Menu

Germania: Morti «in custodia», la politica tedesca ignora il problema. Chi denuncia resta isolato

Un buco nero, i cui contorni sono ben descritti da Biplab Basu, dell’associazione Reach Out, iniziatore della “Campagna contro la violenza razzista della polizia” che ha contato i 138 «morti in custodia» dal 1993 al 2020

È morto il 12 gennaio 2019, senza video, proteste e l’hasthtag sui social. Eppure anche Aristeidis L. non riusciva a respirare quando quattro agenti gli hanno schiacciato il collo sul pavimento di un ascensore a Berlino.

Legato mani e piedi, il 36enne greco è stato soffocato esattamente come George Floyd. Nella civilissima Germania dove «i giornalisti continuano a considerare le forze dell’ordine neutrali» come ricorda il quotidiano Taz che ha scoperchiato il caso insabbiato da un anno e mezzo.

Di fatto, chi accusa pubblicamente la polizia rimane isolato: lo sanno bene la segretaria Spd, Saskia Esken, che sei mesi fa osò chiedere lumi sulla gestione del Capodanno a Lipsia, e la leader dei Verdi, Simone Peter, che nel 2016 pretese spiegazioni sull’operato degli agenti dopo la “notte del terrore” di Colonia.

Poco importa se dalla Riunificazione a oggi sono ben 269 le persone uccise con arma da fuoco dalla polizia tedesca; ancora meno se – come nel caso di Aristeidis – non risulta lo straccio di un’indagine e tantomeno punizioni ai responsabili. «L’accusa non interrogò neppure i poliziotti che erano nell’ascensore con lui» ricorda la Taz. Risultato: inchiesta archiviata prima ancora di essere aperta.

Succede a Berlino, dove il governo locale è stato costretto a varare la legge anti-discriminazione contro gli abusi in divisa (contrari Cdu e liberali) e i Verdi propongono di cancellare la parola “razza” dalla Legge Fondamentale, equivalente della Costituzione.

E accade quindici anni dopo il clamoroso caso di Oury Jalloh, richiedente asilo della Sierra Leone, bruciato vivo nella cella della stazione di polizia di Dessau senza che nessuno muovesse un dito.

L’ennesimo fatto acclarato, di quelli che non diventano mai notizia «per lo scarso interesse dei media» nonostante la campagna non-stop degli attivisti dei Diritti umani.

Un problema ignorato dalla grande politica della cancelliera Angela Merkel, ma anche dalla maggioranza silenziosa, bianca, cattolica e protestante, che fatica a schierarsi apertamente con il movimento che oggi scandisce «Black Lives Matters» ad Alexanderplatz come di fronte all’ambasciata Usa.

Un buco nero, i cui contorni sono ben descritti da Biplab Basu, 68 anni, dell’associazione Reach Out, iniziatore della “Campagna contro la violenza razzista della polizia” che ha contato i 138 «morti in custodia» dal 1993 al 2020.

«Le statistiche ufficiali non esistono, in realtà siamo convinti che le vittime siano molte di più ma non possiamo controllare perché si tratta di situazioni in cui le persone sono alla mercé dei funzionari statali, come ad esempio nei veicoli o nelle stazioni di polizia e nei centri per rifugiati. Ciò che succede qui rimane a porte chiuse». Ed è difficile denunciare visto che «la maggior parte dei tedeschi crede ancora alla narrazione della polizia “amica” ed è convinta che se gli agenti hanno premuto il grilletto ci deve essere stato un valido motivo. Finché non ci allontaneremo da questa idea non ci potranno mai essere indagini approfondite sulla violenza degli agenti» conclude Basu.

Sebastiano Canetta

da il manifesto