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Gaza: “Giornalisticidio”, un reporter ucciso ogni giorno

Reporter palestinesi sotto tiro, per Israele sono tutti «terroristi» Sale a 109 il numero dei giornalisti uccisi dopo il 7 ottobre nella Striscia di Gaza dall’esercito israeliano. Il mestiere di informare equiparato a «terrorismo». Ieri la giornata più sanguinosa dall’inizio dell’anno: 240 morti

di Michele Giorgio da il manifesto

Hanno fatto il giro delle case palestinesi e del mondo intero le immagini di Wael Dahdouh, capo della sede di Al Jazeera a Gaza, che rende omaggio al figlio giornalista Hamza ucciso due giorni fa insieme al collega Mustafa Thuraya in un attacco aereo israeliano a Rafah. Forte il dolore di Dahdouh che ad ottobre aveva già perduto la moglie, un figlio, una figlia e un nipote in un raid aereo. Profondo è il dolore per tutti i giornalisti di Gaza che conoscevano bene Hamza e Mustafa, gli ultimi nomi tra 109 operatori palestinesi dell’informazione uccisi dal 7 ottobre. I due free lance talvolta lavoravano anche per media stranieri. Per il Jerusalem Post invece Hamza e Mustafa erano solo dei «presunti» reporter, a conferma dell’idea generale che si ha nei media israeliani dei colleghi palestinesi: attivisti politici se non addirittura «terroristi» che si presentano come giornalisti senza esserlo in realtà. Non sorprende che la morte di tanti reporter palestinesi non abbia suscitato reazioni apprezzabili tra i giornalisti israeliani, con qualche rara eccezione. Sempre il Jerusalem Post si è affrettato a sottolineare che i due «presunti» giornalisti uccisi, per l’Esercito erano «terroristi impegnati in attività che minacciavano la sicurezza» delle forze militari israeliane. Perché avevano alzato in volo un drone (per fare delle riprese dall’alto). «Le forze armate israeliane non hanno mai e non prenderanno mai di mira deliberatamente i giornalisti», ha ripetuto il portavoce militare. Eppure, ogni giorno, si allunga l’elenco di giornalisti uccisi.

Antony Blinken, che quasi al termine del tour mediorientale sostiene di aver trovato i leader di Emirati e Arabia saudita e di altri paesi arabi determinati a impedire che il conflitto tra Israele e Hamas a Gaza si estenda, è giunto ieri sera in Israele, accolto dalla giornata più insanguinata dall’inizio dell’anno. Che potrebbe rendere vano l’impegno che il segretario di Stato starebbe portando avanti per impedire un allargamento del conflitto nella regione. Ore prima del suo arrivo, Israele ha assassinato in territorio libanese, a 10 km dal confine, Wissam Al Tawil, uno dei principali comandanti militari di Hezbollah. Un colpo duro che spinge verso il baratro di una guerra vera e propria tra Israele e il movimento sciita libanese. L’assassinio di Al Tawil è stato accolto con soddisfazione dai comandi militari israeliani e dal gabinetto di guerra guidato dal premier Netanyahu. Si sarebbe trattato di una risposta all’attacco di Hezbollah contro le postazioni radar e di intelligence di Israele al Monte Meron, che sua volta era stata una reazione all’assassinio di Saleh Aruri, il numero due di Hamas, compiuto da Israele la scorsa settimana a Beirut.

Israele comunica di aver ammazzato a Gaza un comandante militare, di Hamas, nel quadro della cosiddetta terza fase dell’offensiva di terra. Questi omicidi e gli attacchi violenti e improvvisi «contro Hamas» a Khan Yunis in particolare, sarebbero un aspetto di questa nuova fase che vede l’esercito israeliano anche impegnato a creare un corridoio da est a ovest fino alla costa, poco sotto Gaza city, volto a spaccare in due la Striscia. In questo modo l’Esercito, oltre a consolidare il controllo completo del nord di Gaza annunciato nei giorni scorsi, può tenere confinati in appena 200 kmq di territorio meridionale circa due milioni di palestinesi, lanciando operazioni mirate in determinate aree per mesi e mesi, fino a raggiungere, afferma Tel Aviv, la «distruzione di Hamas». Che nel frattempo non appare affatto morto e lancia razzi, ieri anche verso Tel Aviv, e realizza agguati contro le truppe occupanti. I comandi militari sostengono di sapere dove si nasconda il capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, ma, spiegano i media, non lo colpirebbero perché si troverebbe in tunnel sotterranei assieme a decine dei circa 130 ostaggi israeliani. Alcuni dei sequestrati sono prigionieri di altre organizzazioni armate. Ieri il Jihad islami ha diffuso un video in cui appare un ostaggio nelle sue mani.

