Giulio Regeni e l’ostinazione della memoria. Parte I: l’inventario dei rimossi
Questo articolo propone un’analisi strutturale di quanto accaduto negli ultimi mesi, con particolare attenzione alla pubblicazione del reportage di Declan Walsh sul New York Times e alle reazioni e risposte che (non) ha suscitato, alla decisione di rinormalizzare le relazioni diplomatiche con l’Egitto e alla relativa informativa presentata dal ministro Alfano alle Commissioni Esteri delle Camere il 4 settembre 2017, al ruolo dell’università di Cambridge nell’intera vicenda. Ne seguirà un secondo, dove riprenderemo l’analisi dei cortocircuiti tra verità e memoria che avevamo proposto nel gennaio scorso e denunceremo i rischi di una sanitizzazione della figura di Regeni attraverso un processo di istituzionalizzazione della memoria, che ne confina il lascito al passato e deresponsabilizza chiunque sia coinvolto, a vario titolo, nella ricerca della verità nel presente.
A margine del reportage del New York Times
Il 15 agosto 2017 il New York Times pubblicava online un lungo reportage di giornalismo investigativo, firmato da Declan Walsh, caporedattore della sede del Cairo: il testo usciva in versione ridotta sul NYT Magazine di domenica 20 agosto, ed era stato anticipato il 14 da un articolo più breve che annunciava il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo. In Italia, la pubblicazione dell’indagine di Walsh in corrispondenza all’annuncio dell’invio dell’ambasciatore ha portato quotidiani ed esponenti politici italiani a insinuare una volontà da parte del quotidiano di ostacolare la ri-normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Italia ed Egitto: il senatore Cicchitto, in Commissione Esteri, definiva il reportage di Walsh un «articolo provocatorio fatto e commissionato chiaramente da un pezzo di servizi americani».
Per quanto questa polemica sul tempismo implichi una pericolosa, conseguente, disattenzione ai contenuti, ci concediamo comunque poche righe per puntualizzare due aspetti. Primo, è uso del Times pubblicare gli articoli online nelle ventiquattro ore precedenti alla pubblicazione su carta (addirittura, il 15% circa degli articoli viene pubblicato online nei giorni precedenti) e un’eventuale anticipazione di alcuni giorni sulla scaletta delle pubblicazioni online sarebbe da ascrivere a una scelta (legittima) di opportunità giornalistica. Secondo, l’articolo di Walsh è evidentemente il prodotto di un lavoro di lungo periodo, la pubblicazione del quale era già fissata per metà agosto, come confermano il portavoce di Amnesty Italia, Riccardo Noury, a Radio Popolare e la corrispondente del Times Gaia Pianigiani a Radio Anch’io. Walsh ha firmato il primo pezzo sul caso Regeni il 4 febbraio 2016; nei diciotto mesi successivi, l’attenzione del Times è stata costante: moltissimi articoli, a firma di Walsh, Kareem Fahim, Nour Youssef e della redazione hanno seguito lo sviluppo degli eventi, segnalando in itinere vari elementi poi ripresi nell’indagine pubblicata il 15 agosto, come il ruolo dell’ex segretario di Stato John Kerry, la (dapprima ipotizzata) presenza del caso Regeni negli incontri bilaterali tra Stati Uniti ed Egitto, gli interessi economici che legano l’Italia all’Egitto, la centralità di quest’ultimo per la questione libica, il silenzio colpevole e opportunista di Francia e, parzialmente, Regno Unito. Non esiste dunque al momento nessun elemento che possa far ritenere che il lavoro di Walsh abbia finalità che non siano strettamente giornalistiche.
Il reportage (qui in traduzione italiana), con minuzia e moltissime informazioni di dettaglio, ricostruisce la vicenda per un pubblico internazionale e aggiunge alcune rivelazioni. In generale, l’esposizione del Times riprende dei meccanismi già presenti nelle narrazioni mainstream sul caso, come una celebrazione semplificatoria della figura di Regeni («era insaziabilmente curioso e aveva un fascino poco appariscente che gli aveva attirato un’ampia cerchia di amici») e un certo orientalismo nel descrivere Il Cairo («i caffè fumosi, l’attività frenetica e infinita, le barche colorate come caramelle che la sera navigavano sul Nilo»). Walsh si distingue tuttavia per una ricostruzione molto particolareggiata, che si basa evidentemente su numerose interviste dirette ad amici e conoscenti (alcuni citati, altri anonimi) e una capacità notevole di tenere insieme i fili della biografia di Regeni, con i suoi dati quotidiani, particolari, e quelli del piano storico, politico, diplomatico.
