A 20 anni dal G8 di Genova gli operatori di polizia responsabili di violenze e torture sono rimasti di fatto impuniti anche sul piano disciplinare. E ciò nonostante le richieste di interventi adeguati dei competenti organismi europei. Chiamati a scegliere tra un possibile conflitto con gli apparati di polizia e la violazione della Costituzione, i Governi hanno scelto la seconda alternativa.
di Enrico Zucca
Dopo più di venti anni, l’Italia assume, per il semestre di turno, la Presidenza del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, l’organo che ha fra i suoi compiti anche quello di assicurare l’esecuzione delle sentenze della Corte Europea dei Diritti Umani. Purtroppo, non può dirsi che si presenti come Stato modello in quel ruolo: proprio in questo volgere di anni si è, infatti, prodotta in reiterate violazioni del diritto a non essere sottoposti a tortura e a trattamenti inumani o degradanti, proclamato dall’art. 3 della CEDU, di cui quella Corte è garante. Questo già dice tanto dell’autorevolezza di uno Stato che calpesta uno dei pochi diritti garantiti dalla Convenzione in modo assoluto (cioè anche in circostanze eccezionali come la guerra o una minaccia alla vita della nazione) in quanto espressione del «valore di civiltà della democrazia occidentale», secondo le parole della stessa Corte di Strasburgo. Non solo, nonostante le sentenze di condanna subite abbiano evidenziato problemi strutturali, inducendo la Corte a dare indicazioni precise sulle urgenti riforme da adottare, l’Italia si è distinta per la sfacciata negligenza a conformarsi alle prescrizioni, quello che appunto si dovrebbe discutere nel Comitato dei Ministri.
Neppure la celebrazione, quest’anno, del ventennale del G8 ha costituito occasione per recuperare terreno e adempiere agli obblighi disattesi con riferimento all’esecuzione del gruppo di condanne che prende il nome dalla sentenza capostipite Cestaro c. Italia, del 7 aprile 2015, la prima sui fatti (di tortura) della scuola Diaz e che comprende le successive Bartesaghi Gallo ed altri c. Italia (22 giugno 2017), oltre quelle per i fatti ( di tortura) di Bolzaneto, Azzolina ed altri e Blair e altri c. Italia (26 ottobre 2017), tutte sentenze che permangono sotto stretta supervisione (enhanced supervision) al Comitato. Il rituale anniversario ha avuto spazio anche in dichiarazioni ufficiali di autorità istituzionali e politiche, che si sono profuse in prese di distanza dal passato (stigmatizzato come non mai, ma ritenuto irripetibile), oltre che in una ampia cerchia di giuristi, avvocati, magistrati, la gran parte emersa da un limbo silenzioso ultradecennale. Ma la celebrazione retorica delle drammatiche vicende di quei giorni non ha sollecitato alcuna risoluzione utile a chiudere il caso dell’esecuzione delle sentenze ancora di fronte al Comitato dei Ministri. Il punto che si vuole sollevare è cruciale e prende spunto dalla recentissima inchiesta condotta dai giornalisti di Altreconomia che, attivando il diritto all’accesso ai dati della pubblica amministrazione, hanno chiesto informazioni sui procedimenti disciplinari nei confronti dei poliziotti condannati o coinvolti nei fatti del G8 genovese (G8 di Genova: inchiesta sulle sanzioni mancate ai poliziotti, in Altreconomia, n. 242, novembre 2021). Con tecnica elusiva, il Dipartimento di Pubblica sicurezza ha rimbalzato alcune volte le richieste, per poi consegnare i pochi dati ritenuti ostensibili, senza alcun riferimento nominativo o utile a portare all’identificazione del personale coinvolto (asseritamente a tutela della privacy dei condannati i cui nomi sono noti e circolano in rete da un decennio). I dati così cavati a forza offrono un quadro desolante e danno conto, non solo dell’insultante originario silenzio opposto alla Corte di Strasburgo che li richiedeva per le sue decisioni, ma anche della immutata linea di condotta tesa a minimizzare e a tollerare fatti pur ritenuti di eccezionale gravità in sede penale. Si apprende infatti ufficialmente che sono state sanzionate in tutto solo 30 unità di personale: 13 con richiamo scritto, 2 con pena pecuniaria, 5 con sospensione disciplinare, compresa tra i 20 giorni e i 6 mesi. Vi sono poi 18 sospensioni dal servizio (quelle disposte per le pene accessorie irrogate dalla magistratura), tutte con successivo reintegro.
I provvedimenti sono stati adottati negli anni 2010, 2012, 2013, 2014, 2015 e 2016. L’interpretazione non è agevole, se non ci si limita a registrare la pochezza del dato tenendo conto che dietro ci sono anche i coinvolti nei due grandi processi per la scuola Diaz e Bolzaneto. A fronte del puro riferimento quantitativo ai casi di sanzione pecuniaria, si può riconoscere l’ammenda di 49 euro irrogata all’agente asseritamente attinto da coltellate (uno dei grotteschi falsi per arrestare i 93 occupanti della scuola Diaz a copertura delle violenze, che è valso allo stesso agente la condanna a 3 anni e 8 mesi di reclusione). Egualmente difficile è immaginare il metro di giudizio per la mite sanzione irrogata al funzionario condannato in sede penale, la cui condotta la Cassazione (Sez. I, n. 6138/2014) stigmatizza come «comportamento illegale di copertura poliziesca proprio dei peggiori regimi antidemocratici, in violazione di diritti fondamentali di libertà, di tutela giudiziaria, della libertà della persona riconosciuti in tutte le democrazie occidentali, nella nostra carta costituzionale e nella stessa Cedu». Gli organi disciplinari hanno in ogni caso rifiutato di applicare sanzioni severe, adeguate alla gravità delle condotte e al danno arrecato all’immagine dell’intero Corpo di Polizia (cioè al «discredito nel mondo intero», per usare ancora le parole della Cassazione: Sez. V, n. 38085/2012). Il tutto in mancanza di ogni trasparenza, così consegnando un quadro persistente di chiusura al controllo della pubblica opinione.
