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I guerrieri dello Stato in versione quotidiana

«Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti, / io simpatizzavo coi poliziotti!/ Perché i poliziotti sono figli di poveri». Pasolini scrisse questi versi, come noto, all’indomani degli scontri tra studenti e polizia avvenuti davanti alla facoltà romana di Architettura il primo maggio 1968. Era la prima volta nella storia repubblicana del paese che i temibili reparti “Celere” subivano una sconfitta in uno scontro su strada. Nel decennio precedente le forze dell’ordine si erano rese protagoniste di numerosi episodi di repressione nei confronti di movimenti operai e contadini. All’epoca di Valle Giulia, tutto sommato, erano ancora fresche nella memoria le cariche violente della polizia del luglio 1960 contro la manifestazione antifascista di Porta San Paolo a Roma e, di pochi giorni più tardi, l’eccidio degli operai in sciopero a Reggio Emilia.
Per questo la poesia di Pasolini era destinata a suscitare una polemica aspra nel dibattito del tempo. «Vengono da periferie, contadine o urbane che siano. / Quanto a me, conosco assai bene / il loro modo di esser stati bambini e ragazzi, / le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui, / a causa della miseria, che non dà autorità. / La madre incallita come un facchino, o tenera, / per qualche malattia, come un uccellino; / i tanti fratelli, la casupola / tra gli orti con la salvia rossa (in terreni /altrui, lottizzati); i bassi /sulle cloache; o gli appartamenti nei grandi / caseggiati popolari, ecc. ecc. ».

L’immagine pasoliniana dei “proletari in divisa” era, allora, una provocazione utile a suscitare un dibattito politico – nella fattipecie, sulle contraddizioni tra la composizione sociale “piccolo borghese” del movimento studentesco e i suoi obiettivi politici di “sinistra”. Ma, oggi, che effetto farebbe? «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, / con quella stoffa ruvida che puzza di rancio / fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, / e lo stato psicologico cui sono ridotti / (per una quarantina di mille lire al mese): / senza più sorriso, / senza più amicizia col mondo, / separati, / esclusi (in una esclusione che non ha uguali); / umiliati dalla perdita della qualità di uomini / per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)». Fatto sta che ai nostri giorni manca completamente uno sguardo antropologico nella galassia interna delle forze dell’ordine. Come è cambiata, ad esempio, la figura pubblica del poliziotto dopo gli eventi del G8 di Genova del luglio 2001? L’ubriacatura sicuritaria dell’ultimo decennio ha trasformato l’immagine dell’agente di strada in quella di uno sceriffo a difesa dei cittadini contro immigrati e criminali, una sorta di rambo tuttofare, mai abbastanza dotato dalla legge dei poteri necessari ai suoi compiti. Nell’immaginario collettivo questa proiezione ha finito col soppiantare quasi del tutto la proiezione di segno contrario che caratterizza l’ideale democratico-progressista del del poliziotto come “operatore sociale”, capace di interloquire e provvisto di una propria sensibilità umanitaria. Quel che preoccupa non è soltanto la svolta militare nella strategia con la quale le forze dell’ordine hanno gestito la piazza e i movimenti di protesta da Genova in poi. I media hanno la loro parte di responsabilità nel rappresentare i movimenti che in questi anni si sono affacciati sulla scena pubblica, come un problema di ordine pubblico. Spesso e volentieri giornali e televisione finiscono per occuparsi dei conflitti sociali esclusivamente come fonti latenti di teppismo e terrorismo. La rappresentazione dei manifestanti No Tav è, da questo punto di vista, esemplare. Tuttavia, l’immagine pasoliniana da cui siamo partiti, quella del bravo poliziotto, dell’agente di origini modeste, dell’emarginato meridionale che si ritrova a indossare la divisa a causa del triste giogo del destino, si è appannata soprattutto per gli episodi ordinari di violenza o per gli atteggiamenti ai limiti della legalità di cui, nelle cronache, si macchiano le forze di polizia. Sullo sfondo delle vicende più note, come quelle di Stefano Cucchi o di Federico Aldrovandi, esiste una galassia di comportamenti quotidiani che dimostrano quanto i soprusi, i pestaggi e il razzismo costituiscano ormai, dietro i muri delle caserme, un tacito codice subculturale (per una documentazione si veda il blog di Valerio Mattioli, un ex carabiniere che ha denunciato lo scandalo delle schedature a opera dell’Arma).

