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Il braccialetto elettronico ovvero l’aspirina delle carceri

Le necessità di un intervento profondo e urgente sulle carceri del nostro Paese, richiesto a tante voci dal Presidente della Repubblica in testa, non vuol dire che sull’urgenza bisogna continuare nell’improvvisazione delle scelte da produrre, come l’annuncio fatto del ministro della Giustizia Paola Severino di adottare strumenti e mezzi tecnici ovvero del braccialetto elettronico – che ci riporta a logiche e politiche che nulla hanno a che spartire con l’attuale ordinamento penitenziario e assomiglianti, purtroppo, a culture d’oltre oceano che sono a dir poco discriminanti.
La scelta del “braccialetto elettronico” è chiaramente in contrasto con l’elemento fondante del trattamento penitenziario e delle misure alternative, che è quello della messa alla prova attraverso una concessione di fiducia alla persona, per un percorso di recupero dei valori persi, assieme al senso della legalità, che sono alla base della commissione dei reati. Non è certo trascurabile sottolineare come, anche durante il Governo D’Alema, una apposita commissione di verifica sul braccialetto elettronico, costituita dal ministero dell’Interno, avesse dato parere sfavorevole all’uso con due motivazioni su tutte: la scarsa efficacia di questo mezzo, risultata dalle sperimentazioni adottate in altri Paesi, e l’oneroso aspetto economico che non era certamente cosa di poco conto. Dopo dieci anni dall’introduzione di questo aggeggio in Italia, grazie all’allora ministro Fassino, e considerati i risultati disastrosi, sia dal punto di vista dell’effetto che da quello economico, è a dir poco stucchevole constatare che neppure stavolta per via Arenula è stata scelta una persona che conosca veramente i problemi del giustizia e del carcere.
Attraverso questa “boutade” vengono, altresì, messi in soffitta due elementi essenziali su cui è costruita la pacifica convivenza nei territori italiani: il principio costituzionale della dignità della persona, in quanto non bastano delle oggettive necessità di ridurre la presenza della popolazione detenuta nelle carceri per imboccare scorciatoie che calpestano la dignità stessa dei reclusi uomini e donne, siano essi imputati o condannati, e il rispetto umano che viene derubricato e fatto passare in secondo ordine. E fa una grossa operazione “detergente”, dà un bel colpo di spugna al trattamento, con buona pace di tutti coloro che hanno creduto e si sono spesi, in questi decenni, per alimentare sempre di più strade di riconciliazione e di giustizia, sulla scia di una scelta fatta con la legge Gozzini.
E i politici, e pure i tecnici sembrano non essere da meno, si sa, generalmente “seguono la moda”: quando il clima culturale che circonda il carcere diventa più duro, essi diventano più duri, quando il clima culturale si ammorbidisce, essi si ammorbidiscono. Le loro antenne sono basilarmente dirette verso l’esterno, verso il clima culturale veicolato dai mass media. Un cambiamento nel clima culturale esterno, nell’opinione di ciò che è “la linea corretta”, crea un cambiamento parallelo nei politici.
Il carcere, a fronte di quanto affermato e nonostante le denunce e i rapporti stilati, è tuttora lì: un “gigante che sta in piedi su un terreno d’argilla”. Il terreno argilloso è la sua totale irrazionalità in termini delle proprie mete dichiarate. Rapporto dopo rapporto, studio dopo studio, tutti sono concordi nell’affermare il fallimento del sistema penitenziario (l’altissima percentuale di recidiva, il numero sempre in aumento della popolazione carcerata, le cifre economiche in esposizione, il senso effettivo di vendetta, etc.), ragioni che si possono riassumere in cinque argomenti o mete fissate: la riabilitazione, “l’uso dell’imprigionamento riabilita il violatore della legge; la deterrenza individuale, cioè la nozione che il trasgressore, che è portato in prigione, sfuggirà via dal crimine essendo portato là; la prevenzione generale, cioè gli effetti educativi; la punizione, la severità prevista dalla pena dovrebbe mostrare effetti sul comportamento criminale; la giustizia bilanciata, ovvero il neoclassico responso del crimine attraverso la prigione, sebbene sia stato ammesso che il carcere non può prevenire nulla, si presume di poter bilanciare del tutto l’atto riprovevole equilibrando i pesi della giustizia.
La prigione è un sistema profondamente irrazionale in termini dei propri scopi stabiliti. L’inefficacia preventiva del carcere costituisce un problema di comunicazione. La punizione è in fondo un modo attraverso il quale lo Stato cerca di comunicare un messaggio, specialmente a gruppi particolarmente vulnerabili della società. Come metodo è estremamente primitivo. Ciò che è sorprendente non è l’effetto minimo ma piuttosto la persistente fiducia politica (cfr. miopia) in un tale primitivo metodo di comunicazione.
Il problema, comunque, è che questa consapevolezza – cioè tutte le argomentazioni che fanno parte del bagaglio di informazioni vere e reali, per una larga estensione di popolazione sono un segreto e nel nostro caso lo sono anche per il recente ministro della Giustizia. Se la gente veramente conoscesse come poveramente è la prigione, così come altri settori del sistema del controllo criminale, se sapessero come il carcere crea solamente una società più pericolosa producendo persone più pericolose, un clima per smantellare il carcere necessariamente si alimenterebbe, poiché la gente, in contrasto con la prigione, è razionale in questo problema.
Le vittime non ricevono nulla dal presente sistema e potrebbero ricevere tanto dal cambiamento di direzione. Una idea fondamentale e principale sarebbe cambiare il sistema nel senso di: piuttosto che aumentare la pena dei trasgressori con la gravità dell’offesa, che è alla base del presente sistema, aumentare il supporto alla vittima con la gravità dell’offesa. Cioè non una punizione a scalare per i trasgressori ma un supporto scalare per le vittime.
E’ sicuramente una modifica drastica e razionale dal punto di vista della vittima ma significativa se supportata da azioni fondamentali quali: vita più decente nei quartieri (famoso discorso della qualità della vita), programmi di lavoro, programmi scolastici, programmi di investimento, ma non basati sulla forza, e finalmente un cambiamento della nostra politica sulle droghe.
Un cambiamento delle politiche sulle droghe allo stesso tempo colpirebbe al cuore le organizzazioni criminali della droga, dipendenti come sono dal mercato, e ridurrebbero la presenza nelle prigioni.
Il progressivo smantellamento delle prigioni ci farebbe risparmiare una notevole somma di denaro, milioni e milioni che potrebbero essere spesi per le vittime e i trasgressori. La possibilità di rinchiudere alcuni individui comunque rimarrebbe, ma il trattamento loro rivolto dovrebbe essere assai differente da quello di oggi.
Per questi e mille altri motivi il braccialetto elettronico ha la stessa valenza di un’aspirina per curare una malattia terminale, e il carcere è veramente un gigantesco ospedale che pretende di evocare sicurezza, ma rassicura solo la nostra incapacità di perdono e comprensione dell’errore umano e questo calpestando la vita di donne e uomini per una giustizia che ancora una volta è solo vendetta.
Livio Ferrarigarante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo