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A Gaza è in atto un genocidio

Intervista a Raniero La Valle.”Si stanno consumando tre tragedie: quella dei palestinesi nella Striscia, quella dello Stato di Israele, messo in pericolo dalla propria azione. E la tragedia della religione ebraica, che con quello Stato rischia di essere identificata”

di Umberto De Giovannangeli 

Raniero La Valle – scrittore, saggista, politico, giornalista di punta della Rai nel periodo aureo del servizio pubblico radiotelevisivo, cattolico, cronista, analista e interprete del Concilio, ex direttore dell’Avvenire, ricchissima vicenda politica alle spalle, sempre a sinistra – regala ai lettori una intervista-lezione che ha come filo conduttore la tragedia che si sta consumando in Terrasanta. A Gaza, ma anche in Israele.

Quale chiave di lettura può essere data della tragedia che in questi giorni, in queste ore, si sta consumando a Gaza?
Di tragedie ce ne sono tre. La prima è la tragedia che si sta abbattendo su Gaza. Secondo un linguaggio comune, corrente, non si può definire genocidio, perché genocidio vuol dire, nell’idea comune, la distruzione di un intero popolo. Però se si prende il genocidio nel senso specifico, tecnico, che è stato usato dall’Onu nella Risoluzione del 1946 e poi nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio, allora quello che si sta perpetrando nella Striscia di Gaza è un genocidio. Perché secondo questa definizione, genocidio è l’uccisione o il tentativo di distruzione anche di una parte o singoli membri di un popolo in quanto appartengono a quel popolo, oppure appartengono ad un gruppo etnico, razziale, religioso, politico come tale. In questo senso specifico è certamente un genocidio in corso, perché c’è una intera popolazione di un’intera area geografica che è condannata ad essere senza acqua, senza cibo, senza elettricità, senza ospedali…Da questo punto di vista è una tragedia. La domanda è perché tutto il mondo, tranne Ernesto Galli della Loggia e pochi altri, dicono a Israele che non deve entrare a Gaza e completare l’opera di distruzione…

Domanda fondamentale. E qual è la sua risposta?
Perché il mondo intero teme un’altra tragedia. Che è la tragedia dello Stato d’Israele, il quale se continua su questa strada su cui lo ha messo Netanyahu, certamente otterrà una vendetta, una rappresaglia rispetto alla terribile offesa, al terribile attacco e aggressione che ha subito da Hamas, ma si mette in pericolo, a rischio. Perché compie un’azione che dalla grandissima maggioranza del mondo e dalle stesse Nazioni Unite è riprovata, considerata eccessiva, non umana. Questo mette in pericolo lo Stato d’Israele. E vorrei dire che il pericolo, che molti israeliani addebitano a Netanyahu perché non è stato capace di prevenire l’attacco che hanno subìto il 7 Ottobre sul confine della Striscia di Gaza, in realtà risale a Netanyahu molto prima. Non va dimenticato che Netanyahu per più di tredici anni è stato al governo d’Israele, e l’ultimo scempio che stava tentando di fare era quello contro le istituzioni fondamentali dello Stato, a cominciare dalla magistratura. Questo ci porta a dire la terza tragedia che io vedo e che viene invece meno rilevata e considerata o non considerata da una cultura occidentale, che non è abituata più a ragionare in questi termini.