Solo nel mese scorso la Cassazione ha confermato la condanna a tre anni e sei mesi di reclusione per quattro agenti di polizia responsabili dell’omicidio colposo del giovane Federico Aldrovandi, morto nel 2005 per le lesioni e i colpi ricevuti durante un pestaggio per strada. Ma se dal punto di vista giudiziario la vicenda è approdata a un risultato e ha riscosso l’attenzione dei media – e non è cosa di poco conto in questo paese – resta invece precluso all’opinione pubblica uno sguardo su quel che accade all’interno delle forze di polizia. Qual è, per esempio, l’impatto simbolico di fatti del genere sull’immaginario dei giovani agenti? Esistono settori democratici all’interno delle forze dell’ordine che siano forti abbastanza da poter manifestare pubblicamente una critica a episodi di razzismo e di violenza? Quali sono i luoghi di formazione dei poliziotti in servizio sulle strade? Qual è la loro stratificazione sociologica e con quali codici culturali interpretano il proprio lavoro? Al riguardo non si sa nulla. Quel che accade nella galassia poliziesca è territorio off limits per l’opinione pubblica.

All’indomani della sentenza definitiva della Cassazione sul caso Aldrovandi, per esempio, hanno fatto discutere i commenti a firma di alcuni agenti di polizia apparsi sulla pagina facebook di Prima Difesa, un’associazione privata di sostegno legale alle forze dell’ordine. «Avete sentito la mamma di Aldrovandi…fermate questo scempio per dio…vuole che i 4 poliziotti vadano in carcere….io sono una bestiaaa», scrive Simona Cenni, la fondatrice dell’associazione. A catena si innescano altri commenti (in seguito rimossi). «Io non avrei mai permesso che mio figlio abusasse di alcol e droga», si legge nel post di Graziano Grattacagio. Poi interviene Sergio Bandoli, che spiega che «La “madre”, se avesse saputo fare la madre, non avrebbe allevato un “cucciolo di maiale”, ma un uomo» scrive tale Sergio Bandoli, consigliere della sezione emiliano-romagnola dell’Ana, l’Associazione nazionale alpini (da cui è stato radiato in seguito proprio a questi commenti). Interviene anche uno dei quattro poliziotti condannati, Paolo Forlani, che inveisce contro Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi. «Ma hai visto che faccia di culo aveva sul tg… una falsa e ipocrita. Spero che i soldi che ha avuto ingiustamente possa non goderseli come vorrebbe… adesso non sto più zitto dico quello che penso e scarico la rabbia di sette anni di ingiustizie…comunisti di merda». Sul risarcimento ironizza anche Simona Cenni, che interviene nuovamente: «Due milioni di euro», «Federico ha dato tanto alla famiglia dopo la morte». E chiosa: «Riposa in pace, ragazzo, sapendo che se i tuoi ti avessero aiutato, tu saresti ancora vivo».