Che altro? La vulgata vuole che le condanne della Corte di Strasburgo per i fatti del G8 siano basate sulla mancanza nel nostro sistema, all’epoca, del reato di tortura. Nel Comitato dei Ministri si è così presentata l’approvazione della legge n. 110/2017 sul reato di tortura come segno della raggiunta conformità alla Convenzione e dell’adempimento alle sentenze di condanna. Non è così e non solo per le falle di quella legge. La Corte fornisce «chiare indicazioni» (così si esprimeva il Comitato dei Ministri) per l’adeguamento del sistema italiano all’obiettivo di prevenire le violazioni convenzionali, ottenibile soltanto con un impegno ad accertarle e a sanzionarle duramente sotto il profilo penale (niente prescrizione, indulto, sospensioni di pena) e anche sotto quello disciplinare e civile. Il rafforzamento dell’apparato repressivo disciplinare, in particolare, ha un ruolo determinate. Per questo nella giurisprudenza della Corte europea la destituzione degli agenti responsabili di torture o comportamenti analoghi non è alternativa alla sospensione degli stessi durante il giudizio (sent. Cestaro § 210; sent. Azzolina § 163-64). Ebbene, l’esito dei procedimenti disciplinari riportato sulle pagine di Altreconomia, agli antipodi degli obblighi convenzionali, certifica la copertura politica della devianza delle forze dell’ordine pur accertata nella sua gravità, costanza e diffusione. In sequenza, infatti, il Governo di turno ha omesso di comunicare alla Corte l’esito dei procedimenti disciplinari e la progressione in carriera dei condannati, costringendola a «prendere atto del silenzio» al riguardo (Cestaro § 227, 228; analogamente due anni dopo: Azzolina § 163, 164).
Successivamente, in sede di esecuzione sotto il controllo del Comitato, la richiesta di informazioni ha preso una duplice direzione, dovendo l’Italia indicare sia le azioni intraprese nei casi concreti, sia i rimedi adottati per evitare il futuro ripetersi di una reazione inefficace sul piano disciplinare. Ma, dalla prima riunione del Comitato nel marzo 2017 fino a oggi, le risposte del nostro Paese sono state evasive. I Governi si sono, infatti, limitati a descrivere l’assetto normativo generale e a evidenziare statistiche onnicomprensive. Il Comitato non si è fatto prendere in giro dalla affermazione che la normativa lascia le sanzioni alla discrezionalità degli organi disciplinari e ha rilanciato: «È importante sapere in che modo le autorità hanno assicurato o assicureranno che tale discrezionalità sia esercitata in modo compatibile con i requisiti della Convenzione» e ha concluso, senza mezzi termini, con l’invito alle autorità italiane a indicare «come hanno assicurato, o intendono assicurare, che gli agenti delle forze dell’ordine accusati di reati di maltrattamento [siano] sospesi dall’incarico durante l’indagine o il processo e destituiti se condannati, in conformità con la giurisprudenza consolidata della Corte» (Comitato viceministri 3-5 dicembre 2019: https://search.coe.int/cm/pages/result_details.aspx?objectid=090000168098d01d). La risposta del Governo, sollecitata entro il 30 giugno 2020, non è intervenuta e il termine è inutilmente decorso.
È così caduta nel vuoto l’esortazione ad adottare un atteggiamento di tolleranza zero per gli abusi e si è consolidato un cortocircuito esiziale per l’avvio di una riforma coerente con le esigenze di rinnovamento delle forze di polizia che si generi al loro interno con l’isolamento dei devianti (che non sfuggono alla punizione).
Il descritto colpo di spugna sul piano disciplinare viene a saldarsi con l’omertà che ha consentito ai numerosi torturatori di farla franca. Ricordiamo che la Corte europea ha impietosamente stigmatizzato «l’impunito rifiuto della Polizia» a collaborare con la magistratura per l’identificazione dei responsabili degli atti di violenza, denunciando inerzia repressiva anche di fronte a questo ammutinamento. Nessun vertice è mai stato chiamato a renderne conto. Allo stesso modo, più nel profondo, le regole dell’omertà proteggono il deviante, perché in un mondo separato e capovolto, il Corpo rifiuta l’infame che denuncia e non il contrario. Le istituzioni e la politica non hanno avuto la forza di compiere scelte, ma hanno assecondato la richiesta di connivenza che assicura fedeltà servile.
Rischiare che i poliziotti voltino le spalle in segno di protesta come è accaduto al sindaco di New York De Blasio qualche anno fa o rischiare di voltare le spalle alle leggi e alla Costituzione? La reazione dei Governi all’abisso affiorato al G8 genovese è più incline alla seconda soluzione. Allo stato possiamo amaramente concludere che la Presidenza italiana del Comitato dei Ministri non appare una guida sicura.