La nuova collana “Ultima Ratio”, dell’Editoriale Scientifica di Napoli, è inaugurata da un libro importante: una raccolta di contributi teorici sul diritto penale firmata da Luigi Ferrajoli (Il paradigma garantista. Filosofia e critica del diritto penale, Napoli 2014). Si tratta di una selezione sistematica di scritti, riconducibili agli ultimi trent’anni di ricerche del noto filosofo del diritto. L’edizione è ordinata e messa a punto da Dario Ippolito e Simone Spina, autori anche di un’utile presentazione.
La prima parte del libro è dedicata in modo stringente a una corretta definizione del garantismo, fondata sulla sua valenza costitutiva nel diritto penale moderno. Come eredità dell’illuminismo giuridico, il garantismo è l’espressione più compiuta della tutela dei diritti alla vita o alla libertà personale, sia nella forma della “garanzia” del funzionamento giudiziario, sia in chiave protettiva rispetto agli abusi del potere punitivo. È certamente paradossale che in alcuni settori dell’opinione pubblica, specialmente quella orientata secondo gli schemi culturali di una porzione del mondo politico oggi trasversale agli schieramenti, essere garantisti sia divenuto sinonimo di insofferenza nei confronti dell’azione legale.
Il garantismo è in realtà la massima valorizzazione del controllo giuridico, esercitato non solo nei confronti del reo, o presunto tale, ma anche verso il potere che accusa o esercita l’azione penale. Ne discende la teoria del diritto penale minimo, ereditata dalla massima di Beccaria secondo la quale la pena “dev’essere la minima delle possibili nelle date circostanze” (Dei delitti e delle pene, Einaudi 1981, p. 104). Il potere presuntivamente deterrente della pena, infatti, non va inteso solo come dispositivo capace di prevenire il reato, ma anche di minimizzare le punizioni arbitrarie, o peggio ancora, la vendetta privata (ne cives ad arma veniunt). La proposta di Ferrajoli sembra strutturata sulla base della seguente inferenza: una pena minima non è una non-pena, e pertanto conserva la propria capacità di deterrenza. Ma non è neanche una pena arbitraria, e grazie a questa sua “misura” garantisce il reo dagli eccessi punitivi. Mi pare molto interessante. Infatti qualora noi negassimo la capacità di deterrenza della pena massima (quella capitale) rispetto ai dati reali dei crimini commessi (come lo stesso Ferrajoli decide di fare), non possiamo non riconoscere che la negazione di quella tipologia punitiva preservi il reo da un abuso di potere.
Ma se la pena di morte non costituisce un effettivo potenziale deterrente, per quale motivo una pena inferiore dovrebbe mantenere la sua capacità di prevenzione? Probabilmente dal punto di vista tecnico è così, ma a me pare opaca la necessità logica. E inoltre: come può una pena minima garantire protezione al reo rispetto al rischio della vendetta privata? Non può darsi il caso in cui chi ha subito un’aggressione reputi del tutto inadeguata la pena comminata al colpevole, e decida in qualche modo di “aggravarla” autonomamente? La pena minima, in questo senso, non sembrerebbe completamente in grado di evitare la giustizia sommaria. Occorre però essere onesti nel riconoscere che probabilmente una soluzione teorica a questo nodo problematico non è agevole da definire.
Ma molto più esplicita e forte è la presa di posizione di Ferrajoli rispetto alla grave assenza di garanzie penali. Su questo punto l’autore ricorre forse a un’espressione iperbolica e difficilmente dimostrabile, ma che rende bene l’idea della vis polemica di cui sono animate queste pagine, che non vogliono affatto essere un esercizio di mero tecnicismo specialistico: “è facile rilevare che la storia delle pene e dei processi è stata nel suo complesso assai più infamante per l’umanità della storia dei delitti […] la violenza degli abusi polizieschi e punitivi supera in brutalità la violenza dei delitti” (p. 21). Il garantismo è dunque da leggere in questa doppia chiave di difesa, che è sempre riconducibile al principio della tutela del debole contro il forte, perché “la sicurezza e le libertà fondamentali sono spesso minacciate dagli apparati repressivi non meno che dalla criminalità” (id.). Ed è anche vero che oggi il carcere, di fatto, è divenuto uno strumento di controllo e repressione delle marginalità sociali. Le sofferenze inflitte dagli istituti penitenziari sono enormi, vi si puniscono reati di scarsa rilevanza sociale e per giunta difficilissimi da prevenire (le recidive legate al crimine di sussistenza difficilmente è evitata dalla minaccia della reclusione). I processi penali sono ormai eccessivi e resi ingestibili da una legislazione ipertrofica. Per questa ragione l’autore sollecita una rapida depenalizzazione. In compenso, la pena dovrebbe esser certa.
Ma le diseguaglianze nel nostro sistema penale diventano ancor più gravi quando si prende in considerazione il diritto di difesa. L’attribuzione di un avvocato d’ufficio, infatti, come unico elemento di tutela dell’imputato privo di mezzi, ha generato una presenza eccezionale di poveri nelle carceri, mentre molto difficile per i giudici è comminare pene detentive nei confronti dei colletti bianchi, pur non essendo questi ultimi estranei a fatti criminosi. Rispetto al tipo di crimini oggi fattivamente perseguiti attraverso la reclusione carceraria, “la prevenzione di questo tipo di delinquenza richiede politiche sociali ben più che politiche penali: politiche di inclusione e non politiche di esclusione” (p 236). In tale logica va dunque interpretato l’appello di Ferrajoli all’istituzione di un pubblico ministero di difesa, come superamento dell’avvocato d’ufficio: una misura di garanzia dell’imputato. Ferrajoli sostiene che il difensore d’ufficio, che si concepisce solo in una funzione “rituale e burocratica”, in quanto “di solito disimpegnato”, costituisce di fatto solo un “simulacro di difesa”. Non mi è chiaro, a dire il vero, perché la pur interessante figura del pubblico ministero di difesa dovrebbe trovare motivazioni ulteriori, rispetto a quelle dell’avvocato d’ufficio.
Molto interessanti, infine, le argomentazioni critiche di Ferrajoli contro l’ergastolo e la pena di morte. Meritano senz’altro un’attenzione speciale, che potrà senz’altro sollecitare la meditazione dei lettori più interessati all’evoluzione filosofica del rapporto con la pena capitale, e con la problematicità della posizione assiologica di valori come quello della vita e della libertà.
Carlo Scognamiglio da popoff