Gli attacchi israeliani nella notte di domenica e ieri hanno causato il più alto numero di vittime palestinesi giornaliere dall’inizio del 2024. Le forze israeliane hanno bombardato la parte orientale di Khan Younis e il centro della Striscia. A Deir al Balah, 18 membri della stessa famiglia sono stati uccisi nel sonno da una bomba ad alto potenziale. 247 persone sono state uccise in 24 ore secondo i dati del ministero della sanità che ha aggiornato a 23.084 il numero totale dei palestinesi morti sotto i bombardamenti. Da giorni è sotto pressione per l’elevato numero di feriti l’ospedale Al Aqsa, dichiarato zona rossa da Israele, e dal quale sono andate via le ong internazionali, come la britannica Medical Aid for Palestine, perché non ci sono più le condizioni di sicurezza per il suo personale medico. Quasi tutti i 2,3 milioni di abitanti di Gaza sono fuggiti dalle proprie case almeno una volta e molti si stanno spostando di nuovo, spesso rifugiandosi in tende improvvisate o rannicchiati sotto teloni cerati. Centinaia di famiglie di Rafah stanno scappando dalle loro abitazioni sotto la spinta, denunciano fonti locali, dei carri armati israeliani che avanzano.

A Gerusalemme ieri mattina, dozzine di israeliani, hanno bloccato la strada di ingresso della Knesset al grido «Dimettiti» rivolto a Netanyahu. Il premier è accusato di usare la guerra e i suoi tempi in apparenza ancora lunghi per prolungare il suo potere e provare a recuperare i consensi perduti il 7 ottobre con l’attacco a sorpresa di Hamas.

Parla Shuruq Asad, la portavoce del Sindacato in Palestina: «Fare informazione nella Striscia significa essere sfollati in una tenda, poter morire ogni minuto»

Parla di «giornalisticidio» il Sindacato dei giornalisti palestinesi nel comunicato scritto a poche ore dall’uccisione, domenica, di due reporter palestinesi a Gaza, Hamza Dahdouh e Mustafa Thuria. Hamza era il figlio maggiore di Wael Dahdouh, responsabile di al Jazeera nella Striscia, divenuto il volto dell’attacco all’informazione palestinese: in un precedente bombardamento mirato contro la sua casa aveva perso la moglie, la figlia, un figlio e un nipote; in un secondo, era stato ferito al braccio, mentre il suo cameraman – Samer Abu Daqqa – moriva dissanguato. Poche ore dopo ogni perdita ha ripreso il mano il microfono e continuato il suo lavoro.Gaza è oggi considerata il luogo più pericoloso al mondo in cui fare giornalismo. Ne abbiamo parlato con Shuruq Asad, la giornalista palestinese di Gerusalemme portavoce del Sindacato.

Sono 107 i giornalisti di Gaza uccisi dal 7 ottobre. Parlate di «campagna deliberata» per mettere sotto silenzio l’informazione palestinese e «nascondere la verità sulle atrocità di massa compiute da Israele». Cosa significa essere un giornalista oggi a Gaza?
Significa che puoi perdere la vita ogni minuto, perdere la tua famiglia ogni minuto. Significa che sei sfollato dalla tua casa, dal tuo ufficio, dal tuo quartiere. Non hai accesso a internet, all’elettricità, al carburante per viaggiare e lavorare. Significa stare in una tenda al freddo e sotto la pioggia. Significa che non puoi raggiungere i luoghi che hai diritto di raggiungere. Se vieni ferito non hai accesso a cure mediche. Abbiamo perso un collega appena quattro giorni fa: Israele ha rifiutato di evacuarlo per motivi medici.