Se la vicenda Aldrovandi ha assunto un rilievo nazionale, altri episodi restano invece confinati nelle cronache di provincia. Nel marzo scorso, tanto per fare un esempio, la squadra mobile di Bologna ha arrestato quattro poliziotti di servizio sulle volanti. L’accusa è di rapine ai danni di extracomunitari durante i controlli di routine. Una delle vittime sarebbe stata anche aggredita e sequestrata. A Milano, invece, due agenti dell’ufficio volanti sono finiti il mese scorso in manette con l’accusa di aver aggredito un uomo di 63 anni. Sono stati incastrati solo grazie al video di una telecamera di sorveglianza. È raro però che, in occasioni del genere, si sollevino dall’interno delle forze dell’ordine voci critiche sull’operato dei propri colleghi. L’atteggiamento di copertura e di giustificazione tende quasi sempre a prevalere. Persino riguardo a un caso macroscopico come gli eventi del G8 a Genova nel 2001, il sottosegretario Gianni De Gennaro – all’epoca, capo della polizia – è intervenuto nei giorni scorsi per manifestare «affetto» e «umana solidarietà» per i funzionari giudicati dalla magistratura responsabili delle violenze commesse all’interno della scuola Diaz. Eppure, la sentenza della Cassazione resa nota solo pochi giorni fa non lascia adito a dubbi. Chi è stato condannato non solo faceva parte, all’epoca, della catena di comando delle operazioni durante i giorni del G8, ma ricopre attualmente importanti incarichi ai vertici delle forze di polizia. Non quattro mele marce, ma “eccellenze” – stando alle note ufficiali del Viminale. Per la Diaz, infatti, sono stati giudicati colpevoli il prefetto Francesco Gratteri, attuale responsabile dell’anticrimine; Gilberto Caldarozzi, il numero uno del Servizio centrale operativo; Giovanni Luperi, capo del reparto analisi dell’Aisi (il servizio segreto interno) e Vincenzo Canterini, ex dirigente del reparto mobile di Roma. La Cassazione ha dichiarato la prescrizione per il reato di lesione nei confronti di 8 imputati: Basili, Tucci, Lucaroni, Zaccaria, Cenni, Ledoti, Compagnone e Stranieri. Sono i nomi degli agenti che la notte del 21 luglio fecero irruzione nella scuola Diaz. Prescrizione a parte, la condanna implica immediatamente la sospensione dal servizio e la decapitazione dei vertici del Viminale. Non è un dettaglio. E la botta si fa sentire anche sul piano simbolico, perché al di là degli effetti penali, il messaggio è che la macelleria vista a Genova nel 2001 è partita dalla testa di comando della polizia, certo non dall’iniziativa di qualche sottoposto.

Di nuovo, però, c’è da chiedersi se la svolta militare delle forze dell’ordine e la tendenza ad avvalersi di strumenti al limite della legalità costituzionale, risulti o meno – agli occhi di chi lavora nella polizia – incompatibile col proprio mestiere. Apparentemente non ci sono crepe, neppure da parte di tante sigle sindacali che esistono all’interno della galassia poliziesca. Il Siap, ad esempio, si è costituito parte civile nel processo a carico di 46 militanti No Tav rinviati a giudizio, iniziato pochi giorni fa. «Gli uomini e le donne della Polizia di Stato fanno il proprio dovere sempre ovunque e comunque», si legge in una nota ufficiale del Siap. «I poliziotti oggi, mal pagati e sulle cui spalle gravano i tagli alla sicurezza stanno facendo solo il proprio dovere, cioè garantire la libertà ed i diritti di tutti i cittadini, sia di quelli che protestano sia di quelli che hanno diritto a svolgere con tranquillità il proprio lavoro e le proprie attività quotidiane». Ecco che torna di nuovo l’immagine del poliziotto malpagato e in prima linea, a difesa dei cittadini. Mancanza di agenti, tagli all’organico, macchine ferme per mancanza di benzina o in attesa di riparazioni per le quali non ci sono soldi, turni straordinari forzati e non pagati: tutto vero, a patto però che non diventi un alibi per giustificare episodi di ordinaria violenza o per criminalizzare chiunque scenda in strada a protestare. Nelle grandi città come in quelle di provincia gli organici sono ancora fermi, pare, ai livelli calcolati nel lontano 1985. Gli effetti dei tagli si fanno sentire sulle buste paga per via del tetto agli straordinari, del taglio delle indennità di turno, dei bonus ridotti al minimo. Secondo fonti sindacali, un’ora di straordinario notturno viene pagata in media tra i 15 e i 16 euro lordi. L’indennità per un giorno in volante è calcolata intorno ai 5 euro. Il tutto, lamentano sempre i sindacati, a discapito della operatività sul territorio. Gli stipendi sono fermi a 1500 euro mensili – sui quali gravano in molti casi gli alimenti da pagare al coniuge, vista l’alta incidenza statistica delle separazioni su tutta la categoria professionale.

