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Giustizia: “Via le Br dalle procure”… o via le “Politiche dell’Emergenza” dall’Italia?

Dalla fine degli anni 70 molti governi e parecchie forze parlamentari hanno delegato alla magistratura la patata bollente costituita da una serie di problemi come la lotta armata, la corruzione della classe politica, la violenza omicida della mafia prefinanziaria, la tossicodipendenza e l’immigrazione.
Su questa base, e non perché alcuni magistrati avrebbero formato una sorta di avanguardia rivoluzionaria, è cresciuto il peso dell’ordine della magistratura, un ordine – si badi bene – che secondo la Costituzione a non può essere un terzo potere oltre il potere esecutivo (del governo) e il potere legislativo (del parlamento).
La carta costituzionale non prevede un eccessivo peso alla magistratura ma tutte le “Politiche dell’Emergenza” hanno stravolto quel principio e reso antiegualitarie e “meritocratiche” le leggi speciali, cioè le misure legislative a favore di “pentiti” e “dissociati” – tutti rei confessi – e a danno dei loro coimputati.
Solo a partire da Tangentopoli, cioè oltre un decennio dopo la nascita della moda emergenzialistica, le principali forze politiche di centro-destra e di centro-sinistra si sono divise nettamente in relazione al ruolo della magistratura. Al tempo stesso hanno però continuato a promuovere sempre nuove “Politiche dell’Emergenza” e quest’ultime, col passar del tempo e sia pur in piccolissime dosi, sono diventate una specie di boomerang lanciato dalla classe dirigente e dominante e poi tornato indietro, con maggior forza, allorché proprio in tale classe si è dischiusa una specie di guerra tra le sue maggiori fazioni, una lotta aspra tra berlusconismo e antiberlusconismo.
I tifosi della prima fazione ritengono che certi magistrati svolgano un ruolo giacobino, brigatista o, in genere, rivoluzionario. Altri, all’opposto, difendono la magistratura nel quadro dello status quo. Proprio negli ultimi giorni, ad esempio, sono apparsi dei manifesti con il demenziale slogan “via le Br dalle procure”.
Il ministro della Giustizia Alfano, per buona fortuna, ha condannato fermamente la loro affissione in maniera molto precisa e senza neppure mezzo commento antistorico.
Il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati ha invece diffuso un comunicato per precisare “che a Milano le Br in Procura ci sono state davvero: per assassinare magistrati”.
Il procuratore voleva ricordare i magistrati Emilio Alessandrini e Guido Galli, uccisi rispettivamente il 29 gennaio 1979 e il 19 marzo 1980, ma ha dimenticato un fatto storico e giuridico di carattere fondamentale: quei due omicidi furono rivendicati e commessi da persone (poi diventate per lo più “pentite” o “dissociate”) appartenenti all’organizzazione di estrema sinistra chiamata Prima Linea.
La tesi secondo cui le Br avrebbero ucciso Alessandrini e Galli è quindi falsa quanto quella relativa al presunto carattere rivoluzionario di alcuni magistrati di Milano.
La storia, ben più che la legge, non ammette l’esistenza di tesi così opposte e così unite nell’essere prive di fondamento. Anzi, se proprio la vogliamo dire tutta, il presupposto di ogni progresso effettivo, in qualsiasi ambito della vita sociale, è la ricerca e l’acquisizione della verità e non certo la diffusione di messaggi dal contenuto falso.
Per discutere in termini costruttivi sulla causa fondamentale della malagiustizia in Italia bisogna ragionare con estrema saggezza e senza puntare il dito contro Tizio o Sempronio.
Da questo punto di vista, non sembra inutile precisare che la giustizia, cioè una giustizia degna del suo nome, non ha nulla in comune col giustizialismo e con le gogne mediatiche e nemmeno con gli attacchi calunniosi verso questo o quel magistrato. La giustizia è, assieme al rispetto della dignità altrui a partire da quella dei soggetti più svantaggiati, lo studio per la libertà dalle “Politiche dell’Emergenza” vecchie e nuove, fattori che in Italia, sovraffollandola, hanno mandato in corto circuito la macchina carceraria dello Stato.
Tre decenni di penalistiche e carcerarie “Politiche dell’Emergenza” dimostrano che spendere più denaro per le carceri significa, contemporaneamente, investire di meno nella prevenzione dei reati, nell’istruzione, nelle attività educative, nella ricerca scientifica e nel campo dell’equità sociale. Significa di fatto ridurre le spese indispensabili alla riproduzione allargata delle forze produttive sociali e quindi aumentare l’insicurezza di tale riproduzione.

Più carcere non significa più sicurezza ma esattamente il contrario. Questa è la verità.

Sandro Padula  da Ristretti Orizzonti