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Per Giulio Regeni, cinque anni dopo

A cinque anni dalla brutale uccisione di Giulio Regeni, la verità è più vicina che mai ma la giustizia continua a latitare. I tempi, i luoghi e le memorie di questa vicenda ne rafforzano l’eco e la valenza esemplare

I tempi

Il 18 dicembre 2020, il Fondo monetario internazionale (Fmi) comunicava i primi esiti del programma di riforme egiziano che aveva supportato con un prestito consistente: secondo quei dati, il paese starebbe contenendo bene la diffusione della pandemia di Covid-19 (a oggi sono meno di diecimila i decessi registrati), mentre i fondamentali dell’economia nazionale resterebbero stabili e il piano di riforme strutturali del governo risulterebbe «adeguatamente ambizioso».

All’inizio di gennaio, il Fmi ha addirittura rivisto al rialzo la sua previsione sulla crescita del Pil egiziano per il 2021: da 2 a 2,8%. La crescita economica egiziana è strettamente intrecciata all’incremento della spesa militare (sul quale hanno influito anche l’aumento dei salari militari e la svalutazione): stando a un report dettagliato dello Stockholm international peace research institute, dalla presa di potere di Al-Sisi nel 2014, l’import di armi è aumentato al punto di rendere l’Egitto il terzo importatore di armi al mondo e il secondo della regione. Cinque giorni dopo il comunicato del Fmi, presso i cantieri navali di La Spezia, veniva consegnata la prima di due fregate militari di Fincantieri acquistate dalla Marina egiziana: la vendita rientra in un maxi-accordo da 9 miliardi di euro tra Italia ed Egitto, che rappresenta la più significativa commessa bellica dal Dopoguerra per l’Italia e il più importante ordinativo mai effettuato dall’Egitto. Secondo il sito arabo indipendente Noon post, l’accordo – che ha preso il nome di «commessa del secolo» – «[cambierebbe] radicalmente l’equilibrio delle forze militari nel Medio Oriente».

Questi eventi – il giudizio favorevole del Fondo monetario da un lato, la compravendita di mezzi militari con l’Italia dall’altro – suscitano una certa sorpresa, se si considera che solo lo scorso anno l’Egitto aveva richiesto e ottenuto, dopo quello del 2016, un nuovo prestito dal Fondo, nel tentativo di evitare il collasso di un’economia pesantemente segnata dalla pandemia in settori chiave come il turismo e i traffici commerciali convogliati dal Canale di Suez. In cambio di risorse per circa dieci miliardi, le autorità egiziane si erano impegnate in un nuovo ciclo di liberalizzazioni e politiche di austerità, andando a infierire su una popolazione ormai per un terzo sotto la soglia di povertà. Come sono compatibili politiche tipicamente neoliberali come queste con una spesa estera in armi tanto elevata?

In uno studio appena pubblicato, l’economista egiziano Amr Adly ha indagato la paradossale simbiosi venutasi a creare, negli ultimi anni, tra l’autoritarismo esasperato del regime di al-Sisi e ricette economiche neoliberali mai così radicali: se occorrono istituzioni fortemente repressive per implementare rapidamente misure economiche altamente impopolari, un regime che non possiede legami particolarmente saldi con gruppi sociali diversi dall’esercito e dalle forze di polizia necessita di accesso ai mercati finanziari (in particolare in termini di interessi gestibili sul proprio debito) per poter foraggiare i suoi pochi sostenitori e provare a farsene di nuovi. A queste considerazioni di natura finanziaria se ne intrecciano altre di carattere geopolitico: l’Egitto è un attore importante nella «lotta al terrorismo», un alleato degli stati del Golfo in chiave anti-siriana, nonché uno dei principali attori nello scenario libico, a sua volta connesso a una serie di direttrici migratorie: spalleggiarne economicamente la dittatura ha senso per molti.

