perché mi sento molto preoccupato per il rischio di perdermi, tanto che il comportamento della polizia mi respinge. Il rischio di andare fuori strada, infatti, è quello di cominciare a pensare, come a volte faccio io, che la polizia sia “il problema numero uno” nella società francese. Ma io mi rimetto in sesto e vedo il disastro economico del neoliberismo, vedo, come il Comité Adama, che il problema è il razzismo istituzionale e la segregazione di cui sono vittime le popolazioni decoloniali, come i Gilets Jaunes, che il problema sono le abissali ingiustizie sociali, come gli attivisti per il clima che il problema è la devastazione capitalistica del pianeta, ecc… E non credo che nessuno di questi settori, essendo stati tutti confrontati con la violenza della polizia, abbia dimenticato cosa li ha spinti a scendere in strada.
Ora c’è anche un senso nel fare della polizia la questione numero uno: il senso delle considerazioni tattiche. Perché la polizia è l’unico e solo blocco. Abbiamo vissuto abbastanza a lungo l’incapacità definitiva dei meccanismi istituzionali, sia politici che sindacali, di ottenere qualcosa di significativo – e nella situazione attuale, è più che “significativo” quello che sarà necessario. La soluzione dell’ultima risorsa – la strada – rende fatale il confronto con la polizia. Quindi, in un certo senso, dato il suo ruolo di baluardo finale, sì, la questione della polizia, dello scontro della popolazione con la polizia, o della svolta della polizia, dal punto di vista di Eric Hazan, diventa centrale – ma a livello tattico. Non credo che ci siano molte persone inclini a confrontarsi con la polizia per il gusto di confrontarsi con la polizia. La gente si confronta con la polizia perché la polizia è l’ostacolo a qualcosa che è politicamente desiderato.
Aggiungo un’altra cosa: in una situazione di crisi organica sempre più profonda e nel processo di crollo della legittimità istituzionale, l’ipotesi di una “presa di potere” da parte delle forze armate – mettiamola così: un putsch – non sembra più del tutto fantasiosa. Non lo vedo dal punto di vista dell’esercito, ma dal punto di vista della polizia ho l’impressione che tutto sia diventato possibile a questo punto. O meglio, al punto in cui la polizia è arrivata: il punto di una milizia totalmente egocentrica, radicalmente tagliata fuori dalla società, rinchiusa nella fortezza della negazione e della destra, armata ovviamente, fascista al 50% se vogliamo credere agli studi sul suo comportamento elettorale.
Gli ultimi anni hanno dimostrato quanto possa essere tentato anche da comportamenti faziosi – dimostrazioni notturne in uniforme, con veicoli, ecc. Evoco questa ipotesi in modo un po’ distopico e fantascientifico, ma come uno scenario la cui probabilità, anche se probabilmente non molto elevata, non è più rigorosamente zero (a proposito, avete notato quanto la parola “distopia”, che era di uso molto ristretto, quasi accademico, abbia acquisito una diffusione notevolmente più ampia? se questo non è un segno dei tempi…). O il potere politico designato sarà abbastanza affascinato da se stesso da far sentire la polizia perfettamente a suo agio, o si stabilirà un assordante equilibrio di potere nell’apparato statale, con il quale la polizia assumerà l’ascendente su un potere ritenuto un po’ troppo morbido (un ascendente che si basa sul fatto che la polizia tiene in mano il destino di qualsiasi potere, che lo conosce, e che anche il potere lo conosce), oppure il potere non si piegherà (siamo qui nell’ipotesi eroica di un governo di sinistra), tutto è possibile. In ogni caso, la polizia è un problema molto serio, non il problema centrale ma, direi, il problema del collo di bottiglia: il problema vengono a confluire tutti gli altri problemi.
(prima parte dell’intervista a Frédéric Lordon)
traduzione di Andrea Mencarelli
da Contropiano