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G8Genova2001: “La svolta repressiva fu impressa da De Gennaro”

Enrico Zucca è stato il magistrato che, come pubblico ministero, ha condotto l’accusa verso i vertici della polizia per l’incursione alla scuola Diaz di Genova, il 21 luglio del 2001, la nota «macelleria messicana»

Dottor Zucca, cosa rimane di quella sentenza di condanna, l’unica a carico degli apparati dello Stato, verso i vertici della polizia dopo la sentenza della Cassazione che ha confermato il vostro impianto accusatorio?

L’impianto accusatorio che è stato confermato dall’appello e dalla Cassazione va oltre le prospettive dell’accusa e, a differenza della vulgata imperante, sposta l’accento sulle responsabilità e sulle vere e proprie “messa in scena” dei funzionari apicali di allora. L’uomo nero non è tanto chi ha portato bottiglie alla Diaz ma chi le ha utilizzate come prove false. Sotto il controllo e la direzione dei vertici degli uffici di eccellenza investigativa della Polizia. Questo risultato, in qualche modo, rende irrilevante la questione della catena di comando in questo caso schierata sul campo che è stata quindi coinvolta dalla “devianza”. È un fatto acclarato che la svolta repressiva venne impressa dal capo della Polizia di allora, Gianni De Gennaro, per quanto questo non abbia implicato la piena autonomia e responsabilità dei poliziotti condannati nell’aver violato loro le leggi. Questo è il punto più importante del processo sulla Diaz.

Quel processo però, nei fatti, rimane non tanto per le conseguenze reali per i condannati, molti prescritti altri promossi, l’unico elemento di verità, sancito con una sentenza, a carico dei vertici dello Stato per le giornate genovesi.

Il processo ai poliziotti, a quei poliziotti, non lo voleva nessuno. In Parlamento i vertici della polizia responsabili del disastro genovese hanno ricevuto più ringraziamenti che critiche. Non è un mistero, la polizia fa quello che le si chiede di fare. Ma anche i pubblici ministeri, che ancora non rispondono alla politica, hanno percorso la loro strada. Con successo.

L’ex capo della Polizia Franco Gabrielli, in una lunga e articolata intervista del 2017 parlò di “catastrofe” nella gestione del G8 di Genova assolvendo, in parte, dalle responsabilità i singoli agenti, definiti “fusibili del sistema” e concentrandosi anche lui, come la sentenza sulla Diaz, sulle responsabilità dei vertici. Condivide questa lettura dell’attuale sottosegretario?

Gabrielli parla, in quella intervista, di una “cultura dell’ordine pubblico che scommetteva sul pattuglione”, la cui presenza in polizia è stata oggetto di negazione caparbia durante il nostro lungo iter processuale. Gabrielli non dice quando questa cultura è stata superata e se nella dirigenza successiva si sia avuto la stessa presa di distanza che lui stesso ha avviato. In questi anni abbiamo visto ancora molte volte il comportamento di poliziotti che hanno continuato a mentire, pur a rischio di essere smascherati. Io credo che per modificare questi comportamenti sia necessario discutere sulle regole di ingaggio. Se si richiede il risultato a qualunque costo, la scorciatoia è sempre percorsa e richiama copertura conseguente. Piuttosto, come si impedisce ai poliziotti di falsificare le prove come hanno largamente dimostrato di saper fare? Se si pensasse a questo problema si rafforzerebbe il ruolo del P.M. come garante della legalità della loro azione e quest’ultimo dovrebbe non avere imbarazzo, come ha avuto anche nel G8, a controllare e reprimere. La direzione opposta alla separazione delle carriere.

In queste settimane si è infuocato il dibattito sulla cosiddetta “riforma Cartabia” dettata, secondo i sostenitori della proposta, da motivi cogenti legati a quanto ci chiede l’Europa eppure, proprio la corte europea dei diritti umani ci aveva richiesta una legge contro la tortura che, solo nel 2017, ha visto la luce con moltissimi limiti.

L’approvazione di una legge che codifichi la nozione di “tortura”, è stata un’impresa sempre fallita in parlamento in violazione dell’obbligo derivante dalla convenzione Onu che la imponeva dal 1984. Il testo definitivo della legge promulgata nel luglio 2017 ne ha limitato l’applicazione perché risente dell’enorme compromesso imposto apertamente dai vertici delle stesse forze di polizia, che paventavano la paralisi della loro azione. Ci siamo trovati di fronte a un cedimento sull’applicazione puntuale degli obblighi convenzionali che prevedono un divieto assoluto. Di fatto le norme approvate difficilmente sarebbero applicabili proprio ai fatti genovesi.

La procura di Genova è stata accusata di teoremi perché aveva osato indagare proprio la catena di comando che, nel caso della Diaz, era dispiegata interamente sul campo. È evidente che i tanti agenti che hanno torturato senza essere identificati sono in servizio. Ma gli ignoti possono contare sul fatto che anche i vertici condannati per averli coperti, sono tornati senza infamia nel corpo. Così consolidando le violazioni convenzionali.

Il filo rosso delle varie condanne della Corte di Strasburgo negli ultimi 20 anni dimostra che quando la tortura emerge è solo apparentemente sporadica. Si ha infatti paura di riconoscere che la tortura è per sua natura “istituzionale”, perché ha necessità di tecniche, addestramento e pratica: non esiste neppure nella fiction il “torturatore solitario”. Già dai tempi del G8 il fenomeno doveva essere affrontato come tale. Non si tortura alla Diaz e a Bolzaneto se non si è già capaci e pronti a farlo. Con Genova 2001 appare chiara un’altra cosa: i diritti garantiti dalla democrazia e scritti nelle carte fondamentali non lo sono tuttavia per sempre e ad ogni costo, come il modello presuppone. I fatti del G8 hanno mostrato ciò che sarebbe poi successo in questi due ultimi decenni durante i quali si è praticata la tortura non più nel segreto ma cercandone, dopo secoli, una qualche giustificazione legale.

E secondo lei perché questo avviene?

Io credo che questo avvenga quando una democrazia ha paura del conflitto e, quindi, muta la sua stessa caratteristica. Sono d’accordo con chi sostiene che il modo migliore per difendere la democrazia sia quello di attaccarla con le critiche, la protesta e il dissenso. Così la si rafforza non la si indebolisce.

intervista a cura di Roberto Pietrobon per il manifesto