Quale sarebbe questa terza tragedia?
È la tragedia dell’ebraismo come religione. Dell’ebraismo come comunità religiosa, come fede, come patrimonio, come tradizione. Il rischio che sta subendo oggi l’ebraismo è la sua identificazione assoluta con lo Stato d’Israele, la qualcosa fa sì che qualsiasi giudizio che si dia sullo Stato d’Israele, buono o cattivo, e in questo momento è in maggior parte un giudizio severo e di critica, sia come sia, questo giudizio s’infrange e si estende all’ebraismo stesso. E questo non per un abuso degli osservatori esterni, ma perché questa è la stessa identità che ha rivendicato a sé lo Stato d’Israele. Ma attenzione. Non all’inizio del sionismo. Perché quando il sionismo ha cominciato la sua battaglia, all’inizio dell’altro secolo, aveva in mente la collocazione degli ebrei in una terra che fosse loro, in cui si unisse democrazia e sionismo. Questa è stata ancora l’idea fondativa, l’idea originaria, su cui si è costituito lo Stato d’Israele nel 1948, tanto è vero che tutti ancora adesso, stancamente, ripetono come un mantra, che Israele è l’unica democrazia del Medio Oriente. Che cosa è successo, però? È successo che nella lunga e perversa gestione politica di Netanyahu dello Stato d’Israele, è arrivata nel 2018 una Legge costituzionale che questi ha voluto e che ha potuto varare perché, non avendo avuto una maggioranza nelle elezioni, si era alleato con i partiti religiosi, ultraortodossi, estremisti della destra, ottenendo così una maggioranza risicata alla Knesset, il parlamento israeliano. E con questa maggioranza risicata ha fatto approvare alla Knesset una Legge costituzionale con cui è stata cambiata l’identità dello Stato d’Israele. Se prima lo Stato d’Israele era uno Stato democratico, con quella legge del luglio 2018, viene trasformato nello “Stato nazione del popolo ebreo”. In questa legge d’identità, ci sono tre pilastri che spiegano tutto quello che è venuto dopo e in qualche modo, se vengono mantenuti, attestano anche la impossibilità di risolvere il problema israelo-palestinese. Per cui questa ripetizione della proposta di “due popoli, due Stati”, anche se fatta in buona fede, non ha in questo momento, come del resto non l’ha avuta per tutti questi decenni, alcuna possibilità di realizzazione.

Quali sono i pilastri di questa legge sullo Stato ebraico?
Il primo è il riferimento è alla terra. Alla sacra terra di Eretz Israel. L’insediamento in quella terra viene definito come un diritto naturale. Quindi non è un diritto politico, non è un diritto che nasce, come per tutti gli altri popoli o Stati, da una vicenda culturale, storica o di nascita, ma è considerato un diritto naturale. Da questa declinazione discende che il diritto di esercitare l’autodeterminazione nazionale nello Stato d’Israele è esclusivamente per il popolo ebraico. Lo sto leggendo dal paragrafo C del primo principio fondamentale. Quindi si afferma che il popolo ebraico è l’unico ad avere il diritto di autodeterminazione nello Stato. Autodeterminazione vuol dire la sovranità, vuol dire i diritti politici. Perciò, se questo popolo è l’unico ad avere i diritti politici, viene definito per Costituzione che nessun altro popolo li possa avere.
Ne discende che per ciò che concerne il popolo palestinese, non è questione solamente che deve essere tenuto in una condizione di minorità, ma non deve esistere. Non deve esistere perché non può avere una esistenza politica, cioè non può avere una esistenza reale. Da qui discendono gli altri due pilastri della legge costituzionale ebraica.

Quali?
Il primo è che viene rivendicata, come capitale dello Stato, Gerusalemme “integra e unita”. Il che vuol dire che non è possibile pensare a una Gerusalemme Est in cui sia insediato un eventuale governo palestinese. Gerusalemme è definita per legge costituzionale indivisibile. Una e indivisibile. Le istanze della comunità internazionale di fare di Gerusalemme la capitale, certo d’Israele ma anche la capitale della Palestina, sono cancellate, escluse da questa legge. L’altro pilastro dei tre, è quello che riguarda le colonie. Punto 7, insediamenti ebraici. Cito testualmente: “Lo Stato considera lo sviluppo di insediamenti ebraici come valore nazionale e agirà per incoraggiare e promuoverne l’insediamento e il consolidamento”. Se si parla di insediamenti, evidentemente non si parla della terra originariamente d’Israele. Si parla della presenza dei coloni ebraici nei territori occupati, cioè nella Cisgiordania, a Gerusalemme, nell’area che è stata acquisita, conquistata, da Israele nella Guerra dei Sei giorni del ’67. E quindi le colonie. E quindi i 700mila coloni che oggi in 270 insediamenti sono sparsi in tutta la Cisgiordania. Su una popolazione di 3 milioni di palestinese, quindi con una proporzione molto considerevole, innaturale rispetto ad una terra che è terra dei palestinesi. E questa è l’altra cosa che rende impossibile pensare ad uno Stato palestinese, anche perché questi insediamenti sono fatti a rete, collegati gli uni con gli altri, per cui resta una pelle di leopardo per i palestinesi.
Infine, l’ultimo pilastro è che la competenza dello Stato d’Israele, cosa che non esiste per nessun altro Stato al mondo, viene estesa agli ebrei della diaspora, cioè agli ebrei che vivono in qualsiasi altra parte del mondo e che non stanno in Israele. Infatti dice l’articolo 6 – collegamento con il popolo ebraico – “Lo Stato agirà nell’ambito della diaspora per rafforzare l’affinità fra essa e i membri del popolo ebraico”, e poi “Lo Stato agirà per preservare il patrimonio culturale, storico, religioso del popolo ebraico fra gli ebrei della diaspora”. Il che vuol dire una competenza generale dello Stato d’Israele che si estende a tutti i membri del popolo ebraico che sono sparsi nel mondo. Questa identificazione dello Stato così concepito con il popolo ebreo – che si chiama popolo ebreo non tanto e non solo per l’etnia, ma per la fede d’Israele, per la grande tradizione biblica, per la grande storia che è l’ebraismo, per il messaggio dei profeti, la tradizione della Torah, il peso che tutto ciò ha avuto avuto nel mondo – questa identificazione, dicevo, viene legata a questo momento specifico dell’esistenza politica dello Stato d’Israele, e quindi nel pericolo che lo Stato d’Israele in questo momento sta correndo viene coinvolto in toto l’ebraismo.
Se una angoscia c’è da avere, questa angoscia, come la chiama un grande ebreo, filosofo e scienziato, Yehuda Elkana, che ha scritto contro questa angoscia esistenziale che gli ebrei hanno mantenuto dopo l’immane tragedia della Shoah, ebbene tale angoscia, per usare questa parola, è un’angoscia che riguarda Gaza, riguarda lo Stato d’Israele, ma riguarda la religione stessa dell’ebraismo.