Tuttavia, il fulcro del reportage (e il motivo per il quale è stato tanto rilanciato dalla stampa italiana) sta nelle «rivelazioni», emerse da interviste incrociate a tre ex funzionari dell’amministrazione Obama. In breve, stando al Times, il governo statunitense trasmette a quello italiano la propria opinione sul caso Regeni, cioè che la responsabilità ricade genericamente sui servizi di sicurezza egiziani, senza tuttavia annettere le prove, né le fonti, né i nomi dei responsabili. Stando alle fonti di Walsh, il governo italiano – su informazione di quello statunitense – sapeva fin dall’inizio che, primo, la responsabilità del rapimento, della tortura e della morte di Giulio Regeni era delle forze di sicurezza egiziane e, secondo, i vertici politici cairoti conoscevano la verità.
Su questo punto, il 15 agosto, quasi tutti i siti dei giornali italiani pubblicano una smentita da parte di «fonti di Palazzo Chigi», che Alfano conferma essere «la posizione ufficiale del governo perché è la posizione di verità». La dichiarazione suona così: «nei contatti tra amministrazione USA e governo italiano avvenuti nei mesi successivi all’omicidio di Regeni non furono mai trasmessi elementi di fatto, come ricorda tra l’altro lo stesso giornalista del New York Times, né tantomeno “prove esplosive”» e «mai Barack Obama, nei suoi incontri con il presidente del Consiglio Renzi, ha parlato del ricercatore ucciso. E comunque tutti gli atti in possesso dell’esecutivo sono stati consegnati alla Procura di Roma che indaga sull’omicidio» (Goffredo de Marchis, Repubblica, dove compare anche un’intervista a una fonte della Farnesina). Ora, considerato che l’articolo di Walsh non parla di un dialogo diretto tra Obama e Renzi, né dice che le «prove esplosive» siano state trasmesse all’Italia (ma solo che gli Stati Uniti ne sono in possesso), la «smentita» di Palazzo Chigi, di fatto, conferma quanto detto dal Times. Che il Governo italiano ritenesse i servizi segreti responsabili e il Governo egiziano omertoso sarebbe infatti confermato dalla linea ferma tenuta dal ministro degli Esteri Gentiloni nei mesi di marzo e aprile 2016, quando sarebbe avvenuto il passaggio di notizie stando a Walsh. Allora Gentiloni mostrava un atteggiamento deciso, che ha poi abbandonato gradualmente, sia nelle scelte linguistiche («l’omicidio di Regeni ha scosso le nostre coscienze […] per il modo in cui è stato atrocemente torturato e ucciso») sia in quelle politiche (il richiamo dell’ambasciatore Massari, accompagnato dal tweet «Vogliamo una sola cosa: la verità su Giulio #Regeni», corsivi nostri).
Le rivelazioni dell’articolo del Times, confermate e integrate da una fonte dell’amministrazione statunitense in un’intervista a la Stampa, non sono quindi nei fatti state dichiarate false da nessun esponente del governo. Piuttosto, hanno aperto alcuni interrogativi ai quali finora nessuno si è premurato di rispondere, anche perché non sono stati posti direttamente al ministro Alfano da nessuno dei membri delle Commissioni Esteri presenti all’informativa. Per esempio, se è vero che gli Stati Uniti hanno trasmesso all’Italia solo una parte delle informazioni in loro possesso, perché l’Italia non ha chiesto conto delle altre informazioni (le fonti, le prove…) a fini investigativi? Perché il governo non sollecita quello statunitense su questo punto? Evidentemente, la fonte dei servizi americani si trova troppo in alto nella gerarchia del potere egiziano perché la sua identità possa essere rivelata. Ma, ancora, tra la comunicazione di maggiori dettagli e quella del nome della fonte sembra esserci un ampio terreno di mezzo sul quale non si è forse riflettuto adeguatamente.