Sempre il 18 dicembre, mentre veniva pubblicato il comunicato stampa del Fmi, a Strasburgo il Parlamento europeo approvava a larga maggioranza una mozione che criticava «il tentativo delle autorità egiziane di fuorviare e ostacolare i progressi nelle indagini sul rapimento, sulle torture e sull’omicidio del ricercatore italiano Giulio Regeni nel 2016» e insieme chiedeva di «sospendere le licenze per tutte le esportazioni di armi, tecnologie di sorveglianza e altre attrezzature di sicurezza verso l’Egitto». Cinque giorni più tardi, con tempismo spudorato, avveniva il varo della prima nave da guerra italiana acquistata dal Cairo, senza comunicati ufficiali e con una cerimonia decisamente in sordina, a segnalare un certo imbarazzo istituzionale. Che l’ingente commessa egiziana venisse utilizzata come pietra di scambio per la plateale mancanza di collaborazione della propria magistratura nelle indagini sull’omicidio di Regeni era evidente a tutti. Poco prima, il 10 dicembre, la procura di Roma aveva infatti chiuso le indagini sul caso, chiedendo il rinvio a giudizio di quattro agenti della sicurezza egiziana: il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Di questi ultimi, per tutta risposta, i magistrati egiziani non avevano fornito neppure gli indirizzi, riesumando un’ipotesi (quella del crimine compiuto da una banda di ladri) che appariva manifestamente infondata già poche settimane dopo la morte del ricercatore.

Il nesso tra l’invio all’Egitto della prima fregata e la presa di posizione del procuratore generale del Cairo – scrive Giorgio Beretta della Rete disarmo – non è solo temporale. I toni arroganti utilizzati nei confronti delle richieste dei giudici italiani trasmettono tutta la sicurezza di chi sa di aver pagato abbastanza da risfoderare ipotesi investigative notoriamente false, consapevole che non avrà nessun effetto negativo sui rapporti politico-economici con l’Italia. La correlazione tra i due eventi, sulla quale anche nel mondo arabo si discuteva da tempo, era non a caso stata anticipata da una mobilitazione per chiedere al governo di Roma di bloccare le nuove forniture militari all’Egitto e, contestualmente, di pretendere invece dal Cairo verità e giustizia per Regeni. Peraltro, i genitori del ricercatore, nella puntata di fine anno di Propaganda Live, hanno annunciato che avrebbero presentato un esposto «contro il governo italiano» per «violazione della legge 185/1990» che «vieta l’esportazione di armamenti verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani».

Nessuna risposta in proposito è arrivata dalle autorità italiane, evidentemente convinte di giocarsi troppo con questo affare, nel quale sono coinvolti anche diversi istituti di credito italiani e che avrebbe un ruolo fondamentale nella gestione degli equilibri della regione, in particolare in Libia. Come riporta la Bbc Arabic, dall’Egitto è facile contrabbandare materiale bellico via terra fuori dal controllo internazionale e il paese «può servire da mediatore per fornire a Haftar delle risorse aeree e navali, soprattutto considerato l’embargo internazionale che gli impedisce di acquistare armi». Del resto, il giorno prima del comunicato del Fmi e della mozione del Parlamento europeo, il Presidente del Consiglio e il Ministro degli Esteri erano stati costretti a prestare un’improvvisata quanto umiliante visita ufficiale ad Haftar, per ottenere il rilascio dei diciotto pescatori di Mazara del Vallo arbitrariamente sequestrati lo scorso settembre da una delle sue milizie. Lo stesso esecutivo che si era ipocritamente fregiato dell’abolizione dei cosiddetti «decreti sicurezza» ribadiva così la propria intenzione di venire a patti con chiunque abbia il potere di governare, con i metodi che conosciamo, le rotte migratorie.

I luoghi

Parigi, Francia. A dicembre 2020, presso il palazzo presidenziale di Parigi, l’Eliseo, steso il tappeto rosso, al dittatore egiziano Abdel Fattah Aal-Sisi veniva conferita la Gran croce della Legion d’onore. Fuori, per le strade della città, la comunità della diaspora egiziana (organizzata  anche attorno alla Initiative franco-egyptienne pour les droits et les libértés) e altri solidali protestavano contro la visita di Stato. Nonostante il tentativo governativo francese di non pubblicizzarlo, il vergognoso gesto sarebbe stato presto reso noto, rilanciato con comprensibile entusiasmo dai siti di regime egiziani. Alcuni intellettuali italiani, a loro tempo insigniti della Legion d’onore, hanno per tutta risposta riconsegnato l’onorificenza all’ambasciatore francese.

