Non ha visto violenze nella caserma di Bolzaneto: la situazione era difficile ma tutto è proceduto regolarmente. Ha anche comprato di tasca sua dell’acqua da distribuire ai fermati. Però qualche collega alzò la voce, qualcun altro spruzzò gas urticante nelle celle. Alessandro Perugini ( nella foto con la maglia gialla), vicecapo della Digos genovese durante le giornate del G8 a Genova nel 2001, respinge ogni addebito. È stato il primo dei 45 imputati – tra poliziotti, penitenziaria, carabinieri e personale medico – ad essere sentito nel processo appena aperto sugli episodi di violenza denunciati da decine di persone fermate e portate in quella caserma. Decine di testimonianze parlano di atmosfera da “dittatura cilena” ma tant’è. Quello che all’epoca era il massimo dirigente della polizia a Bolzaneto è accusato di abuso d’ufficio, abuso d’autorità contro detenuti o arrestati e di non aver impedito che alcuni manifestanti venissero picchiati o maltrattati. «Non ho sentito urlare né ho visto episodi di violenza »Durante l’interrogatorio del pm Patrizia Petruzziello, iniziato intorno alle 11 e 30 di martedì e durato poco più di due ore, Perugini ha risposto a tutte le domande. Dalle sue parole si ricaverebbe che nulla sia avvenuto in quelle stanze. Degli episodi gravissimi di umiliazioni e percosse ribaditi da decine di manifestanti italiani e stranieri insomma non ci sarebbe traccia. «Dalla mia postazione non ho sentito urlare nè ho visto episodi di violenza avvenire nei corridoi» ha dichiarato al magistrato. «All’inizio non era previsto un servizio di vigilanza dei fermati – ha spiegato – Nelle prime ore del venerdì pomeriggio (20 luglio 2001) arrivò una disposizione dell’ufficio di Gabinetto che ordinava agli agenti che accompagnavano i fermati anche di sorvegliarli. Sabato (21 luglio 2001) un contingente di carabinieri venne deputato alla sorveglianza e nella notte, quando andai via, non mi interessai più della questione». «Non mi sono chiesto perché stessero volto e mani rivolti al muro»Qualcosa però combacia con alcune deposizioni di chi si trovò in quelle celle. Perugini ricorda che durante tutte quelle ore trascorse a Bolzaneto solo «in due circostanze ho avuto accesso alle celle» e che, in entrambe le occasioni, «ho visto all’interno di ciascuna cella una decina di persone, con il volto e le mani rivolte verso il muro. Non ricordo di aver visto donne. Non mi sono chiesto il perchè stessero in quella posizione, non mi ha colpito quella circostanza».
Solo «un collega alzò la voce». E “altri” «spruzzarono gas urticante nelle celle»«Ricordo un episodio in cui un collega stava alzando la voce contro un fermato e sono intervenuto per dirgli di calmarsi – ha ricostruito. – Non ricordo il nome del fermato. Doveva fare una inalazione per l’asma e dissi che non c’erano problemi. Mi chiesero l’autorizzazione e la diedi» ha spiegato. Anzi, quando poteva dava una mano. Ricorda di aver soccorso un manifestante telefonando al padre col proprio cellulare, di essere intervenuto quando furono spruzzati gas urticanti in una delle celle dall’esterno. Anche se poi «non ho fatto nessun nota perchè nell’immediatezza c’erano tante cose da fare, ma informai la mia collega Anna Poggi».Lui intanto acquistava di tasca propria bottigliette di acqua minerale per i fermati: «Ho fatto arrivare del cibo e dell’acqua per i nostri e ho fatto distribuire una cassa d’acqua, erano bottigliette da mezzo litro, anche ai detenuti nelle celle. Ho valutato da solo che ce ne fosse bisogno perchè faceva caldo».
Le identificazioni e i cittadini stranieriQuanto alle denunce di tanti ragazzi stranieri che (come gli italiani) non hanno potuto chiamare il loro consolato, un avvocato o semplicemente a casa, Perugini precisa: «Se gli stranieri lo richiedevano venivano sempre avvisati i consolati con moduli plurilingue». Però ammette che ci furono dei ritardi protratti nell’identificazione, tant’è che per due giorni alcuni reclusi denunciano di essersi sentiti tagliati fuori dal mondo senza poter dare notizie di se all’esterno della caserma: «I tempi di identificazione dei fermati si allungarono in modo esponenziale rispetto alle nostre previsioni», ha detto e conclude: «Il clima era caldo».
