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Gli anni Settanta, autobiografia della nazione

Nella nostra storia gli anni Settanta restano un nervo scoperto. Per liberarli da sé stessi (e ragionarne con le generazioni che non li hanno vissuti) occorrerebbe riflettere su ciò che quegli anni raccontano dell’autobiografia della nazione, della storia novecentesca, ma anche di quella che lambisce il nostro presente.

Dopo l’operazione “Ombre rosse”, diversi intellettuali della generazione del Sessantotto hanno rimarcato che lo spartiacque, in quella lunga stagione di conflittualità che in Italia ebbe inizio nel 1967 con la contestazione studentesca e si concluse nel 1980 con la sconfitta alla Fiat, va individuato, prima che nella scelta della lotta armata da parte di gruppi minoritari e robespierriani, nella strage di piazza Fontana. A corroborare la tesi concorrono peraltro le testimonianze di molti ex-militanti: la presa di coscienza che forze occulte (ma con solidi agganci istituzionali) erano pronte a massacrare persone inermi per impedire il dilagare della contestazione segnò la “perdita dell’innocenza” per giovani (spesso giovanissimi) che fino a quel momento avevano vissuto l’impegno politico come un’esperienza gioiosa e liberatoria. Innocenti non erano però le istituzioni; del resto, tra il fatidico Sessantotto (l’anno) e la caduta del fascismo erano trascorsi appena venticinque anni.

Se nella ricostruzione di ogni evento o processo il termine a quo è oggetto di contesa (lo abbiamo visto anche nel dibattito sull’ultimo conflitto in Medioriente), tale difficoltà a maggior ragione si avverte nel caso di un periodo con cui, a mezzo secolo di distanza, non si riesce a fare i conti senza scivolare inesorabilmente nella resa dei conti. Retrodatare il punto di non ritorno al 12 dicembre 1969 è sufficiente per sfuggire alla duplice trappola della decontestualizzazione (il riduzionismo che tutto appiattisce sulla violenza) e della destoricizzazione (una narrazione dei Settanta del tutto avulsa da ciò che è accaduto prima e dopo)? In altre parole: per liberare i Settanta da sé stessi (e ragionarne con le generazioni che non li hanno vissuti) non occorre riflettere su ciò che quegli anni ci raccontano dell’autobiografia della nazione, della sua storia novecentesca, ma anche di quella che lambisce il nostro presente?

A turbare il sonno di benpensanti e benestanti che si crogiolavano nel culto del neocapitalismo come promessa di crescita irrefrenabile fu, a ridosso della strage, l’autunno caldo: il ciclo di lotte che non solo paralizzavano gli stabilimenti, ma da questi tracimavano nei quartieri, innescandovi rivolte. Un fenomeno soprattutto settentrionale, con epicentro Torino, ma pur sempre un memento mori per la borghesia italiana, traumatizzata dalla scoperta che la generazione di operai e studenti cresciuta negli anni del boom poteva spezzare il continuum della fabbrica e della società fordista (sposato anche da partiti e sindacati della sinistra storica), scardinandolo con l’atemporalità eversiva del “tutto e subito” ‒ con buona pace del compromesso tra capitale e lavoro. Il presidente del CLN Piemonte, Franco Antonicelli, nel 1971 notava amaramente: «Alle istanze di rinnovamento in senso almeno progressista che partono dal paese, che partono dai lavoratori e potrebbero salvare la nostra comunità, la classe dirigente risponde […] con la classica frusta, con la reazione». Nel 1969, così come, mutatis mutandis, tra il 1919 e il 1920 (di fronte all’insubordinazione operaia del biennio rosso), quella classe dirigente, priva di “minoranze eroiche” (o, più modestamente, di cultura democratica), e per questo incline alle soluzioni semplici come affidarsi alle maniere forti, scelse, tra le varie opzioni sul tavolo, la soluzione autoritaria, e violenta, della crisi.