Ma non c’è riduzionismo sociologico che tenga, quando si tratta di spiegare l’origine delle strutture mentali o degli stereotipi culturali che nel corpo diffuso della polizia rendono “ordinario” il pestaggio di un adolescente inoffensivo o di un tossicodipendente rinchiuso in cella. A meno di non credere, semplicisticamente, che il poliziotto di modeste origini sociali e mal retribuito non sia automaticamente portato, per spirito di rivalsa, a odiare la società intera e a considerare chiunque gli si pari davanti un privilegiato. «Il cambiamento del frame o contesto a livello mondiale, nazionale e locale, sembra lasciare poco spazio a chi credeva ai miti della “sicurezza democratica” e di “polizia democratica”», scrive Salvatore Palidda, uno dei pochi sociologi ad aver studiato il fenomeno (“Polizie per il XXI secolo”). Le limitazioni della privacy, delle libertà e della democrazia, la tolleranza zero, la costruzione di sistemi di controllo sempre più sofisticati sembrano oggi del tutto condivisibili. «È normale che in nessun Consiglio comunale non si discuta mai il finanziamento dei programmi di videosorveglianza urbana poiché considerati a priori sicuramente efficaci per la prevenzione e la repressione della delinquenza di strada come del terrorismo, ignorando gli studi che dimostrano il contrario». L’ossessione sicuritaria ha reso quasi impercettibili i «comportamenti poliziesco-militari, sempre più muscolosi». Soprattutto, «i comportamenti illeciti da parte di operatori delle polizie, si sono sempre riprodotti e sono sempre stati trattati come casi episodici ed eccezionali. Ma oggi, l’impunità da parte di sempre più numerosi agenti delle polizie (pubbliche e private, locali e nazionali) che abitualmente adottano comportamenti violenti, è palese». Il fenomeno è andato di pari passo con l’inasprirsi, a livello internazionale, delle pratiche di violenze e torture ad opera di militari e contractors occidentali, dapprima in Somalia, poi in Afghanistan e in Iraq. «In altre parole – sostiene Palidda – è assai probabile che si tratti di fatti propri a un frame che li incrementa e li “banalizza”. Appare illusorio pensare che la prevenzione e la repressione di tali comportamenti possano essere risolti col semplice miglioramento della formazione o la cosiddetta assistenza psicologica. È solo nelle pratiche quotidiane che si può, forse, contrastare i comportamenti violenti, ed è evidente che questo dipende dalla composizione delle cerchie professionali e dalla volontà dei dirigenti e delle autorità politiche. Purtroppo siamo in una congiuntura storica assai sfavorevole all’effettivo rispetto dello Stato di diritto democratico e alla necessità di un risanamento democratico del settore sicurezza».

Proprio per effetto di quel “frame” – o della congiuntura sfavorevole, se si vuole – i comportamenti violenti al limite della legalità si inseriscono nel novero delle pratiche accettabile, o comunque giustificabili, nella professione del poliziotto. L’impressione è che questi atteggiamenti extralegali non possano essere circoscritti a casi individuali, ma vadano piuttosto considerati come meccanismi ordinari del Potere, come pratiche correnti dello Stato nella vita quotidiana. Né, del resto, si può pensare che la formazione del personale di polizia possa sfuggire agli effetti di una rimilitarizzazione che in questi anni ha investito le forze dell’ordine in Italia. Le scuole di polizia rimangono in gran parte affidate a quadri militari e il tipo di formazione che ne scaturisce – quand’anche generico e scarsamente specializzato – è comunque ispirato a un modello gerarchico e autoritario, soprattutto nel caso degli istruttori responsabili della formazione dei reparti mobili, quelli impiegati nella gestione della piazza e delle manifestazioni di protesta. Ancora oggi i militari sono considerati meglio provvisti di competenze rispetto ai dirigenti civili per educare, inquadrare e disciplinare gli uomini.

E dire che con la riforma del 1981, pur tra una miriade di compromessi e mediazioni, era stato fatto il tentativo di smilitarizzare e democratizzare le forze di polizia. Al poliziotto degli anni 50, militarmente inquadrato e addestrato a considerare la società come un luogo di disordine da reprimere e tenere sotto controllo, si comincia a contrapporre un poliziotto tra la gente, al servizio dei cittadini, disposto al confronto e all’interlocuzione, con maggiori conoscenze sul disagio sociale. Sul finire degli anni Ottanta il capo della polizia Vincenzo Parisi propone la limitazione dell’uso delle armi e il ricorso alla comprensione e umanità di un poliziotto connotato come “uomo di pace”. «L’ideale del poliziotto democratico di quegli anni – scrive Salvatore Palidda nel saggio Polizia postmoderna (pubblicato per Feltrinelli nel 2000) – sembra collocarsi tra la figura dell’operatore sociale e quella del mitizzato bobby inglese (una polizia, quella inglese, che però tendeva concretamente a essere sempre più caratterizza da atteggiamenti violenti e razzisti)». In realtà questi tentativi di riabilitare l’immagine sociale del poliziotto e di favorire nelle forze dell’ordine una sensibilità multiculturale si scontrano col persistere di «dinamiche chiuse», di «meccanismi di riferimento autoritari e autorelazionali», che finiranno per schiacciare di nuovo l’interlocutore sociale nel ruolo del nemico. Il movimento di democratizzazione che era partito dai funzionari civili, dai poliziotti di base e dai sindacati confederali si smarrirà, strada facendo, nel labirinto di poteri centrali e periferici della polizia italiana, tra i particolarismi e le rivalità degli apparati ministeriali.

