Non c’è nulla di più triste di un vecchio tormentato dalla coazione a ripetere. Chi in questi giorni frequenta una spiaggia può rendersene conto con facilità. A ogni angolo anziani “conquistadores” in posa, con gli occhiali scuri, lo sguardo malandrino o finto disinteressato, in attesa di una donna – di qualsiasi età, il casanova anziano sa di doversi accontentare.
In riva al mare, con la pelle un po’ flaccida sotto quelli che una volta erano i pettorali da richiamo e le cosce svuotate dei quadricipiti, esibiscono un rituale consaputo per cui non hanno più il fisico. La concorrenza più giovane li guarda, li salta, inventa altri rituali per l’identica religione. Un filo d’odio scorre dall’angolo dell’occhio dell’anziano assiso, invano proteso a cavar fuori dalla cascata di rughe la postura del “ghepardo di una volta”.
Accade anche in magistratura. Accade a Torino, dove una Procura d’altri tempi persegue reati immaginari dando loro i nomi di altri tempi, travisando il presente secondo “fattispecie” oggi irrintracciabili.
Prendiamo per un atimo sul serio l’accusa di “attentato per finalità terroristiche o di eversione dell’ordine democratico”, ai sensi dell’art. 280 codice penale, elevata contro alcuni attivisti No Tav. Si tratta di un’aggravante specifica che punisce con pene fino a venti anni di carcere chi “attenta alla vita od alla incolumità di una persona”.
Va da sé che per “attentare alla vita” bisogna disporre di mezzi d’offesa adeguati e organizzazione che preveda esplicitamente tra i propri obiettivi l’uccisione dei nemici; ovvero armi e organizzazione clandestina. Due caratteristiche completamente assenti nel movimento No Tav, i cui esponenti sono usi a intervenire pubblicamente e le cui “dotazioni militari” non vanno oltre – in singoli casi – i sassi e le maschere antigas (notoriamente strumento di difesa contro eserciti criminali che fanno uso di armi chimiche che la Convenzione di Ginevra condannerebbe anche in zona di guerra).
Resta quindi la domanda: perché la Procura di Torino ha preso questa strada così assurda da un punto di vista giuridico e reazionaria su quello politico?
Per provare a rispondere bisogna prima ricordare qual’è la “cultura giuridica” del Procuratore capo del capoluogo piemotese e subito dopo mettere in evidenza le conseguenze politiche di questa azione abnorme, nella prospettiva di un autunno che s’anuncia pieno di conflitto.
Come hanno notato osservatori insospettabili – persino il Corriere della sera! – l’accusa “terroristica” è un “salto di qualità” nella strategia giudiziaria del pool guidato da Giancarlo Caselli, una “prima volta” nel lungo confronto tra movimenti di protesta sociali e potere repressivo dello Stato. Una “prima volta”, evidentemente, che riguarda le pratiche messe in atto.
In tutto e per tutto, le azioni del movimento No Tav fanno parte della normale strumentazione della protesta di piazza, per quanto sui terreni impervi tipici di una valle alpina. E mai era accaduto che simili pratiche venissero indicate come “terroristiche”. Per il buon motivo – anche giuridico – che mancava l’uso di “armi” (se non quelle messe in mostra con dubbia generosità dalle cosiddette “forze dell’ordine”) e quindi qualsiasi possibile intenzione di “attentare alla vita od alla incolumità di una persona”.
E questo senza nemmeno scomodare un’altra e più giustificata visione storica dei conflitti che non classifica come “terrorismo” neanche le guerriglie, ma soltanto l’uso di mezzi di distruzione di massa contro popolazioni civili. Ovvero quello che, tra gli altri, ha messo in atto lo Stato italiano nei confronti del proprio popolo dagli anni ’60 in poi (la stranota “strategia della tensione”).
