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Genova G8: attesa per la sentenza all’assalto alla scuola Diaz

Si sono appena riuniti in camera di consiglio i giudici della terza sezione penale della corte d’appello di Genova per la sentenza di secondo grado per l’irruzione della polizia nella scuola Diaz durante il G8 di Genova nel 2001. I giudici alle 19 faranno sapere se il dispositivo verrà letto oggi stesso o domani mattina. Il procuratore generale a febbraio aveva chiesto oltre un secolo di carcere per i 27 imputati. Ma, in primo grado, a novembre 2008, in primo grado, erano stati assolti tredici imputati su ventinove, ovvero i vertici della polizia. La sentenza era stata accolta al grido di «Vergogna vergogna» quando era parso chiaro il cerchiobottismo del dispositivo, confermato dalle motivazioni rese pubbliche nel febbraio dell’anno successsivo. Anche la sentenza di primo grado (ribaltata in appello) aveva deluso chi si aspettava verità e giustizia per via dell’assoluzione di un buon numero di imputati ma, almeno, aveva avuto il merito di indicare uno di loro come responsabile di abuso d’ufficio, reato individuato per sanzionare quella che altro non era che tortura, voce introvabile nell’ordinamento italiano.
Nella sentenza di primo grado sulla mattanza della scuola Diaz, invece, sarebbero state riconosciute solo le responsabilità della manovalanza, anzi di chi l’aveva condotta all’assalto del quartier generale del Genoa social forum: Canterini, il suo vice Fournier al comando della celere e alcuni capisquadra. Gli altri, pezzi da 90 dell’organigramma di De Gennaro, l’avrebbero fatta franca. Eppure la medesima carta stabiliva un milione di euro di provvisionale (primo parziale ristoro in attesa del giudizio civile) per le decine di parti lese, 93 persone cui s’era tentato di cucire la tremenda accusa di associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio. L’accusa cadde solo nel dicembre 2004 ma il lavoro dei pm Zucca e Cardona Albini non sarebbe valso a inchiodare chi ordinò quella spedizione punitiva, violentissima, per dare in pasto a un’opinione pubblica sconvolta, dall’omicidio di Carlo Giuliani e da pestaggi di massa inediti dal dopoguerra, nientemeno che una taroccata cupola dei black bloc.
Gli imputati eccellenti – Gratteri, Luperi, Caldarozzi – erano accanto a Canterini nel cortile della Diaz ma secondo il giudice, dopo 172 udienze e chilometri di pellicola, sarebbe stato quest’ultimo col suo verbale parzialmente fasullo a ingannarli. Come fosse possibile stare alla Diaz e non rendersi conto del via-vai di ragazzi massacrati in barella, delle urla lancinanti, dell’orrore sul viso di chi premeva ai cancelli con legali e parlamentari ma fu stoppato dal portavoce di allora di De Gennaro, il capo della polizia. Non fu la «normale perquisizione» che il Viminale provò ad accreditare mandando in eurovisione la distesa di prove fasulle: molotov portate apposta dalla questura, attrezzi di un cantiere che restaurava la scuola, stecche degli zaini sfilate da teppisti in divisa ma travisati e che resteranno per sempre sconosciuti agli inquirenti). Incomprensibile anche l’assoluzione di chi comandò una squadra nell’irruzione dell’edificio di fronte al dormitorio dei manifestanti. Qui c’erano il media center e gli uffici di legali e infermieri di movimento. La perquisizione fu arbitraria, venne sottratto materiale video e furono maciullati i computer degli avvocati che stavano preparando un dossier sulle violenze di strada. Ma per il giudice ha voluto credere alla tesi dell’errore. «Come se in un processo per rapina a mano armata l’assoluzione venisse motivata con le dichiarazioni degli imputati che dicano di aver scambiato la banca per un poligono di tiro», commenta Dario Rossi, legale del Gsf nel processo che ha negato risarcimenti sia alla coalizione che promosse il social forum, sia alla federazione della stampa. Suonano quasi beffarde le conclusioni del giudice di primo grado, così distratto per molti reati evidenti, quando riconosce che quanto accadde alla Diaz «fu al di fuori di ogni principio di umanità oltre che di ogni regola». Al riconoscimento della «consapevolezza di poter agire nella certezza dell’impunità» da parte di agenti e funzionari non sarebbero corrisposte conseguenze penali. Lo Stato non è in grado di giudicare se stesso. Per chi è venuto a presidiare il tribunale in attesa della sentenza definitiva sarà una giornata lunghissima.

Checchino Antonini