Menu

I morti invisibili in carcere. Cancellati perché stranieri

Nelle prigioni italiane muoiono ogni anno 150 detenuti. Un terzo per “cause oscure”. Ma l’elenco delle morti sospette è destinato a salire. Nel conteggio complessivo mancano gli “invisibili”. Gli “invisibili” sono quei detenuti stranieri il cui decesso si riassume in un certificato e in una sommaria ricostruzione dei fatti destinata alla burocrazia. A Regina Coeli, il carcere romano già al centro di inchieste per i casi Cucchi e La Penna, gli “invisibili” finiti nel nulla sono tre. Due sono morti in cella, un terzo nel carcere di Augusta (Siracusa), ma la famiglia da tempo aveva chiesto un intervento alla procura di Roma per indagare sui ripetuti maltrattamenti che il giovane avrebbe subito ben prima del suo trasferimento in Sicilia.
Marko Hadzovic, Paolo Iovanovic, Mija Diordevic. Cittadini originari della ex-Jugoslavia, abituati a sopravvivere ai margini. Pregiudicati, tossici, malviventi di mezza tacca. Tre “clienti” abituali delle prigioni italiane. Erano considerati scarti della società. Adesso sono morti e nessuno, a parte le famiglie e qualche amico, si impegna per sapere come. E perché. E se ci sono responsabilità nel comportamento di chi, in funzione del proprio ruolo, e nel rispetto delle leggi, avrebbe dovuto sorvegliarli ma anche proteggerli.
Eppure i loro casi, proprio perché opachi e facili da archiviare, sembrano gettare nuove ombre sul nostro sistema carcerario, e nel caso specifico su Regina Coeli. Sembrano dire che le vicende ben più note di Stefano Cucchi e di Simone La Penna non sono eventi eccezionali. Questo sembrano dire le storie degli “invisibili”. Storie delle quali nessuno finora ha mai parlato ma che Repubblica è in grado di ricostruire.
Marko Hadzovic, 32 anni, è morto in prigione ad Augusta (Siracusa) il primo marzo scorso. Vi era arrivato da Regina Coeli passando per Viterbo e Rossano Calabro. Un tour carcerario non usuale per un piccolo rapinatore che doveva scontare pene cumulative per nove anni. Era stato arrestato a Roma perché insieme al suo complice minorenne, armati di taglierino, aggredivano le donne sole in macchina, le picchiavano e le derubavano. Un reato odioso il cui effetto sulla generale sensazione di insicurezza era devastante.
Quando Hadzovic fu arrestato, il tam-tam carcerario diffuse la voce che tra le vittime dei suoi colpi vi fosse stata anche la congiunta di un uomo delle forze dell’ordine. Questo, all’interno dell’istituto di pena, avrebbe aggravato – e non poco – la sua situazione.
Alex H., ladro di rame, era a Regina Coeli nello stesso periodo. Racconta a Repubblica: “Ho incontrato Marko Hadzovic nel settimo braccio. Gli facevano portare il vitto. Non si doveva parlare con lui, era considerato peggio di un “infame”. Mi sembrò un po’ malconcio. Per noi stranieri è sempre più dura che per gli altri. Con qualcuno esagerano proprio. Di Marko mi dissero che era caduto dalle scale”.
La famiglia di Hadzovic, attraverso i suoi legali, si era rivolta al Garante dei detenuti e cercò di interessare la magistratura. “E’ stato legato, bastonato, gettato per terra” scriverà in una memoria. Queste, e molte altre accuse, non trovarono però uno sbocco d’indagine. Nel frattempo Hadzovic venne trasferito nelle altre carceri. Ad Augusta il primo marzo scorso è morto. La procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta per omicidio.
Paolo Jovanovic viene fermato dai carabinieri il 17 marzo del 2007 e portato a Regina Coeli. Ha 27 anni. È accusato di ricettazione, è un tossicodipendente frequentemente in crisi. Uscirà dal carcere il 22, ormai privo di vita. Nei cinque giorni di detenzione è stato curato con il metadone per astinenza da eroina. Lo psichiatra consiglia la sorveglianza in cella di isolamento con prescrizione di psicofarmaci.
La sera del 22 marzo, intorno alle 20,30, il personale carcerario va da Jovanovic per somministrargli la terapia. Secondo quanto dichiarato nei documenti ufficiali, lui non risponde e nessuno lo sveglia. Alle 22,50 il personale procede alla conta numerica dei detenuti. Jovanovic continua a non rispondere. Non può, perché sta morendo.
Si tenta un soccorso estremo con rianimazione e defibrillazione. Gli amici di Jovanovic, che sul caso hanno costruito un dossier, ritengono che l’intervento fu tardivo e inutile. “A quel punto era già morto”, dicono. Il detenuto viene trasportato in ospedale e lì risulterà essere deceduto alle 23,46. Nel dossier, che sostiene la necessità di un’indagine, sono elencate le numerose perplessità legate ai farmaci utilizzati e alle modalità di detenzione.
Mija Diordevic viene arrestato nel 2008. Ha quarant’anni. È un pluripregiudicato, un soggetto difficile che fa uso di droga. In cella viene “gestito” con il valium. Secondo la famiglia, Mija si sente male di stomaco, il valium lo ha talmente stordito che non riesce a respirare. Muore in cella soffocato dal vomito. Nessuno ne parla. È un altro “invisibile” da archiviare al più presto. La procura apre un fascicolo per gli accertamenti di rito. Il risultato a cui si approda è che non si ravvisa alcun reato. La famiglia, difesa dall’avvocato Luca Santini, dà il via a una causa civile contro il ministero della Giustizia e l’Asl. La tesi è che ci sia stata negligenza e che il cittadino-recluso Mija Diordevic sia stato abbandonato a se stesso.