Più della scelta di rinunciare alla decorazione, è interessante analizzare la cornice retorica nella quale è stata inserita. Corrado Augias, l’ideatore dell’iniziativa, scriveva in una lettera inviata a Repubblica: «L’assassinio di Giulio Regeni rappresenta per noi italiani una sanguinosa ferita e un insulto, mi sarei aspettato dal presidente Macron un gesto di comprensione se non di fratellanza»; Rossana Rummo, consigliera della Corte dei conti ed ex direttrice dell’Istituto italiano di cultura di Parigi, commentava: «Per noi italiani la ferita dell’assassinio di questo giovane nostro concittadino, Giulio Regeni, e la sorte di quest’altro ragazzo, Patrick Zaki, sono molto pesanti». In definitiva, il gesto veniva inserito in un contesto nazionale e posto in stretta relazione con l’omicidio di Regeni: la scelta di Macron veniva cioè risignificata come uno smacco francese agli italiani tutti, e non come l’insulto violento a tutte le egiziane e gli egiziani (e non solo) oppressi, torturati e uccisi dalla dittatura – perdipiù un insulto da parte del Presidente della nazione dei cosiddetti diritti umani, che riconosce invero solo il diritto umano di dominare. Non a caso, proprio perché inserita all’interno di un discorso nazionale (e, in definitiva, nazionalista), la protesta non si è allargata ad altri soggetti – francesi o stranieri – insigniti della Legion d’onore, anche se si sono registrate altre forme di protesta, come una lettera che vedeva nel conferimento dell’onorificenza un insulto ai diritti delle donne.

La memoria di Regeni – che avevamo da subito ipotizzato potesse essere un veicolo per introdurre nella sfera pubblica occidentale la vicenda storica della dittatura e della resistenza egiziane – ha in questo caso agito in modo involutivo, autoriferito, innescando una diatriba tutta eurocentrica, mentre i suoi portatori fallivano – ma forse, data la loro posizione, non avrebbero potuto fare altrimenti – nell’innescare dinamiche di solidarietà internazionale (internazionalista?) tra oppressi.

Tora, Egitto. A Tora sorge un complesso penitenziario tristemente noto per le violenze sui prigionieri. Al momento vi è detenuto con pretestuose accuse di sedizione Patrick Zaki, «quest’altro ragazzo», il cittadino egiziano studente dell’università di Bologna imprigionato l’8 febbraio 2020 e da allora in detenzione preventiva fino a data da destinarsi. Fuori dal carcere, lo scorso giugno, si erano accampate Sanaa e Mona Seif e Laila Souef, chiedendo notizie di Alaa di Abd El-Fattah, rispettivamente loro fratello e figlio, detenuto dal 2019, come raccontavamo l’anno scorso; mentre erano in attesa, vennero aggredite e rapinate da ignoti; il giorno dopo, una volta recatasi a sporgere denuncia, Sanaa venne rapita e da allora è anche lei in custodia cautelare. A Tora, si trovano anche l’avvocata Mahienour al-Massry, il legale di Alaa, Mohamed El-Baqer e molti altri prigionieri politici, per un totale di quasi duemila detenuti, considerando anche i detenuti comuni. Nell’autunno 2020, a seguito del peggioramento delle condizioni di sopravvivenza anche a causa della malagestione della pandemia e della morte di quattro prigionieri che avevano tentato la fuga, i detenuti hanno protestato, anche attraverso uno sciopero della fame: l’eco delle proteste è arrivata su alcuni quotidiani italiani, come Avvenire e Il fatto quotidiano, che hanno pubblicato dei reportage a riguardo.

A dieci fermate di metro dalla prigione di Tora sorge piazza Tahrir, simbolo della Rivoluzione del 2011, del cui inizio cade oggi il decimo anniversario: quella piazza – insieme ad altri luoghi simbolo del 2011, come sharia Mohammed Mahmoud, «la strada dei martiri», e la zona di piazza Rabaa al-Adaweya, teatro di un massacro del quale avevamo parlato qui – stanno subendo opere di riqualificazione architettonica che rientrano in un progetto di dannazione della memoria dei fatti rivoluzionari e di depoliticizzazione dello spazio urbano.

