Giustizia: ma quante “Amanda” ci sono ancora nelle carceri italiane?
Millequattrocento giorni. È quanto Amanda Knox e Raffaele Sollecito hanno atteso in carcere prima di essere assolti. Quattro anni. Un’ampia fetta sottratta alla gioventù dei due imputati, che all’epoca dei fatti avevano vent’anni o poco più. Un bel pezzo di vita spesa dietro le sbarre, mentre fuori si consumavano le schermaglie tra innocentisti e colpevolisti.
Ma lontano dagli onori della cronaca e dalle prime pagine dei giornali, dai riflettori e dai salotti televisivi, sono tantissime le vite ostaggio dei tempi di una giustizia bloccata. Di un sistema ormai al collasso sotto il peso di un arretrato pendente che sfiora i tre milioni e mezzo di procedimenti penali e sei milioni di procedimenti civili. Una paralisi che è valsa al nostro Paese da parte della Corte europea dei diritti dell’Uomo ben 1095 condanne per violazione della ragionevole durata dei processi, rispetto alle 278 inflitte alla Francia, alle 54 della Germania e alle 11 della Spagna.
E sono migliaia coloro che attendono giudizio, come i protagonisti della piéce di Samuel Beckett attendono Godot, tra le mura di quell’inferno conclamato che sono le nostre galere. Oltre 28 mila, secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia: il 42 per cento dell’intera popolazione carceraria che ad oggi conta circa 67400 detenuti. Un’anomalia tutta italiana che costituisce una delle principali cause del grave stato di sovraffollamento che affligge le carceri del nostro Paese, dove ci sarebbe posto per 46 mila persone: quindi oltre ventimila in meno rispetto a quelle attualmente presenti.
In Italia la carcerazione preventiva è consentita solo in tre casi: il pericolo di fuga, il pericolo di reiterazione del reato e il pericolo di turbamento delle indagini. Eppure l’abuso di questo strumento appare ormai evidente e sono in tanti a denunciarlo perfino tra le massime autorità istituzionali. L’ha sottolineato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano al convegno sui temi del carcere e della giustizia che si è tenuto lo scorso luglio al Senato, dove nel corso di un intervento dai toni gravi e inequivocabili ha parlato di un “crescente ricorso alla custodia cautelare, abnorme estensione in concreto della carcerazione detentiva”, che contribuisce a determinare una realtà “che ci umilia in Europa e ci allarma, per la sofferenza quotidiana – fino all’impulso a togliersi la vita – di migliaia di esseri umani chiusi in carceri che definire sovraffollate è quasi un eufemismo”.
In quella stessa occasione faceva eco al Capo dello Stato il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Ernesto Lupo, invitando i magistrati “ad un uso sempre più prudente e misurato della misura cautelare restrittiva, strumento da mantenere nell’eccezionalità, quando nessun altro strumento può essere utilizzato per soddisfare le esigenze cautelari”. Parole riprese dal ministro della Giustizia Nitto Palma nella relazione tenuta due settimane fa a Palazzo Madama, in apertura della sessione straordinaria sulla crisi del sistema penitenziario e della giustizia.
Ma non è tutto. Secondo le statistiche la metà di coloro che oggi attendono giudizio dietro le sbarre, ammassati come carne da macello, al termine dell’iter processuale sarà riconosciuta innocente. Com’è accaduto a Massimo Papini, scenografo apprezzato e stimato, che da un giorno all’altro, nell’ottobre del 2009, si è visto sbattere in galera con l’accusa di terrorismo.
A suo carico l’amicizia che da tempo lo legava a Diana Blefari Melazzi, membro delle nuove Br, e altre frequentazioni di gioventù. Frattaglie del passato sufficienti, in un clima da caccia alle streghe, a costituire per l’accusa un impianto probatorio. E a sottoporre l’uomo a un regime detentivo per certi versi più duro di quello imposto a mafiosi e camorristi. Dopo 18 mesi di carcerazione preventiva, però, Massimo Papini è stato prosciolto da tutte le accuse, anche se nulla potrà restituirgli il tempo che una giustizia miope gli ha scippato. Né a lui, né alle altre vittime di uno Stato che ogni anno sborsa milioni per risarcire le ingiuste detenzioni. Ferite più semplici da evitare, che da curare.
Valentina Ascione da Gli Altri
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