Le comunicazioni, che stando a Walsh sembrerebbero avvenire all’interno della sfera politica, potrebbero però essere avvenute attraverso i servizi. Una delle principali fonti del giornalista, in un’intervista a Repubblica, dichiara: «So per certo che le informazioni furono trasmesse via servizi segreti, e non per canali diplomatici: e che lo scambio avvenne in diverse occasioni, non in una sola volta […] nelle settimane successive al ritrovamento del corpo di Regeni». Se le informazioni fossero effettivamente state trasmesse ai servizi, senza che venissero conosciute dagli esponenti del governo, si confermerebbe qui una linea di tensione tra servizi ed esecutivo adombrata dallo stesso Times. Secondo un funzionario del ministero degli Esteri intervistato da Walsh, era in atto una guerra a bassa tensione tra servizi e governo. Ora, la dichiarazione di Palazzo Chigi dopo la pubblicazione dell’articolo non fa riferimento a questo punto che sembra, al contrario, più importante delle «rivelazioni» sul passaggio di informazioni tra Stati Uniti e Italia. La scelta di soprassedere – rispettata anche nell’informativa di Alfano – ha portato all’obiettivo desiderato: evitare che il tema entrasse nel dibattito pubblico.
Il ruolo dei Servizi è stato però messo al centro da una lettera scritta al direttore di Repubblica dal procuratore capo di Torino Armando Spataro, che propone alcune domande da porre all’Aise (ex Sismi) sugli effettivi passaggi di notizie tra questa agenzia, la polizia giudiziaria e la procura: una delle ipotesi considerate nel testo è che alcune informazioni trasmesse dagli Stati Uniti potrebbero essersi incagliate prima di raggiungere il procuratore di Roma. Non è nostra intenzione affermare che il coinvolgimento dei servizi segreti in questa vicenda sia di per sé negativo, né immergerci nel mare delle occasioni più o meno recenti nelle quali il ruolo giocato dall’intelligence italiana è risultato quanto meno nebuloso e sottratto a ogni logica di controllo democratico, ma non si può ignorare il nesso strutturale tra il ricorso anche motivato agli arcana imperii e una certa retorica della ragion di Stato per la quale la promozione del benessere dei cittadini potrebbe avvenire solo con mezzi utilizzati a loro insaputa (cfr. Bobbio [1984] 1987: 34). Poiché le due narrazioni si rinforzano a vicenda, ammantandosi di un’aura di inevitabilità che altro non è che una profezia che si auto-avvera, la necessità di chiarimento esplicito circa il corretto passaggio di informazioni tra i vari livelli degli apparati dello Stato non può essere sminuita.
La delega ai Servizi, nella primavera del 2016, era da tre anni nelle mani dell’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Marco Minniti, oggi ministro dell’Interno. Minniti, che veniva recentemente definito «the lord of the spies» in un articolo firmato dal caporedattore della sezione italiana del New York Times, Jason Horowitz, non viene tuttavia mai nominato nel reportage su Regeni. Nondimeno, la sua figura sembra per varie ragioni centrale nella vicenda: la carriera a contatto con i servizi; il ruolo nell’orchestrazione del nuovo equilibrio migratorio del Mediterraneo; lo stretto rapporto con il senatore PD Latorre, alla guida della delegazione parlamentare in Egitto che nel luglio 2017 ha preparato le condizioni per il ritorno dell’ambasciatore italiano al Cairo; la vicinanza con il presidente di ICSA (think tank co-fondato da Minniti stesso), il generale Tricarico, oggi voce eminente delle teorie complottistiche che vedono Regeni coinvolto in una sorta di intrigo internazionale dal proprio ateneo. Proprio Minniti è forse l’emblema di quanto l’atteggiamento delle autorità italiane nei confronti dell’Egitto sia legato a doppio filo con la partita sui flussi migratori sia sul versante interno all’Italia che in politica estera.
Il rinvio dell’ambasciatore al Cairo: l’irrealtà di un realismo che non c’è
Il 14 agosto, qualche minuto dopo una telefonata di Gentiloni ai genitori di Regeni, per rispettare formalmente – e mortificare nella sostanza – la promessa di «condividere» con loro qualunque decisione sul piano diplomatico, viene diffusa la notizia del prossimo rinvio dell’ambasciatore italiano al Cairo. Se le parole devono far male, diciamolo allora subito e con forza: non c’è alcun realismo politico da schierare a difesa della scelta di normalizzare le relazioni diplomatiche con la dittatura di Al-Sisi.