Stessa sorte avranno i tentativi di modernizzare la formazione professionale degli agenti. Già alla fine degli anni Ottanta emerge una mancanza di programmazione che possa avviare il personale di polizia a svolgere il proprio lavoro con tutte le competenze del caso. Per molto tempo è prevalsa l’idea che fare il poliziotto sia un mestiere simile a quello dell’artigiano, che si impara nella pratica e affiancando i colleghi più anziani. «È vero – scrive sempre Palidda – che da tempo esistono dei corsi di specializzazione, di aggiornamento, di perfezionamento. Ma la specializzazione rimanda sempre all’apprendimento nella pratica, per o senza affiancamento». La scelta di frequentare un corso anziché un altro è lasciato alle preferenze individuali e alle circostanze occasionali. Spesso non c’è nulla di programmato nella formazione di un dirigente di questura. «Oggi pochi sanno che, all’ombra della famosa “questione sicurezza”, a volte vergognosamente demagogica, si è consumata la più pericolosa delle controriforme proprio in tema di sicurezza: il sostanziale ritorno alla militarizzazione della polizia, nei cui ruoli si può ormai entrare solo dopo aver prestato servizio nell’esercito volontario», scrive Rita Parisi, membro della segreteria regionale del Siulp dell’Emilia Romagna (“Lavoratori di polizia o soldati?”). Questo impedisce a uomini e donne che non abbiano la vocazione militare «di far parte della Polizia di Stato, che è una forza di polizia civile. Inoltre, li obbliga a sacrificare almeno tre o quattro anni della loro vita nell’esercito, solo perché è l’unica via per poter accedere al concorso in polizia, senza peraltro la certezza, in caso di idoneità, di rientrare nelle risicate aliquote di assunzioni annuali, contingentate come sono dai rigorosi parametri finanziari». Ma la domanda è: che tipo di formazione porteranno gli ex militari nella Polizia di Stato? «Nell’arco dei prossimi vent’anni, il 100% del suo organico (così come quello della Polizia Penitenziaria, dell’Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza), sarà composto da ex soldati; chi controllerà l’esercito avrà allora il controllo culturale totale di tutte le forze di polizia nazionali. Inutile negare che tre, quattro, cinque anni trascorsi nell’esercito devono per forza lasciare un segno nella formazione culturale, così come il basso tasso di democrazia esistente all’interno dell’esercito, non ancora sindacalizzato, porterà inevitabilmente a una contrazione degli spazi di democrazia, già ridottissimi, nel rapporto di lavoro del poliziotto. E quando la sfera dei propri diritti si riduce, si riduce anche la capacità di “vedere” i diritti degli altri».

