Si tratta di un caso giudiziario che sta scuotendo la Grecia, con intellettuali, giornalisti e tantissimi cittadini che sollevano enormi dubbi sull’operato della giustizia.
La storia è quella di Iriànna, una ricercatrice universitaria di ventinove anni. È stata arrestata nel 2013 con l’accusa di far parte dell’organizzazione terroristica di stampo anarchico Cospirazione delle cellule di Fuoco.
Dopo che le è stata concessa la libertà condizionata, le hanno anche permesso di viaggiare all’estero. Infine, nel giugno scorso, è stata condannata a 13 anni di carcere come appartenente alle Cellule.
Ma l’unica prova a disposizione dell’accusa, come ha rivelato il giornale greco Documento, è un campione di Dna prelevato quattro anni fa alla ragazza e che sarebbe poi combaciato con tracce rinvenute su un caricatore. Non esiste altro: né testimonianze, né alcun tipo di prova, malgrado le perquisizioni effettuate in casa e nella sua autovettura.
In tutto questo, Iriànna è entrata nell’indagine solo per il fatto di essere fidanzata con un ragazzo che aveva due amici appartenenti alle Cellule di Fuoco. E la cosa che sembra inconcepibile all’opinione pubblica greca è che il fidanzato della giovane ricercatrice sia stato assolto, mentre lei – assieme a un suo coinquilino – è stata giudicata colpevole.
Molti commentatori sottolineano che in base alla legge greca la sola prova del Dna, in assenza di altri elementi, non è sufficiente per condannare un imputato. Ed un perito di parte francese, incaricato dalla famiglia della giovane, ha comunque giudicato inattendibile la comparazione del Dna della ragazza con quello poi individuato sul caricatore.
L’organizzazione a cui, secondo la sentenza dei giudici, Iriànna farebbe parte è strettamente legata al Fai, la Federazione Anarchica Informale attiva in Italia. Tanto che nella sua più recente rivendicazione la Cospirazione delle Cellule di Fuoco scrive, in sostanza, che la sua struttura – assieme a quella della Fai – è parte della stessa organizzazione.
Le Cellule (in greco Pyrìnes tis Fotiàs), hanno rivendicato, tra gli altri, l’invio di un pacco esplosivo alla sede del ministero dell’economia tedesco e agli uffici di Parigi del Fondo Monetario Internazionale.
Secondo gli inquirenti, l’organizzazione sarebbe anche responsabile del pacco esploso nelle mani dell’ex primo ministro greco, Lukàs Papadìmos, all’interno della sua macchina, nel maggio scorso.
Ma Iriànna, che ora si trova nel carcere di Tebe, poco fuori Atene, ripete che con tutto ciò non ha assolutamente niente a che fare. «Si tratta di una storia paranoica», fa sapere e denuncia il fatto che «tutto ciò che è stato dichiarato da testimoni in buona fede, non è stato assolutamente preso in considerazione».
In queste ore, si moltiplicano gli appelli per fare luce, con nuove e più accurate indagini, su questo caso, nel timore che si tratti di un clamoroso errore giudiziario. «Si tratta di una storia creata a tavolino», scrive il quotidiano Efimerìda ton Syndaktòn.
E due giorni fa, nel centro di Atene c’è stata una manifestazione per chiedere la liberazione di Iriànna, nel corso della quale una parte di appartenenti a gruppi anarchici ha danneggiato le vetrine dei negozi della centrale via Ermù.
La Grecia, sospesa, vuole sapere la verità. E in tutto ciò non poteva mancare lo scontro politico. Esponenti dell’opposizione – anche esponenti di Alba Dorata – hanno polemizzato sul fatto che non sia stato reso noto il cognome della ragazza, lasciando intendere che sarebbe parente del viceministro della cultura, Jòrgos Vasiliàdis. Che ha smentito seccamente. Una storia quasi incredibile: moltissimi dubbi e ben poche certezze.
da il manifesto