Il richiamo dell’allora ambasciatore Maurizio Massari aveva avuto luogo nell’aprile 2016, a seguito della totale mancanza di collaborazione delle autorità egiziane nelle indagini e anzi a fronte di una serie di imbarazzanti – e talora violenti – tentativi di depistaggio. Nel dicembre successivo Giampaolo Cantini veniva nominato come successore di Massari, ma nonostante gli auspici della stampa egiziana era rimasto in Italia. Ancora in febbraio, di fronte allo stallo nella collaborazione tra la procura del Cairo e quella di Roma, fonti interne ai due corpi diplomatici non ritenevano imminente l’arrivo di Cantini sull’altra sponda del Mediterraneo.
Nel frattempo, i rapporti economici tra i due Paesi continuavano con successo: nei primi tre mesi del 2017 hanno fatto registrare un incremento del 30% negli scambi commerciali – e si tratta di dati al netto del settore energetico, che gioca la parte del leone nelle relazioni bilaterali, con l’Eni che ha investito circa 7 miliardi nel giacimento di gas di Zohr (in poco meno di due anni, i lavori hanno raggiunto l’80% del completamento, un risultato ritenuto da record nel settore). Anche la vendita di armi da parte di aziende italiane ai corpi di sicurezza egiziani – gli stessi implicati in migliaia di «casi Regeni» riguardanti cittadine/i locali – ha registrato un incremento. Da questo punto di vista, insomma, non si presentava alcuna esigenza di un ritorno del vertice della nostra missione diplomatica.
A giugno lo scambio di informazioni tra le rispettive autorità giudiziarie toccava un nuovo minimo, dopo il rifiuto del Cairo di lasciare che gli inquirenti della procura di Roma assistessero all’interrogatorio di sette agenti che avevano indagato sul ricercatore prima della sua morte – Regeni era infatti tenuto sotto controllo dai servizi fin dal proprio arrivo.
Malgrado le dichiarazioni dell’ex presidente Matteo Renzi e del suo successore, l’Italia non ha mai intrapreso misure ulteriori rispetto al simbolico ritiro del proprio ambasciatore, per quanto il diritto internazionale preveda varie vie possibili: ad esempio il ricorso all’arbitrato ex art. 30 della Convenzione sulla Tortura, vincolante sia per l’Italia che per l’Egitto, o l’approvazione da parte del Consiglio dei Diritti umani dell’Onu di una risoluzione che istituisca una commissione d’inchiesta sulla tortura in Egitto. Oltre a tali misure, ne esistono altre di segno prettamente politico, come: la dichiarazione formale dell’Egitto come Paese non sicuro (non si accenna, invece, al tema dei diritti umani in Egitto sul sito della Farnesina Viaggiare Sicuri); la sospensione delle autorizzazioni alla vendita di armi e apparecchiature di sorveglianza; il blocco degli accordi di riammissione dei migranti egiziani in patria, che già avevano fatto discutere ai tempi Mubarak. A questo occorre aggiungere che lo stesso richiamo di Massari fu solo in parte un segno d’iniziativa, dato il contesto nel quale si verificò: come riferito nel reportage del New York Times, il precedente ambasciatore era tenuto sotto controllo dai servizi di scurezza egiziani, non si trovava nelle condizioni di usare internet o il telefono per comunicazioni sensibili e temeva infiltrazioni in ambasciata.
A fronte di una reazione nel complesso minimale al muro di gomma opposto dal Cairo alle richieste di verità e giustizia per Regeni, lo scorso maggio iniziavano a circolare dichiarazioni favorevoli a un ritorno in sede dell’ambasciatore (tra i primi, il senatore Nicola Latorre). Con il passare delle settimane il fronte favorevole al ripristino dello status quo ante si allargava, con le argomentazioni tipiche di questo schieramento già riassunte da un editoriale di Paolo Valentino sul Corriere e riprese dalla maggior parte degli interventi dei membri delle Commissioni Esteri, il 4 settembre: i diritti umani non possono condizionare eccessivamente le nostre relazioni internazionali, altrimenti dovremmo rivedere i rapporti diplomatici con decine di Stati; le aziende italiane, prima fra tutte Eni, hanno investito molto in Egitto e devono ora fare i conti con «contratti congelati»; l’Egitto ospita sul proprio territorio molti profughi, rispetta l’impegno di non farli salpare in direzione dell’Italia ed è un attore geopolitico centrale in Libia, punto di partenza del flusso migratorio più significativo verso il nostro Paese; la vera pressione sul caso di Giulio Regeni potrà essere attuata soltanto da un ambasciatore presente in loco e nel pieno delle proprie funzioni.
