G8 2001. il pm: la coltellata fu inventata e il blitz nella sede del Gsf fu abusivo
La coltellata all’agente fu un’invenzione del celerino che disse di essere stato aggredito. E non fu certo un errore l’irruzione nel quartier generale del Genoa social forum di fronte alla Diaz. Il pm Francesco Cardona Albini parla con calma, senza enfasi alcuna. Ma anche senza alcuna ambiguità. E le versioni ufficiali sulla mattanza cilena nel dormitorio dei no global si sgretolano con l’avanzare della requisitoria. Ieri la terza udienza nell’aula bunker del Palazzo di Giustizia di Genova.
E i tempi della richiesta delle pene, tant’è la minuziosità della ricostruzione, slittano ancora. Non prima di mercoledì prossimo sarà possibile ascoltare le conclusioni della pubblica accusa nel procedimento che vede indagati a vario titolo 29 funzionari, anche alti, della polizia di stato imputati per le violenze e gli abusi che sfociarono nell’arresto illegittimo di 93 persone (62 delle quali gravemente ferite) da esibire a un’opinione pubblica imbarazzata dall’inerzia mostrata con le scorrerie dei cosiddetti black bloc.
Era la notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001. Ieri Cardona Albini ha rifatto la storia delle perizie sul giubbotto del celerino “accoltellato” e ha ricostruito l’irruzione nella scuola di fronte a quella del massacro. A caldo, l’agente, sostenuto da numerose testimonianze di colleghi, disse di essersi beccato un solo fendente. I Ris di Roma lo avrebbero smentito dicendo che c’era più di un taglio. Così il poliziotto cambiò versione ma i testimoni diretti si volatizzeranno trasformandosi in fonti indirette.
E i tagli sul giubbotto non corrisponderebbero a quelli sul corpetto sottostante. Per il pm si sarebbe inventato tutto, anche se uno dei difensori, in corridoio, prova a dire che quell’agente è un «semplice, uno incapace di mentire». Il pm non sembra avere dubbi: che sia «per un’intesa istantanea coi suoi superiori, o per un’adesione spontanea, fu una simulazione» e la versione ufficiale è «colma di incongruenze». Per esempio, nulla fu tentato per identificare l’aggressore. Insomma, la simulazione «serviva a dimostrare che ci fu una qualche resistenza armata», e il suo «recepimento acritico fu funzionale all’economia dell’operazione». E chi, più del VII nucleo della Celere, i Canterini boys, aveva «esigenza di dare conto della sproporzione tra aggressori e aggrediti»? Fu una «mossa istintiva e una poco ragionata risposta a quanto accaduto, prima attività di falsa rappresentazione generata dalla consapevolezza del danno, anche per giustificare i vertici».
Pure l’irruzione alla Pascoli, l’edificio di fronte, fu «funzionale all’operazione in corso alla Diaz. Non foss’altro che per impedire che dal media center si capisse tutto ciò che stava succedendo. Non potevano non sapere, almeno i capi dei 59 agenti che presero parte al blitz, che quella era la sede del Gsf. Fu anche staccata la spina di Radio Gap, è stato ricordato, nell’irruzione «determinata, che travolse agevolmente le barriere rudimentali messe per frenare l’irruenza delle guardie, con iniziale uso di manganelli».
La gente fu costretta faccia a terra o al muro, mani dietro la nuca, in ginocchio o seduta dagli uomini delle squadre mobili di Genova, Roma e Nuoro (con la pettorina), uomini dell’anticrimine (con divisa atlantica) pochi minuti dopo l’irruzione alla Diaz (per questo non regge la tesi dell’errore) mentre altri in borghese arraffavano o distruggevano quello che capitava: floppy disc, macchine fotografiche, telefonini, pezzi di computer, maschere antigas. La tensione si allenterà, in un’«atmosfera surreale», solo quando si materializzerà al 2° piano l’europarlamentare del Prc Luisa Morgantini e, dopo di lei, la deputata Prc Graziella Mascia e una troupe del Tg3 tanto che l’economista filippino, Walden Bello, era euforico quando esclamava con le mani ancora alzate: «Prensa! Prensa!».
Testimoni e video «consolidano il quadro investigativo» con «consistenti riscontri», secondo la pubblica accusa che spiegherà anche l’irruzione nella stanza dei legali da cui furono trafugati computer e liste cartacee. Durò almeno mezz’ora. Troppo davvero per avallare la tesi difensiva dell’errore. Non c’era sospetto della presenza di armi, non c’era alcun mandato: per il pm l’«abusività era evidente» come pure la «piena consapevolezza di un’operazione in parallelo con quella nell’altra scuola» «anche al fine di impedire di documentare quello che accadeva alla Diaz». E il catalogo dei reati è impressionante: perquisizione arbitraria, violenza privata, danneggiamenti dolosi aggravati, appropriazione indebita a seguito di danneggiamenti, peculato. Il materiale processuale è «significativo», s’è detto. «Purtroppo questo è successo».