Alla luce di tutte queste importanti considerazioni, siamo davvero in una situazione senza via d’uscita?
La via di uscita è che ci sia una conversione di questi elementi, di queste realtà. È evidente che non basta né una soluzione puramente giuridica né una soluzione di un compromesso fragile e revocabile. Qui si scontrano grandi forze, anche militari. Probabilmente, su questo piano, lo Stato d’Israele riesce a superare il pericolo di oggi, perché è una grande potenza militare, perché è un avamposto degli Stati Uniti in Medio Oriente, perché ha una ovvia solidarietà della maggior parte della comunità internazionale, soprattutto di quella occidentale. È possibile, altamente probabile, che lo Stato d’Israele che ha subito e che sta provocando, possa superare il pericolo. Però non è possibile che questa situazione si possa sanare. E per i palestinesi e per l’ebraismo. Perché questa cosa non accada, bisogna che tutte e tre queste realtà passino attraverso una profonda conversione. Per quanto riguarda i palestinesi, sempre di più si deve affermare la distinzione tra il popolo palestinese e le frange estremistiche o addirittura terroristiche che compromettono la vita, l’esistenza, la causa, i diritti sacrosanti del popolo palestinese. Una conversione profonda dello Stato d’Israele che non può più continuare a identificarsi, simpliciter, con la religione ebraica. E poi anche una conversione dell’ebraismo, che non è una prepotenza che viene detta ed esercitata dal di fuori, perché questa conversione l’ha subita anche il cristianesimo.

Vale a dire?
Anche il cristianesimo è passato attraverso una fase che è durata quasi mille anni, la fase di “cristianità”, che secondo uno storico austriaco, ben noto a papa Francesco, Friedrich Heer, ha rappresentato il tentativo dell’instaurazione di uno Stato totalitario europeo, da Costantino a Hitler. Il cristianesimo è uscito da questo attraverso il superamento del regime di cristianità, del regime costantiniano, la grande revisione fatta nel Concilio vaticano II e che oggi viene così mirabilmente espressa da papa Francesco. Che le religioni abbiano bisogno di una continua presa di coscienza di se stesse, di andare nel profondo della propria tradizione e riuscire ad interpretare le proprie stesse pagine fondatrici in un modo che sia corrispondente alle esigenze dei tempi, è una cosa che le riguarda tutte, e dunque anche l’ebraismo. Io penso che il dialogo ebraico-cristiano, che è una grande conquista di questi ultimi decenni, un grande valore, a cui sono arrivati con piena convinzione i cattolici della Chiesa romana ma anche delle altre confessioni, in cui è cominciato ad entrare anche l’ebraismo, questo dialogo ebraico-cristiano, da preservare e rafforzare, debba riuscire ad aiutare reciprocamente gli uni e gli altri a convertirsi. La soluzione non è per domani, è una soluzione a lungo termine, ma è importante che almeno venga avviata, se c’è una volontà sincera di rivedere le cause che hanno portato alla tragedia attuale, che può anche degenerare in una guerra mondiale.

da l’Unità

 

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