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Ma i giudici sono migliori dei politici?

La maggioranza di governo si accinge a riformare lo status di giudici e pubblici ministeri e a eliminare l’obbligatorietà dell’azione penale. Per correggere – si dice – lo strapotere dei giudici. Ma non di questo si tratta, bensì di una crescente insofferenza della politica per le regole e della ricerca di una garanzia di impunità a costo di sovvertire lo Stato di diritto.

di Livio Pepino da Volere la luna

Mentre si susseguono liti e sgarbi tra alleati e aggressioni squadriste in Parlamento e fuori, il tema giustizia sembra compattare l’armata Brancaleone della destra. Così la maggioranza, con il significativo apporto di Azione e Italia Viva, ha approvato la prima tranche del cosiddeto “pacchetto Nordio” e, almeno a parole, si appresta a intervenire, anche con modifiche costituzionali, sul sistema giustizia. I magistrati, a loro volta, affilano le armi e, in un’affollata assemblea dell’ANM hanno preannuciato, all’unanimità, “un grappolo di scioperi” preceduti da una capillare informazione dell’opinione pubblica sui danni del progetto governativo (sul quale, proprio oggi, è anche la relazione annuale della Commissione europea sullo Stato di diritto a esprimere dubbi e perplessità). Di alcune delle riforme annunciate abbiamo parlato altre volte, ma ora – quando si preannuncia la resa dei conti – è opportuno fermarsi sulla questione fondamentale: perché si vuole “riformare” la giustizia?

Preliminare è chiarire cosa si vuole modificare: da un lato, il sistema penale, cancellando (cosa in parte già fatta) alcuni reati dei colletti bianchi e, parallelamente, aumentando i delitti e le pene riservati a marginali e ribelli; dall’altro, lo status di giudici e pubblici ministeri (con la separazione delle carriere tra i primi e i secondi e l’introduzione di due distinti Consigli superiori e di un diverso organo preposto all’accertamento delle responsabilità disciplinari dei magistrati) e il regime dell’azione penale, destinato a diventare, da obbligatorio, discrezionale.

Perché, dunque, le modifiche? Non per migliorare i tempi e l’efficienza della giustizia che, con le riforme prospettate (giuste o sbagliate che siano), rimarrebbero sostanzialmente invariati, ma – come dicono esplicitamente i sostenitori – per ridefinire il ruolo della magistratura nel sistema istituzionale al fine di porre rimedio a quello che viene definito lo strapotere dei giudici (antica ossessione della politica sin dalla fine del secolo scorso, quando un giornale intitolò: “Un fantasma si aggira per l’Europa: il governo dei giudici”). Il cuore del problema sta, dunque, qui: è vero – oppure no – che la giurisdizione e la magistratura stanno eccedendo dalle proprie attribuzioni e minacciano l’autonomia della politica? A forza di sentirselo ripetere una parte degli italiani comincia a crederlo. Ma il discorso è, in realtà, più complesso e non può essere ridotto a una competizione tra giudici e politici o, peggio, a un giudizio sulle maggiori virtù degli uni o degli altri.

Cominciamo dai fatti che, come noto, hanno la testa dura. Un dato – almeno uno – è incontestabile: il cosiddetto strapotere dei giudici non è un carattere specifico del caso italiano. È così dappertutto nel mondo. Basta guardare agli Stati Uniti, dove la campagna elettorale è punteggiata da processi (e finanche condanne) per fatti gravissiomi a carico di entrambi i candidati alla presidenza (o di loro stretti familiari), o alla giustizia internazionale, che si spinge fino a dichiarare la legittimità o l’illegittimità delle guerre e ad emettere mandati di cattura nei confronti di capi di Stato di primissimo piano. E si tratta solo dei casi più clamorosi. Negli ultimi decenni i giudici hanno interferito, sino a decapitare governi e maggioranze, nelle vicende delle più grandi potenze del pianeta: dalla Francia alla Spagna, dal Regno Unito al Brasile, dal Giappone a Israele e via elencando. E non è stato risparmiato neppure il Parlamento Europeo. Supefluo aggiungere che, nei paesi considerati, i sistemi giudiziari e lo status dei giudici erano e sono i più diversi. Difficile, in questa situazione, sostenere che il disequilibrio tra giustizia e politica, a vantaggio della prima, dipenda da forzature soggettive o dall’assetto ordinamentale dei magistrati. Le ragioni sono evidentemente altre, legate alla crisi delle democrazie che favorisce, ovunque, tendenze autoritarie, mancato rispetto dei vincoli istituzionali, corruzione diffusa etcIl conflitto, in altri termini, non è tra politica e giudici ma tra politica e regole. Da qui occorre partire nell’analisi della necessità/opportunità delle riforme proposte (costituzioali e non).

