La storia di Fatima Salem è quella di altre 27 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah: le case minacciate di esproprio, le violenze dei coloni israeliani e una giustizia dal doppio standard
di Michele Giorgio
Esile, lenti spesse, velo nero, Fatima Salem spazza davanti casa. Rimuove cartoni, metalli, cassette di legno, rifiuti di ogni tipo. Prova a rendere più vivibile il terreno intorno alla sua abitazione diventato nelle ultime settimane un campo di battaglia. Si tiene a distanza dalla tenda che, a pochi metri di distanza, ha eretto un deputato di estrema destra, Itamar Ben Gvir, per affermare il diritto dei coloni israeliani di insediarsi a Sheikh Jarrah «in sicurezza», senza «minacce da parte dei terroristi». «La nostra vita era già complicata – ci dice la donna – ma da quando (Ben Gvir) è qui siamo circondati giorno e notte dalla polizia, gli agenti controllano ogni movimento della mia famiglia. E poi ci sono i coloni a renderci l’esistenza più difficile».
La casa dei Salem è povera e povere sono le altre abitazioni palestinesi di questa porzione occidentale di Sheikh Jarrah. La miseria e il degrado saltano all’occhio anche perché dietro questi edifici bassi di cemento grigio e tetti spesso di lamiera, in cui vivono manovali a giornata che sostengono famiglie numerose, svettano palazzi eleganti e di costruzione recente. Appartamenti che spesso accolgono il personale straniero delle agenzie dell’Onu o famiglie palestinesi benestanti. Fatima in quella casa piccola e fatiscente è nata e ha trascorso tutta la vita. Sulle pareti di una stanza spiccano le foto di tre generazioni di Salem, alcune sbiadite dal tempo e in bianco e nero. «Sono sempre stata qui» ci dice voltando lo sguardo verso le immagini, «papà e mamma vennero qui prima che nascessi, più di 70 anni fa. Sono la più piccola di dieci figli e rimasi con loro quando i miei fratelli e le mie sorelle si sposarono. Restai anche dopo il mio matrimonio quando ebbi dei figli, i miei genitori erano anziani e avevano bisogno di aiuto». Davanti casa Ibrahim, uno dei figli di Fatima, prova a tenere a freno tre o quattro bambini che urlano mentre corrono spensierati. «Va bene, non fa nulla lasciali giocare» lo esorta la donna alzando la voce. Fatima riprende il suo racconto. «Qualche anno dopo la guerra (del 1967, quando Israele ha occupato la zona est, palestinese, di Gerusalemme, ndr), ero solo una ragazzina e già volevano portarci via la casa. È andata avanti così per decenni. Poi, qualche anno fa, sento bussare alla porta, apro e trovo un israeliano. Mi dice: sono Yonatan, preparate i bagagli perché ho comprato questa casa e dovete andare via al più presto. Rispondo che non è possibile perché questa casa è nostra e che l’ha costruita mio padre. Lui mi mostra dei documenti in lingua ebraica e aggiunge che anche il terreno è suo. Da allora non abbiamo più avuto pace».
I Salem sono una delle 28 famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah minacciate di essere buttate fuori con la forza dalle loro case. Perché sono costruite su terreni di cui si proclama proprietaria la Nahalot Shimon, una «società immobiliare» legata alla destra estrema israeliana che ha per missione l’insediamento di coloni a Gerusalemme Est. L’«immobiliare» ha avuto vita facile nei tribunali perché la giustizia israeliana – ossia di uno Stato occupante a Gerusalemme Est come sancisce il diritto internazionale – ha riconosciuto che la terra di Sheikh Jarrah fu acquistata dalle comunità ebraiche nel 1875. Dopo la guerra arabo-israeliana del 1948 fu presa dalle autorità giordane che la destinarono a famiglie palestinesi profughe che si erano viste confiscare le loro proprietà dalle autorità nel neonato Stato ebraico. Su di essa le Nazioni unite costruirono decine di abitazioni. Non quella dei Salem che fu costruita dal padre di Fatima. Negli anni ’80 un accordo temporaneo assegnò alle famiglie palestinesi lo status di «residenti protetti» che, sempre secondo i giudici israeliani, avrebbero poi perduto «per non aver pagato l’affitto ai proprietari ebrei».
Hagit Ofran di Peace Now chiarisce con poche parole l’ingiustizia che si è abbattuta sui Salem e le altre 27 famiglie palestinesi. «Nello stesso modo in cui gli israeliani non vogliono che i palestinesi chiedano i loro diritti a centinaia di migliaia di israeliani che vivono nelle case che prima del 1948 erano arabe a Katamon, Talbiye, Giaffa o Haifa, i coloni non devono costringere i palestinesi a lasciare Sheikh Jarrah e Silwan». Un punto di vista che non interessa in alcun modo ai coloni. Secondo Elyashiv Kemhi di Nahalat Shimon, quella in corso è una battaglia legale e contro il «terrorismo». «I terroristi hanno cercato più volte di dare fuoco a una casa con dentro un ebreo e la sua famiglia solo perché sono ebrei» ha protestato qualche giorno fa reclamando l’invio a Sheikh Jarrah di ingenti forze di sicurezza. La casa presa di mira nei giorni scorsi con il lancio di una o più molotov è quella in cui vive il colono Tal Yoshvayev – che «non ha tempo» per rispondere alle domande dei giornalisti – ed è accanto a quella dei Salem. Poi è arrivato Itamar Ben Gvir, con la sua schiera di militanti di destra, per dare vita sotto una tenda al suo «ufficio» di avvocato e deputato a cinque-sei metri dall’ingresso della casa dei Salem. Da allora è un ripetersi di proteste, scontri, raduni, pestaggi, cariche della polizia. Ed è solo una questione di tempo prima che Sheikh Jarrah riesploda come dieci mesi fa.
Fatima ci accompagna all’uscita e ricomincia a mettere in ordine. «Cosa sarà di noi, dove andremo se ci butteranno fuori? Non abbiamo nulla, solo questa casa», ci domanda salutandoci. Lo sgombero, il mese scorso, da parte della polizia, della famiglia Salhiye, nella parte più alta di Sheikh Jarrah, ha convinto i Salem che in qualsiasi momento saranno cacciati via. A fine dicembre era stato il vicesindaco di Gerusalemme Aryeh King a consegnargli di persona l’ordine di sfratto. La polizia chiese un rinvio, per ragioni di ordine pubblico. Ora, si dice, i Salem verranno sgomberati nel giro di un mese. Tuttavia, le pressioni internazionali e l’avvicinarsi del Ramadan potrebbero spingere le autorità israeliane a posticipare il provvedimento. «Sheikh Jarrah è la nostra terra. Le loro decisioni non ci riguardano, resteremo qui, assieme ai Salem», ci dice Abu AlHoms, attivista di Gerusalemme Est. Sopraggiunge un’auto con le insegne di Lehava (Fiamma), una organizzazione dell’estrema destra. Il suo leader, Bentzi Gopstein, rinviato a giudizio nel 2019 per violenze e proclami razzisti, è venuto a portare solidarietà a Ben Gvir.
da il manifesto