Le memorie

La vicenda di Patrick Zaki si intreccia in modo inestricabile con il ricordo di quella di Giulio Regeni – e non solo dal punto di vista geografico. Una delle narrazioni che già negli scorsi anni avevamo visto all’opera nella sfera pubblica poneva l’accento sulla necessità di guardare al futuro delle relazioni bilaterali: Regeni era morto e prendere decisioni che avrebbero danneggiato gli interessi economici delle aziende italiane operanti in Egitto non lo avrebbe riportato indietro. Zaki scardina questo tipo di discorso, mostrando il bluff che c’è dietro: è provato ma vivo, la sua carcerazione arbitraria viene periodicamente rinnovata al termine di udienze che costituiscono altrettanti pungoli per la nostra vergogna. Nel suo caso non si tratta semplicemente della volontà, pure fondamentale, di ristabilire la verità e di ottenere in qualche modo giustizia (il giovane sarebbe fra l’altro stato torturato), ma di salvare una vita, di restituirle la libertà.

Assistiamo in questo caso a una ramificazione della dinamica dell’esemplarità che avevamo descritto in precedenza: non è tanto la vicenda di Regeni a far accendere i riflettori su quelle degli attivisti egiziani vittime del regime di al-Sisi, ma la storia più recente di Zaki a saldarsi con quella del ricercatore friulano, rafforzandone l’eco e mostrandone retrospettivamente la valenza evocativa. Non è un caso che tanto i tentativi di rimozione quanto quelli di denuncia della sua prigionia si siano giocati sulla caratteristica principale che distingue lo studente egiziano da Regeni, vale a dire la diversa cittadinanza. Da un lato il disinteresse eurocentrico per la sorte di chiunque provenga dal cosiddetto Medio Oriente portava a sottomettere la soluzione della vicenda – ancor più che nel caso di Regeni, che quantomeno era cittadino italiano – a considerazioni di Realpolitik; dall’altro il comune e l’università di Bologna, seguiti a ruota da altre città italiane, lanciavano una serie di iniziative (come il conferimento a Zaki della cittadinanza onoraria) volte a sottolineare il legame di Zaki con l’Italia, legame che era facilitato da alcuni elementi della sua biografia (il nome inglese-cristiano, gli interessi accademici…) che lo rendono un soggetto più facilmente assimilabile di altri.

Al centro di un nuovo reticolato di connessioni mnemoniche, la situazione di Zaki funge da tramite fra l’omicidio del ricercatore italiano e la detenzione di decine di migliaia di oppositori e oppositrici egiziani: l’arroganza del regime del Cairo, che le stesse istituzioni italiane hanno alimentato per buona parte dell’ultimo quinquennio, bada poco alle differenze, disponendo come preferisce dei corpi di coloro che gli si oppongono. Parallelamente, la mancanza di decisione con cui l’Italia ha richiesto il rilascio di Zaki e il prolungamento ormai grottesco della sua permanenza in carcere, sancito da un susseguirsi di udienze di convalida sempre uguali, mostrano il logoramento di un uso politicamente radicale e multidirezionale della memoria di fronte all’inazione politica.

Le analogie inquietanti fra il caso Regeni e quello di Zaki restituiscono la sensazione di una ripetizione senza differenza, di una ricorsività beffarda che procede, per dirla con Marx, dalla tragedia alla farsa. Si ripropone qui l’interrogativo recentemente formulato da Hal Foster: cosa viene dopo la farsa? Come sottrarsi a un ricorso progressivamente narcotico alla ripetizione dei medesimi crimini di Stato, che non fa che accrescerne l’aura di inevitabilità? Come criticare, da entrambe le sponde del Mediterraneo, due stati che sembrano ormai immuni alla vergogna che la dimostrazione delle loro malefatte dovrebbe generare? Atti sia pur lodevoli come la rinuncia a una onorificenza non possono, in questo senso, che sembrare spuntati.

A cinque anni dalla brutale uccisione di Giulio Regeni, la verità è più vicina che mai, ma la giustizia continua a latitare. Il lavoro degli inquirenti italiani lascia pochi dubbi sull’effettivo coinvolgimento delle persone rinviate a giudizio, ma ogni passo ulteriore richiederà un qualche tipo di collaborazione da parte del regime di al-Sisi, collaborazione che al momento le autorità italiane sembrano intenzionate a ricercare in tutti gli ambiti meno che in questo. Con la sorte di Patrick Zaki e di tantissimi egiziani ed egiziane ancora appesa a un filo, non possiamo forse che augurarci una nuova Tahrir.

Franco Palazzi – graduate student in filosofia presso la New School for Social Research di New York e fellow del Robert L. Heilbroner Center for Capitalism Studies.

Michela Pusterla – dottoranda in italianistica all’Università di Trieste.

da JacobinItalia