Nulla di nuovo sotto il sole. Da sempre il potere è insofferente a regole prestabilite e tende a modificarle secondo la propria convenienza. Era così negli Stati assoluti dove – come ha scritto un grande storico del diritto inglese – «i giudici delle corti erano con tutta evidenza i servitori del re […]. Il re era la fonte di ogni giustizia; quelli non erano che i suoi deputati: era quella la teoria fondante del sistema, secondo la tradizione, ed era impossibile rompere con essa». È stata la modernità a modificare il quadro affermando il primato delle regole e lo Stato di diritto, in cui tutte e tutti, governanti compresi, sono – o meglio, dovrebbero essere – uguali di fronte alla legge.

La storia del nostro Paese è esemplare. Fino alla metà del secolo scorso, prima dell’avvento della Costituzione repubblicana, era in vigore lo Statuto albertino del 1848, il cui articolo 68 prevedeva che «la giustizia emana dal Re, ed è amministrata in nome suo dai Giudici che Egli istituisce», così configurando la giustizia, anche in termini istituzionali, come una semplice manifestazione del potere regio e i giudici, appunto, come servitori del re, parte del ceto politico di governo e garanti di quel sistema. Indipendenti nelle cause ordinarie, i giudici e, a maggior ragione, i pubblici ministeri (organizzati in modo rigorosamente gerarchico) godevano di una sorta di libertà controllata, destinata a venir meno alla soglia degli affari sensibili e, soprattutto, di quelli che toccavano i poteri forti e la politica. I magistrati erano dei semplici funzionari esecutivi (lo confermava l’art. 73 dello Statuto albertino, secondo cui «l’interpretazione delle leggi, in modo per tutti obbligatoria, spetta esclusivamente al Potere legislativo») e il conflitto tra giudici e politica era fuori dall’ordine delle cose. Quel sistema è stato sovvertito dalla Costituzione con alcune disposizioni fondamentali: «La giustizia è amministrata in nome del popolo. / I giudici sono soggetti soltanto alla legge» (articolo 101), «La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» (articolo 104, primo comma), «I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni» (articolo 107, terzo comma), «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale» (articolo 112). Le differenze rispetto al sistema preesistente sono evidenti e realizzano, per la giustizia, una rivoluzione copernicana. I magistrati cessano di essere una semplice articolazione della pubblica amministrazione, priva di reale indipendenza, e assumono, ciascuno singolarmente considerato, la pienezza del potere giudiziario che è, per così dire, originario e non discende da una delega del sovrano. Più in generale, nel nuovo impianto istituzionale la sfera della politica si amplia, affiancando ai segmenti classici (partiti, parlamento, governo etc.) altri elementi tra cui, appunto, la giurisdizione: non per ragioni di ingegneria istituzionale ma per la convinzione – tratta dalle dure lezioni dei decenni precedenti – che il giusto e il politicamente utile non sempre coincidono. È questa (possibile) dicotomia che fonda e sostiene il disegno di un potere diviso, comprensivo anche di istituzioni e autorità indipendenti, garanti (almeno potenzialmente) del rispetto delle regole da parte di tutte e tutti (e, dunque, anche dei poteri forti e della politica). Tre sono gli architravi del nuovo sistema per quanto riguarda la giustizia: l’indipendenza dei singoli giudici, il principio di obbligatorietà dell’azione penale con connessa indipendenza del pubblico ministero, il sistema di governo autonomo dei magistrati in capo al Consiglio superiore. Superfluo dire che questo assetto modifica nel profondo (e scientemente) il rapporto tra magistratura e politica, rendendo anche quest’ultima soggetta al controllo di legalità.

La conclusione è ovvia. Quando si dice – come fa l’attuale la maggioranza di governo – che si vuole limitare lo strapotere dei giudici intervenendo sulla loro indipendenza, sul Consiglio supeiore della magistratura e sull’obbligatorietà dell’azione penale, si intende ripercorrere a ritroso la nostra storia istituzionale tornando a un assetto simile (ancorché attualizzato) a quello dello Statuto albertino, con una magistratura controllata, più o meno direttamente, dalla politica. Per cogliere gli effetti di questo prospettato ritorno a sistemi precedenti alle Costituzioni del secondo dopoguerra basta guardare a quanto sta accadendo negli Stati Uniti, dove dei giudici partecipi del potere politico – e di nomina politica – hanno assicurato (o stanno per assicurare) a Tump l’impunità a prescindere per una serie di reati assai gravi che, se provati, dovrebbero comportare, oltre a una pena consistente, la fine politica per chi vi è incappato.

Questa è la posta in gioco, non una banale contesa sul fatto se i giudici sono migliori dei politici o viceversa. Avendo fatto per oltre 40 anni il magistrato posso testimoniare in tutta serenità che i giudici non sono migliori dei politici (e, per questo, la critica rigorosa e argomentata è un’arma necessaria nei loro confronti); ma la stessa esperienza mi ha insegnato che un sistema di eguale sottoposizione di tutte e tutti alle regole è migliore di un assetto istituzionale nel quale qualcuno (e, in particolare, la politica di governo) è più uguale degli altri.

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