In questa decisione della Procura torinese pesa una visione dello strumento giudiziario come “arma di guerra”, senza nessun rapporto con la “legalità” e tanto meno con la “giustizia”. L’estensione dell’accusa di “terrorismo” alla normale protesta di massa, anche “robusta”, implica che nella testa di quei magistrati l’azione penale sia uno strumento “flessibile” da usare secondo una logica di guerra. Il magistrato inquirente cessa di perseguire un insieme codificato di “fattispecie” per adottare invece quelle accuse che meglio rispondono alla “necessità” di perseguire alcuni oppositori politici.
È come se per impedire che un semplice ladro di merendine possa “tornare a delinquere” in seguito alla scarcerazione – perché la “pena” è necessariamente breve – lo si accusasse di “rapina all’interno di un disegno criminoso” di più largo respiro. È come se una singola protesta contro un singolo progetto considerato letale per un territorio specifico venisse inquadrata giuridicamente come un “attentato ai poteri dello Stato”. Ai poteri, non alla sovranità, che ormai non esiste più nei fatti.
Per la Procura di Torino, insomma, va elevata l’accusa che fa più male agli accusati, non quella che il codice penale in certi casi prescriverebbe. In questo modo si torce il diritto in rovescio giuridico, si trasforma il contenzioso processuale in guerra. Contro una popolazione civile e la sua parte necessariamente più attiva: i giovani e chi ha più “visione” della protesta in atto. Non magistrati dunque, ma fabbri ferrai della repressione, “immaginifici” dell’accusa, “combattenti” di un potere insofferente di ogni manifestazione d’opposizione.
Sarebbe facile a questo punto definire “fascista” questa cultura. Ma sarebbe sbagliato. Qui non c’è alcun preteso “ordine valoriale superiore” da imporre con la forza. Non c’è alcuna “modernizzazione reazionaria” ostacolata strada facendo da interessi definiti sbrigativamente “arretrati”. La Tav Torino-Lione è un’opera inutile, che al momento non ha neppure la certezza di poter esser completata (la Francia ha rinviato la decisione sulla parte di lavori di sua competenza), portata avanti – tra le altre – anche da alcune imprese in odor di malavita. Non è insomma in gioco nulla di più che una marea di appalti finanziati con denaro pubblico per arricchire, mal che vada, un nucleo ristretto di sventratori di territorio.
Sul piano politico, la Procura caselliana indica la strumentazione adottabile nel conflitto sociale a venire, magari già in questo autunno. Dalla finanza al diritto “creativo” il passo è breve, ma verso gli inferi.
La provocazione ha una sua pericolosità. Punta infatti apertamente a “sollecitare” un analogo e suicida “salto di qualità” in alcune frange di movimento. Magari attivando alla bisogna quel manipolo di infiltrati che da molti anni lavora per portare attivisti e compagni inesperti tra le braccia poco amorevoli di questure e procure; e in qualche caso con “successo”. Per ora sono partite solo alcune lettere sconclusionate, ma la agghiacciante subalternità dei media mainstream le ha traformate in “segnali politici”. Naturalmente a doppio senso.
Come a Gezi Park o in cento altri luoghi del presente capitalistico, un modo di produzione e riproduzione della vita, stretto nella morsa di una crisi da cui non sa più come uscire, reagisce nello stesso identico modo: dichiara “terrorista” la parte più intelligente, attiva, partecipe, lungimirante, della popolazione che dovrebbe in teoria rappresentare. Che a questa torsione reazionaria del capitalismo in crisi partecipi in prima fila l’ex gotha dell’ex Pci – al Quirinale come a Torino – non ci sorprende più di tanto. Ma in questa infima e stanca replica dello sciagurato “compromesso storico” non è più rintracciabile alcuna grandezza, per quanto fosca e gravida di lutti.
Solo una triste coazione a ripetere, tragicamente simile a quella dei vecchi “cucadores” con la testa imbiancata, affollata di ricordi di “grandi imprese” ormai impossibli.
Dante Barontini da contropiano
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