Se la forma è sostanza, colpisce subito che in interventi del genere il riferimento a Regeni sia sempre tenuto per ultimo, a mo’ di abbellimento moraleggiante per discorsi assai più biechi, come ha notato Riccardo Noury. Lo si menziona quasi con un certa svogliatezza, affidandosi perlopiù ad argomenti astratti con scarsissima profondità analitica: ‘meglio la presenza dell’assenza’ (come se quest’ultima non fosse derivata anche dai seri impedimenti all’operato di Massari) oppure ‘finora non è successo molto, quindi dobbiamo tornare alla strategia precedente’ (la stessa che ci ha fatto ottenere depistaggi ben oltre il limite del ridicolo, dalla tesi del Regeni-spia a quella del delitto passionale). Non è inoltre chiaro quali penalizzazioni economiche l’Italia starebbe subendo, quali contratti siano effettivamente in bilico, mentre dall’Eni è in passato arrivata una dichiarazione netta in proposito: il ritiro dell’ambasciatore non compromette le sue attività. (È interessante notare come al tempo stesso la compagnia energetica continui a essere tra gli inserzionisti di Libero, quotidiano che si è distinto per una copertura del caso Regeni particolarmente offensiva nei confronti della memoria del ricercatore). La carta regina, però, è quella della questione libica e delle politiche migratorie a essa legate, come dimostra l’evoluzione parallela dei due dossier nel corso dell’estate.
Se già il governo Renzi si era fatto promotore di accordi per interrompere i flussi migratori attraverso il Niger, l’attuale ministro degli Interni Minniti ha recentemente orchestrato una drastica estensione della strategia alla Libia, stipulando un accordo con la Guardia costiera locale – nominalmente al servizio del governo di Faiez Serraj, in pratica spesso vicina gli stessi trafficanti. Nella Libia divisa di oggi (cfr. Pradella e Rad 2017: 6-12 per una lettura critica del ruolo delle potenze straniere nel cambio di regime), Serraj, è molto debole, mentre è in ascesa il generale Khalifa Haftar, le cui milizie controllano il settore orientale del territorio e che è assai vicino ad Al-Sisi. È qui che i legami iniziano a diventare evidenti: la normalizzazione della situazione diplomatica in Egitto può diventare la leva per spingere il dittatore del Cairo a intercedere presso il signore della guerra con base in Cirenaica. In tal modo, la politica di blocco dei migranti sulle coste libiche diventerebbe più efficace.
In questo quadro va inserito il lavoro di riavvicinamento ad Al-Sisi: a luglio i senatori Latorre e Gasparri hanno guidato una delegazione italiana in Egitto, la prima dal ritrovamento del corpo di Regeni. In quella sede, Al-Sisi si è limitato a ripetere sul caso del ricercatore le vuote promesse fatte l’anno precedente, ma la reazione favorevole dei nostri inviati già lasciava presagire che si erano intavolate trattative per un imminente arrivo dell’ambasciatore Cantini, poi annunciato in seguito alla consegna di alcuni verbali di scarsissima importanza investigativa alla Procura di Roma. Una volta allargato lo sguardo sulla Libia, l’annuncio ufficiale della vigilia di Ferragosto sembrerebbe collocarsi decisamente nel solco del realismo politico: occorre rinunciare a che sia fatta giustizia per un cittadino italiano al fine di promuovere l’interesse nazionale in un’importante area geopolitica. Così però non è, per una serie di ragioni, illustrate di seguito.
Max Weber, in uno dei testi fondanti della tradizione realista, distingueva nettamente fra la responsabilità del capo politico e quella del funzionario: il primo, a differenza del secondo, trae la fonte del proprio onore «nell’esclusiva e personale responsabilità per le sue azioni, che egli non può o deve rifiutare o allontanare da sé» (Weber [1919] 2006: 32). A fronte di questa visione, l’operato del governo italiano impallidisce: una decisione potenzialmente impopolare è comunicata quando le Camere sono chiuse per ferie e l’opinione pubblica distratta, mentre si tenta di smerciare l’idea per cui il ritorno dell’ambasciatore dovrebbe portare dei passi avanti nella vicenda Regeni, senza che vengano fornite ragioni in base alle quali si dovrebbe credere a una tale versione.