Ai fascisti (quelli del Ventennio) fu concessa l’amnistia, con un provvedimento progressivamente ampliato fino a diventare un colpo di spugna – mentre molti ex-partigiani venivano processati. Più che di riconciliare gli animi, Togliatti si preoccupò di non intasare i tribunali e di non rallentare l’attività istituzionale, come sarebbe stato inevitabile epurando, e processando, migliaia e migliaia di fascisti. Le conseguenze del mancato risanamento antropologico oltre che amministrativo le stiamo pagando dal 1946. Durante e dopo gli anni Settanta, un’amnistia de facto ha coperto non solo mandanti ed esecutori delle stragi “fasciste”, mai individuati o comunque non condannati, ma anche chi, tra le forze dell’ordine, ha ucciso ragazzi di vent’anni per la loro militanza. Ad alcuni di loro è dedicato il libro del 2008 di Francesco Barilli e Sergio Sinigaglia, che fin dal titolo riprende – per contestarla – una cinica frase di Mao: la distinzione tra «morti leggere come piume, altre pesanti come montagne». Tutt’altro che impalpabile fu la morte dell’anarchico Franco Serantini, ventuno anni non ancora compiuti, pestato selvaggiamente dalla polizia durante una mobilitazione antifascista a Pisa e poi lasciato ad agonizzare in carcere per quasi due giorni, fino alla morte, la mattina del 7 maggio 1972; un calvario che ricorda quello di Stefano Cucchi, anche per la connivenza del personale sanitario. E lieve non fu neppure la fine di Fabrizio Ceruso, militante dell’area dell’Autonomia, ucciso a diciannove anni da poliziotti che, il 5 settembre 1974, a San Basilio, nella periferia romana, spararono ad altezza d’uomo nel tentativo di stroncare la rivolta dell’intero quartiere contro lo sgombero forzato delle case occupate. Per le famiglie di questi e di altri ragazzi, uccisi dallo Stato, nessuno ha cercato verità e nemmeno presentato scuse. «Neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere», scriveva Benjamin. E infatti l’asimmetria della giustizia – diritto cui evidentemente possono ambire soltanto alcune categorie di vittime – è un pezzo di quella damnatio memoriae scagliata contro tutto ciò che degli anni Settanta risulta disturbante: i “morti rossi”, appunto, ma anche le pratiche di lotta, autorganizzazione e solidarietà sperimentate all’epoca.

Una volta decontestualizzata e destoricizzata la conflittualità di quel periodo, si aprivano praterie non solo per la demonizzazione di uno specifico capitolo dell’autobiografia nazionale che si voleva liquidare come parentesi malsana, ma anche per la criminalizzazione dei movimenti successivi. E questo suscita qualche interrogativo sul termine ad quem della storia. Lo spettro della minaccia terrorista non ha mai smesso di aleggiare. Sbiadita l’ombra lunga delle Brigate rosse (che comunque all’occorrenza potevano sempre essere rispolverate), faceva il suo ingresso sulla scena mediatico-giudiziaria un logo destinato a larghissima fortuna: quello degli anarco-insurrezionalisti, variante del nemico di sempre del Potere, l’anarchismo; un prêt-àporter buono per ogni stagione, dai Lupi grigi in Val di Susa all’inizio degli anni Novanta ai black bloc del movimento altermondialista a cavallo del secolo, senza tralasciare gli squatter, e finendo, in una sorta di viaggio circolare, di nuovo in val di Susa, con l’“ala violenta” dei NoTav.

Il sillogismo assai poco aristotelico: «Giorgio Pietrostefani è stato arrestato insieme a degli ex-brigatisti; dunque era terrorista a sua volta; di conseguenza lo era anche la sua organizzazione, Lotta continua», urlato dai media in barba al fatto che né l’individuo né il gruppo sono mai stati processati (e meno che mai condannati) per terrorismo, non è solo l’ennesimo rigurgito di inesausto rancore verso quella specifica organizzazione (altra peculiarità di cui bisognerà pur discutere, prima o poi), ma anche un arnese inquisitorio che può tornare utile in altre, e più attuali, circostanze.

La logica aberrante che, in un contesto di leggi speciali, ricorso ai pentiti e altre perversioni giuridiche, ha guidato diversi procedimenti giudiziari contro intellettuali e militanti degli anni Settanta (dal processo 7 aprile a quello contro Sofri, Bompressi e Pietrostefani), ha visto ‒ come ha ben spiegato Carlo Ginzburg ‒ il contesto, che per lo storico è un problema sempre aperto, sostituire nei processi i riscontri oggettivi. Il paradigma giudiziario del “teorema”, con l’ampliamento della categoria di concorso morale, lo ritroviamo nella repressione del movimento NoTav: e se un tempo era la frequentazione di certi ambienti politici a rendere qualcuno sospetto (financo probabile assassino), ai giorni nostri è la mera appartenenza a una comunità (quella militante della Val di Susa) a costituire un’aggravante giuridica, qualora si incappi nelle maglie della “giustizia” .

Di materiale per l’autobiografia della nazione (e di come essa si intrecci alla gestione neoliberale del conflitto) ce n’è in abbondanza, a questo punto. Gli anni Settanta sono un passato che non passa perché, cinquant’anni dopo, continuiamo a inciampare nelle voragini che hanno reso quel periodo indicibile, se si esclude la conta (univoca) dei morti: la rimozione delle colpe (dal colonialismo tardo-ottocentesco alle leggi razziali); la tendenza a trattare la protesta sociale come problema di ordine pubblico; il flebile controllo democratico sulle forze dell’ordine; il ruolo anomalo della magistratura. Nell’“appuntamento misterioso tra le generazioni”, ai movimenti odierni spetta la redenzione del passato, liberandone le potenzialità trasformatrici rimaste irrealizzate, per costruire il futuro.

Monica Quirico

da VolereLaLuna