Non solo uccisioni, ma anche la distruzione delle sedi dei media e le intimidazioni: alcuni giornalisti denunciano minacce telefoniche da parte dello Shin Bet.
Israele ha bombardato 73 sedi dei media. Ha colpito gli uffici di Afp, di Reuters, dei canali arabi. Le vite di tutti i giornalisti sono importanti, ma ci sono casi di attacchi mirati contro determinati reporter. Penso ad Hamza e Wael Dahdouh, a Roshdi Sarraj. A Gaza abbiamo 1.200 iscritti al sindacato tra giornalisti, fixer, cameraman. Negli ultimi tre mesi se ne sono aggiunti 600, la situazione lo richiede: giovani laureati in giornalismo hanno iniziato a lavorare subito come freelance. 107 uccisi significa il 9% dei giornalisti di Gaza in tre mesi, almeno un collega ucciso ogni giorno.

Nel comunicato scrivete: «Le nostre pettorine, invece di essere un simbolo universale di protezione, sono diventate il target dei mirini israeliani, al punto che i nostri colleghi di Gaza dicono che quelle pettorine li fanno sentire in pericolo». Domenica il giornalista Anas el-Najar ha annunciato l’interruzione del suo lavoro perché la sicurezza della sua famiglia è più importante che «trasmettere notizie a un mondo che non conosce l’umanità». Che ne è della libertà di informazione?
Questo attacco colpisce il giornalismo in sé, il diritto dei giornalisti a produrre storie e la libertà di espressione. Si bombardano non solo le persone, ma l’intera professione perché questi reporter sono i nostri occhi e i nostri sensi sul campo. Lavorano in una situazione in cui nessun altro al mondo ha mai lavorato. Non è mai accaduto che i giornalisti venissero presi di mira così. Sono molto coraggiosi. Noi proviamo a sentirli ogni giorno, a volte li raggiungiamo, altre volte no per la mancanza di connessione. Israele vuole che abbiano paura, non vuole che riportino le loro storie. Con l’uccisione di giornalisti e medici, con la distruzione delle scuole, Israele demolisce l’intera società civile. Molti ci dicono di non riuscire a raggiungere aree di Gaza perché sono pericolose o perché non hanno più carburante, si muovono a piedi o con gli asini. Quello che riescono a raccontare è solo una minima parte di quanto avviene. Eppure continuano: è il loro lavoro ed è il loro paese, le loro case, i loro quartieri.

Anche nel resto della Palestina i giornalisti sono minacciati. Che tipo di restrizioni subiscono? Abusi se ne registravano già prima del 7 ottobre, il caso di Shireen Abu Akhleh uccisa a Jenin nel 2022 è il più eclatante ma non l’unico.
Faccio la giornalista da 30 anni e sono stata picchiata, imprigionata e umiliata. Hanno invaso il mio ufficio. È la storia di tutti e 3.500 i giornalisti palestinesi. Dal 7 ottobre ci è vietato entrare a Gaza e in Cisgiordania: muoversi tra i 500 checkpoint militari è quasi impossibile. Chi riesce a raggiungere determinate zone, come Nablus o Jenin, subisce ore di umiliazioni ai checkpoint: ci obbligano a spogliarci, distruggono l’attrezzatura, ci lasciano ore ad aspettare. Alcuni numeri che abbiamo registrato come sindacato in Cisgiordania: 113 giornalisti picchiati, 350 abusi ai checkpoint, 50 aggressioni dei coloni, 90 curati per inalazione di lacrimogeni, 36 feriti da arma da fuoco, 58 arresti, 91 raid nelle case o negli uffici. E poi le vessazioni nelle città israeliane: ai giornalisti palestinesi è spesso vietato coprire quanto avviene in Cisgiordania, molti sono stati arrestati per post sui social o per storie ed editoriali. È vietato anche manifestare.

Nel comunicato chiedete ai colleghi nel mondo di prendere posizione.
Molti media occidentali riprendono la versione dell’esercito israeliano senza seguire le regole base del giornalismo, verificare i fatti o riportare fonti diverse. Molti hanno svolto il ruolo di portavoce di Israele e disumanizzato i palestinesi. A me hanno posto domande inaccettabili: siamo sicuri che sia una giornalista? Siamo sicuri che non stia con i miliziani? Siamo sicuri che il suo ufficio ospiti solo l’Afp? Non abbiamo bisogno di prese di posizione ma di professionalità. A Gaza è sotto attacco ed è pericoloso per tutti: se le persone restano in silenzio oggi, resteranno in silenzio anche altrove. (intervista a cura di Chiara CRuciati per il manifesto)

 

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