Per Weber, ciò che distingue il politico realista dal sognatore indisciplinato è che il primo agirà il più delle volte in conformità alla multiforme «etica della responsabilità», invece che della rigida «etica dei principi» (ivi: 73-87), laddove essere responsabili significa rispondere delle conseguenze delle proprie azioni (ivi: 83). Le conseguenze dell’invio di Cantini per l’ottenimento della verità su Regeni sono ben sintetizzate dalle reazioni che l’annuncio ha suscitato in Egitto. Il 16 agosto il quotidiano Al-Wafd titolava «Il caso è chiuso», sintetizzando una linea condivisa da gran parte delle stampa locale. Il popolare canale televisivo Extra News concludeva un servizio in merito commentando «La nostra potente politica estera… è riuscita a chiudere il caso. Alla fine, si è trattato di un omicidio di un cittadino italiano al di fuori del suo Paese, proprio come ci sono egiziani uccisi all’esterno del loro Paese». Samia Kamal, deputata e membro della Commissione Affari Esteri, ha affermato che la scelta di Roma costituirebbe «la prova definitiva del non coinvolgimento dell’Egitto nell’uccisione del ricercatore italiano».
Un altro bastione del realismo politico, inteso specificamente come approccio alle relazioni internazionali, è la difesa della sicurezza e del benessere dei propri cittadini (cfr. Morgenthau [1948] 2006: 14). Proprio su questo aspetto il governo italiano fa ora un passo indietro, esponendo potenzialmente al rischio di subire impunemente violenza gli italiani e le italiane che in Egitto, per scelta o necessità, continueranno a recarsi.
Ancora, al centro di una politica realista dovrebbe esserci una difesa strenua dell’interesse nazionale, in un’ottica di competizione con i Paesi stranieri. Il 14 agosto l’Italia ha indebolito la propria posizione negoziale nei confronti dell’Egitto, spacciando per un notevole atto di collaborazione l’invio da parte della procura del Cairo dei verbali completi (e ininfluenti) di quegli stessi interrogatori a cui gli inquirenti romani non avevano potuto assistere. In tal proposito, la ripresa del comunicato diramato dagli inquirenti romani a seguito di quell’invio per giustificare il cambio di rotta dell’esecutivo appare veramente goffa, poiché politicizza un documento di natura tecnica e peraltro assai prudente. L’impressione è che Procura e governo non dialoghino apertamente tra loro, con il ministro Alfano che punta tutta la propria esposizione dinanzi alle Commissioni su una lettura assai di parte delle dichiarazioni dei magistrati e questi ultimi che si affrettano a prenderne implicitamente le distanze a mezzo stampa il giorno seguente.
Nella fretta di agire entro pochi minuti dalla notizia dell’arrivo di questo materiale, la nostra diplomazia è poi riuscita a mostrarsi ancora più subordinata al regime di Al-Sisi, normalizzando i rapporti proprio nel quarto anniversario del massacro di piazza Rabi’a al Adawiyya, quando circa mille sostenitori del governo di Mohamed Morsi vennero uccisi nell’ambito del colpo di stato guidato proprio da Al-Sisi. Come scrive Francesco Strazzari, il quesito da porsi oggi è se, davanti a un regime attraversato da convulsioni interne e così ossessionato dalla propria immagine da sfidare un alleato per non compromettere neppure un proprio agente, l’interesse nazionale di lungo periodo sia davvero promosso da una strategia che punta sul negoziato al ribasso.
Quanto allo scacchiere libico, nessuna garanzia è stata fornita sul fatto che Haftar diverrà un alleato dell’Italia, mentre le sue prese di posizione ondivaghe e difficilmente prevedibili sono cosa nota. Al momento di scrivere queste righe, il ministro Minniti ha ottenuto un semplice incontro con il generale, sull’esito del quale è ancora prematuro pronunciarsi.
Se dunque le azioni del governo italiano sono state spesso lodate e più raramente criticate come un esempio di “realismo politico” la realtà è che nemmeno da una prospettiva strettamente utilitaristica sembrano funzionare. Tuttavia, ciò non significa che la risposta più adeguata, in questa vicenda e non solo, sia di stampo realista. Weber, nell’incipit de La politica come professione, portava involontariamente alla luce uno dei limiti più grandi del realismo, circoscrivendo l’uso del termine politica «soltanto alla direzione o all’influenza esercitata sulla direzione di un gruppo politico, vale a dire – oggi – di uno Stato» ([1919] 2006: 4). Nell’esaltazione realista della ragion di Stato, i due termini che formano la locuzione divengono tautologici, tendono a collassare l’uno nell’altro: lo Stato ha sempre ragione e la ragione è di chi sta con lo Stato. Si finisce col non accorgersi, così, che riflettere sullo Stato «significa esporsi a fare proprio un pensiero di Stato, applicare allo Stato categorie di pensiero che lo Stato produce e garantisce, e dunque misconoscere la sua verità più fondamentale» (Bourdieu [1991] 2009: 89).