E i tempi della richiesta delle pene, tant’è la minuziosità della ricostruzione, slittano ancora. Non prima di mercoledì prossimo sarà possibile ascoltare le conclusioni della pubblica accusa nel procedimento che vede indagati a vario titolo 29 funzionari, anche alti, della polizia di stato imputati per le violenze e gli abusi che sfociarono nell’arresto illegittimo di 93 persone (62 delle quali gravemente ferite) da esibire a un’opinione pubblica imbarazzata dall’inerzia mostrata con le scorrerie dei cosiddetti black bloc.
Era la notte tra il 21 e il 22 luglio del 2001. Ieri Cardona Albini ha rifatto la storia delle perizie sul giubbotto del celerino “accoltellato” e ha ricostruito l’irruzione nella scuola di fronte a quella del massacro. A caldo, l’agente, sostenuto da numerose testimonianze di colleghi, disse di essersi beccato un solo fendente. I Ris di Roma lo avrebbero smentito dicendo che c’era più di un taglio. Così il poliziotto cambiò versione ma i testimoni diretti si volatizzeranno trasformandosi in fonti indirette.
E i tagli sul giubbotto non corrisponderebbero a quelli sul corpetto sottostante. Per il pm si sarebbe inventato tutto, anche se uno dei difensori, in corridoio, prova a dire che quell’agente è un «semplice, uno incapace di mentire». Il pm non sembra avere dubbi: che sia «per un’intesa istantanea coi suoi superiori, o per un’adesione spontanea, fu una simulazione» e la versione ufficiale è «colma di incongruenze». Per esempio, nulla fu tentato per identificare l’aggressore. Insomma, la simulazione «serviva a dimostrare che ci fu una qualche resistenza armata», e il suo «recepimento acritico fu funzionale all’economia dell’operazione». E chi, più del VII nucleo della Celere, i Canterini boys, aveva «esigenza di dare conto della sproporzione tra aggressori e aggrediti»? Fu una «mossa istintiva e una poco ragionata risposta a quanto accaduto, prima attività di falsa rappresentazione generata dalla consapevolezza del danno, anche per giustificare i vertici».
Pure l’irruzione alla Pascoli, l’edificio di fronte, fu «funzionale all’operazione in corso alla Diaz. Non foss’altro che per impedire che dal media center si capisse tutto ciò che stava succedendo. Non potevano non sapere, almeno i capi dei 59 agenti che presero parte al blitz, che quella era la sede del Gsf. Fu anche staccata la spina di Radio Gap, è stato ricordato, nell’irruzione «determinata, che travolse agevolmente le barriere rudimentali messe per frenare l’irruenza delle guardie, con iniziale uso di manganelli».
La gente fu costretta faccia a terra o al muro, mani dietro la nuca, in ginocchio o seduta dagli uomini delle squadre mobili di Genova, Roma e Nuoro (con la pettorina), uomini dell’anticrimine (con divisa atlantica) pochi minuti dopo l’irruzione alla Diaz (per questo non regge la tesi dell’errore) mentre altri in borghese arraffavano o distruggevano quello che capitava: floppy disc, macchine fotografiche, telefonini, pezzi di computer, maschere antigas. La tensione si allenterà, in un’«atmosfera surreale», solo quando si materializzerà al 2° piano l’europarlamentare del Prc Luisa Morgantini e, dopo di lei, la deputata Prc Graziella Mascia e una troupe del Tg3 tanto che l’economista filippino, Walden Bello, era euforico quando esclamava con le mani ancora alzate: «Prensa! Prensa!».
Testimoni e video «consolidano il quadro investigativo» con «consistenti riscontri», secondo la pubblica accusa che spiegherà anche l’irruzione nella stanza dei legali da cui furono trafugati computer e liste cartacee. Durò almeno mezz’ora. Troppo davvero per avallare la tesi difensiva dell’errore. Non c’era sospetto della presenza di armi, non c’era alcun mandato: per il pm l’«abusività era evidente» come pure la «piena consapevolezza di un’operazione in parallelo con quella nell’altra scuola» «anche al fine di impedire di documentare quello che accadeva alla Diaz». E il catalogo dei reati è impressionante: perquisizione arbitraria, violenza privata, danneggiamenti dolosi aggravati, appropriazione indebita a seguito di danneggiamenti, peculato. Il materiale processuale è «significativo», s’è detto. «Purtroppo questo è successo».
Checchino Antonini
Rassegna stampa:
IL SECOLO XIX – «La polizia mentì anche sulla Pascoli»
IL MANIFESTO – «Nessuna coltellata alla scuola Diaz»
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