«Ricordo solo Marco Mattana. Per motivi personali»«La situazione era difficile ma conservavo la mia lucidità. Le persone venivano accompagnate sotto braccio. Ricordo di aver visto una persona ammanettata e di aver detto di togliergli le manette. Eravamo dentro la caserma e non c’era alcun pericolo di fuga – ha ripetuto Perugini. – Non ho mai visto neanche minorenni dentro la caserma, ricordo soltanto Mattana. Mi è rimasto impresso per motivi personali». Marco Mattana aveva 15 anni nel 2001, era uno studente di Ostia arrivato nel capoluogo ligure per manifestare. Le sue immagini hanno fatto il giro delle tv perché tra i pestaggi della polizia per le strade di Genova fu uno dei più agghiaccianti: il minorenne venne preso a calci da Perugini e da altri poliziotti il 21 luglio. Il ragazzo, con il volto tumefatto, alla fine riuscì ad uscire dal cerchio e si avvicinò supplicante alla videocamera che lo riprendeva. Per qual pestaggio ingiustificato, documentato in più di un video, Perugini insieme ai colleghi è indagato anche in un altro procedimento.
Solo «un collega alzò la voce». E “altri” «spruzzarono gas urticante nelle celle»«Ricordo un episodio in cui un collega stava alzando la voce contro un fermato e sono intervenuto per dirgli di calmarsi – ha ricostruito. – Non ricordo il nome del fermato. Doveva fare una inalazione per l’asma e dissi che non c’erano problemi. Mi chiesero l’autorizzazione e la diedi» ha spiegato. Anzi, quando poteva dava una mano. Ricorda di aver soccorso un manifestante telefonando al padre col proprio cellulare, di essere intervenuto quando furono spruzzati gas urticanti in una delle celle dall’esterno. Anche se poi «non ho fatto nessun nota perchè nell’immediatezza c’erano tante cose da fare, ma informai la mia collega Anna Poggi».Lui intanto acquistava di tasca propria bottigliette di acqua minerale per i fermati: «Ho fatto arrivare del cibo e dell’acqua per i nostri e ho fatto distribuire una cassa d’acqua, erano bottigliette da mezzo litro, anche ai detenuti nelle celle. Ho valutato da solo che ce ne fosse bisogno perchè faceva caldo».
Le identificazioni e i cittadini stranieriQuanto alle denunce di tanti ragazzi stranieri che (come gli italiani) non hanno potuto chiamare il loro consolato, un avvocato o semplicemente a casa, Perugini precisa: «Se gli stranieri lo richiedevano venivano sempre avvisati i consolati con moduli plurilingue». Però ammette che ci furono dei ritardi protratti nell’identificazione, tant’è che per due giorni alcuni reclusi denunciano di essersi sentiti tagliati fuori dal mondo senza poter dare notizie di se all’esterno della caserma: «I tempi di identificazione dei fermati si allungarono in modo esponenziale rispetto alle nostre previsioni», ha detto e conclude: «Il clima era caldo».
«Ricordo solo Marco Mattana. Per motivi personali»«La situazione era difficile ma conservavo la mia lucidità. Le persone venivano accompagnate sotto braccio. Ricordo di aver visto una persona ammanettata e di aver detto di togliergli le manette. Eravamo dentro la caserma e non c’era alcun pericolo di fuga – ha ripetuto Perugini. – Non ho mai visto neanche minorenni dentro la caserma, ricordo soltanto Mattana. Mi è rimasto impresso per motivi personali». Marco Mattana aveva 15 anni nel 2001, era uno studente di Ostia arrivato nel capoluogo ligure per manifestare. Le sue immagini hanno fatto il giro delle tv perché tra i pestaggi della polizia per le strade di Genova fu uno dei più agghiaccianti: il minorenne venne preso a calci da Perugini e da altri poliziotti il 21 luglio. Il ragazzo, con il volto tumefatto, alla fine riuscì ad uscire dal cerchio e si avvicinò supplicante alla videocamera che lo riprendeva. Per qual pestaggio ingiustificato, documentato in più di un video, Perugini insieme ai colleghi è indagato anche in un altro procedimento.
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