Solo in questa prospettiva la visione che il governo ha della Libia può acquisire un senso. I migranti sono ben al di fuori della sicurezza e dell’interesse nazionali intesi in chiave realista. Ciò non significa, lo ribadiamo con determinazione, che tale visione sia nel complesso efficace, men che meno eticamente e politicamente giustificabile – l’esatto contrario, visto che la sua logica appare perversa sia nell’accezione formale (si tiene una posizione sbagliata su un fronte per puntellarne un’altra, parimenti errata e deleteria, su uno diverso) che in quella sostanziale.
I confini dell’Unione Europea sono i più pericolosi e mortali del mondo: nell’ultimo decennio, più della metà dei decessi occorsi nel tentativo di attraversare una frontiera sono avvenuti lungo il loro profilo. Dai primi anni ’90 a oggi, il loro potenziale letale è passato dall’essere quasi nullo fino a lasciar morire migliaia di persone ogni anno, principalmente in conseguenza della chiusura dei canali per migrare legalmente dall’Africa in Europa. Il presupposto è che rendere sempre più rischiosa la traversata scoraggi a intraprenderla, ma nessuna evidenza empirica supporta questa tesi (si veda Jones 2016: cap. 1).
I rapporti bilaterali Italia-Libia si inseriscono in questo contesto: dai respingimenti in mare in direzione delle carceri del regime di Gheddafi si passa ai nuovi accordi che costringono i migranti che transitano in Libia a subire analoghi soprusi, nel generale disprezzo delle più fondamentali norme internazionali sulla richiesta di asilo.
L’ottenimento della verità per il ricercatore, della possibilità di dare al suo ricordo quella compiutezza che va di pari passo con la giustizia, sono barattati per la facoltà di realizzare un’opera di amnesia collettiva su vasta scala rispetto alle vite sconvolte o perse nel Mediterraneo piuttosto che alla periferia dell’impero. Il limes statuale viene in tal modo a coincidere con una precisa ecologia del ricordo, con una demarcazione degli orizzonti mnemonici: Giulio Regeni, uno che osava sporgersi oltre il limite al di là del quale si cessa di essere (s)oggetti memoria, ha provato a forzare una linea di delimitazione più estrema di qualunque altra tracciata su di una carta geografica. In un certo senso, il cerchio pare chiudersi con perversa coerenza: alla lunga, non si può che lasciar andare la storia di un nostro connazionale che ha trovato la morte in un luogo da cui gli unici dati intelligibili che arrivano hanno a che fare con l’economia e la geopolitica.
Cambridge: un problema di anglofobia?
Un elemento costante della narrazione sul caso Regeni è l’interpretazione fuorviata del ruolo dell’università di Cambridge e della figura stessa di «ricercatore», interpretazione che si declina in due versioni: la prima vorrebbe che Regeni fosse una spia inquadrata nei ranghi dei servizi britannici (e, in linea con un’ipotesi iniziale degli inquirenti egiziani, fosse stato ucciso dagli stessi servizi, dopo essere stato schedato dall’intelligence egiziana), la seconda prevede invece che Regeni fosse una spia inconsapevole e «i servizi britannici, non nuovi a questo tipo di manovre, abbiano usato un giovane ricercatore […] per raccogliere informazioni da “dentro” il cuore dell’opposizione a Abdel Fattah Al-Sisi» (Federica Zoja su Ispi online). Riteniamo queste speculazioni false, offensive e pericolose, perché rischiano di distrarre dalle reali responsabilità politiche e giudiziarie, in Italia e in Egitto. Tuttavia, ci sembra necessario tornare sul ruolo di Cambridge in questa vicenda, per contrastare la narrazione parziale e insinuante che ha caratterizzato trasversalmente la stampa italiana e gli interventi di molti parlamentari durante l’informativa del 4 settembre.