Che la direzione sarebbe stata quella della rimilitarizzazione si inizia a capire fin dal riassetto delle forze dell’ordine intrapreso dal governo D’Alema che, nel 1997, decide di trasformare i carabinieri nella quarta forza armata, suscitando non poche rivalità tra l’Arma e la Ps. Al tempo stesso, la collaborazione tra polizia italiana e colleghi americani si fa più stretta. La politica atlantista viene confermata anche dal successivo presidente del consiglio, Giuliano Amato. «E’ durante l’amministrazione di tale governo che avvengono i fatti di Napoli, considerati da molti osservatori un vero e proprio prologo dell’evento genovese, sia per la modalità dell’intervento assai violento delle forze di polizia che non lasciano ai manifestanti alcuna via di fuga, sia per l’improvvisazione di una sorta di carcere speciale del tutto illegittimo in cui si arrivano a praticare persino atti di tortura» (Salvatore Palidda, “Appunti di ricerca sulle violenze delle polizie al G8 di Genova”). Siamo in piena epoca Bush. Ordine militare e ordine poliziesco si fondono tra loro a livello globale. «Tale processo appare esplicitamente nella tendenza alla trasformazione delle operazioni militari all’estero in operazioni di polizia internazionale che vedono sempre più insistentemente coinvolte, accanto ai classici corpi militari, anche polizie di Stato e, sovente, i cosiddetti contractors». Simmetricamente «la gestione dell’ordine pubblico tende a scivolare verso modelli operativi dai tratti para-militari in cui le forze di polizia sembrano chiamate esplicitamente a confrontarsi contro una popolazione nemica cui non è possibile riconoscere le garanzie giuridiche previste dallo Stato di diritto democratico (vedi “pattuglioni”, militarizzazione del territorio, “bonifiche”, e altri aspetti di cronaca degli anni Novanta a Milano, Torino, Bologna, Rimini, Padova e non solo in Italia, assai spesso descritti con il linguaggio della guerra). Per restare al caso italiano, si pensi – prima ancora del 2001 – alle continue bavures, ai diversi episodi di violenza nelle carceri, nei Cpt, nelle diverse strutture delle polizie pubbliche e anche nel quotidiano urbano da parte di agenti di polizie dello Stato, degli enti locali e di società private».

La gestione dell’ordine sociale a Genova 2001 non è l’avvento dell’ora x per un colpo di stato militare, il via libera per la fascistizzazione della società, come si temeva negli anni Settanta. Il dominio dei neoconservatori praticamente sull’intero pianeta non ha bisogno di golpe e di stati di polizia, dal momento che «dispone di un’asimmetria di potere e di ricchezza sempre più forte» e non ha problemi a «rinnovare il consenso», a egemonizzare e incanalare “il malcontento sia dei ceti medi e di chi si sente minacciato di finire in miseria e di perdere persino le illusioni di privilegi futuri, sia di quelli che sono approdati nell’esclusione sociale e – come in altri periodi – acclamano il potere forte che appare come taumaturgico e ha le sembianze del militare-poliziotto Rambo». La polizia è uno specchio di questa configurazione sociale del potere. «I militari e gli operatori delle polizie sono in parte membri di istituzioni che ne condizionano più o meno fortemente la concezione del mondo e i comportamenti e, in parte, membri di qualsiasi cerchia o segmento della società. All’interno delle forze militari e delle polizie c’è una componente autoritaria e razzista che in proporzione non è più grande di quella dell’intera società. Ma, nei periodi di successo delle proposte reazionarie questa componente appare come maggioritaria, riesce a influenzare e intimidire i moderati e isola e a volte riesce a marginalizzare se non costringere all’auto-espulsione dai ranghi dell’istituzione i democratici. A Genova non c’erano solo fanatici assetati di massacrare i rossi, c’erano anche dei moderati e persino qualche democratico. Ma il frame ha indotto questi ultimi a nascondersi, a non contribuire – se non rarissimamente – a svelare i dispositivi, i meccanismi, le dinamiche e gli attori della mattanza, forse anche perché non s’è mai costruita una seria collaborazione con i democratici fuori da tale istituzione. Va infine ricordato che non c’è mai stata una seria ricerca pluridisciplinare per capire non solo la riproduzione continua di comportamenti illeciti quali violenze, torture, corruzione, ecc., che di fatto sono strettamente connessi ai poteri discrezionali di cui godono le polizie. Ma non c’è stata mai neanche una seria riflessione sulle effettive possibilità di controllo democratico di tali poteri discrezionali come di quelli del potere giudiziario che implementa i procedimenti giudiziari e sceglie i Pm».

Nel decennio che segue i fatti di Genova, il ruolo della polizia si trasforma. In tutte le società che subiscono processi di deindustrializzazione e di desertificazione, il rischio e la diffidenza diventano fenomeni generalizzati. L’incertezza è un dato strutturale della società postindustriale e di fronte a essa una sola è la risposta che appare naturale: la risposta sicuritaria, la cui attuazione è ovviamente demandata alle forze di polizia. Il ruolo di quest’ultime sarebbe quindi congeniale ai tempi di crisi, a un modello di sviluppo incapace di garantire benessere sociale e obbligato al contenimento dei sentimenti di incertezza e di paura che esso stesso genera.
 
Tonino Bucci da Ombre Rosse