L’accusa di mancata collaborazione da parte dell’Università di Cambridge è infondata ed è stata montata giornalisticamente in Italia nel giugno 2016, come ha ricostruito Lorenzo Declich su Valigia Blu, che altrove riporta una risposta ufficiale dell’Università stessa, secondo la quale l’Università non aveva ricevuto «alcuna richiesta di informazioni da parte dei pubblici ministeri italiani». Secondo una nostra fonte britannica, l’Università venne in seguito contattata dalla Procura di Roma, che però non era inizialmente in grado di garantire la tutela dei testimoni: per questo, in attesa che la Procura si presentasse «con le carte in regola», gli interrogatori vennero inizialmente negati. Varie persone, dell’Università di Cambridge ed esterne, furono quindi interrogate dalle autorità britanniche per conto della procura di Roma. La tutor di Regeni (ricordata spregiativamente da Cicchitto durante l’informativa e generalmente ridotta a capro espiatorio) ha fornito informazioni a più riprese alla Procura italiana.
A seguito della morte di Regeni, nelle università inglesi si è sviluppato rispetto alla ricerca in Egitto un atteggiamento legalistico e avverso al rischio che rischia di compromettere la libertà di ricerca: ci è stato segnalato che almeno due persone non sono partite per il terreno di ricerca in seguito alla morte del ricercatore, o per scelta personale o per decisione dell’ateneo. La paura di non poter più svolgere ricerca sul campo ha coinvolto tutti i ricercatori interessati all’Egitto e ha, in parte e indirettamente, influenzato una certa reticenza a parlare pubblicamente dei pericoli della ricerca. Ma la vicenda di Regeni ha scosso profondamente l’accademia britannica, specialmente nei dipartimenti di Middle Eastern Studies: quello di un ricercatore torturato e ucciso sul campo in Medio Oriente è un evento estremamente improbabile. Se quindi in un senso è necessario affermare che la sorte di Regeni non è stata eccezionale (esistono in anni recenti numerosissimi esempi di egiziani e diversi casi di cittadini stranieri morti in circostanze come minimo sospette nel Paese, cfr. Declich 2016: 117-126), d’altro canto c’è un aspetto nel quale ha costituito un fenomeno inedito: è difficile trovare negli ultimi decenni storie di ricercatori occidentali uccisi mentre facevano il proprio lavoro in scenari mediorientali anche più rischiosi dell’Egitto odierno. Questo dato zittisce i finti sensazionalismi rilanciati in Italia su un ateneo che manderebbe i propri ricercatori a morire come se nulla fosse: un finale simile, anche in uno scenario pericoloso, era difficile ipotizzarlo pure con i protocolli di ricerca più rigorosi.
La replica di Cambridge alle illazioni italiane è stata non a caso accompagnata sul Guardian da una lettera di solidarietà firmata da decine di studiose e studiosi con esperienza nell’area provenienti da altri atenei, che pure si sarebbero trovati in una posizione ideale per puntare il dito contro l’alma mater di Regeni. Al mittente va respinta anche l’immagine del Regeni ingenuo idealista alle prese con una ricerca strampalata. La qualità del suo progetto di dottorato e la perizia con la quale si è mosso sul campo ci sono, tra le altre cose, state confermate da chi si era trovato a valutare la sua proposta di tesi presso un altro importante ateneo britannico: Regeni aveva poi optato per Cambridge per ragioni personali.
Tutto questo non implica che l’operato dell’università di Cambridge in questa vicenda sia al riparo da qualunque critica. Secondo quanto ci è stato riferito da più parti, l’università di Cambridge è stata consigliata dai suoi avvocati di tenere un atteggiamento di basso profilo, stando il più possibile fuori dal dibattito, in modo che l’immagine dell’ateneo ne venisse intaccata il meno possibile. Infatti, la mobilitazione in seguito alla scomparsa e poi alla morte di Regeni, l’appello al governo britannico e i vari incontri organizzati in memoria sono stati realizzati all’interno dell’università dagli amici e colleghi di Giulio, e mai dal livello amministrativo dell’ateneo, né Cambridge ha nominato una figura istituzionale espressamente incaricata di seguire la vicenda ai vari livelli. Come sottolineava Lucia Sorbera a Radio Anch’io, Cambridge, da università neoliberista, ha assunto «l’atteggiamento del mondo corporate, [e cioè] atteggiamenti legalistici, distanza da ogni presa di posizione».
Le implicazioni della Realpolitik del governo italiano e, per altri versi, della scelta legalistica di Cambridge per la memoria di Regeni e la possibilità che questa diventi veicolo per le storie delle altre vittime del regime di Al-Sisi sono moltissime. Ne tratteremo nel prossimo articolo.
Franco Palazzi e Michela Pusterla
da Effimera