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Il calcio che ritroveremo

Con la chiusura degli stadi a causa dalla pandemia, il mondo del calcio è stato attraversato da cambiamenti che hanno trasformato in profondità i suoi riti e la sua economia. Dopo questo lungo anno, bisognerà capire quali conseguenze avranno quando si ritornerà alla normalità

Sarà come ritrovare un vecchio amico che per un anno intero è sparito e non si è preoccupato di chiamarti neanche mezza volta per sapere come stavi. Il calcio ha dimostrato che può fare a meno di noi. Lo show va avanti senza tifosi in carne e ossa sugli spalti.

In alcuni casi ne ha evocato la presenza ricorrendo a patetici trucchi digitali e registrazioni dei cori, sparate da potenti altoparlanti per esorcizzare il silenzio graffiato dalle urla isteriche dei calciatori e degli allenatori.

Ma sebbene quel vuoto sugli spalti sia incolmabile per i romantici come per i razionalisti, in sostanza il calcio in quest’annata ha tirato dritto per la sua strada. Ci sono state squadre capaci addirittura di compiere miracoli sportivi in assenza del proprio pubblico. S’è trattato di eccezioni. Non solo lo spettacolo, ma anche l’esito delle partite ha risentito dell’assenza di tifo.

Un gruppo di ricercatori dell’università di Trieste ha pubblicato su “European Journal of Sport Science” i risultati di uno studio sul calcio a porte chiuse dalla primavera 2020 a causa della Covid-19. L’indagine ha preso in esame 841 partite di serie A e B dei quattro campionati europei più blasonati. Il confronto col triennio precedente ha confermato il generale livellamento dei valori nelle stagioni senza il “12° uomo”.

Prima della pandemia, giocando in casa si conquistava il 60 per cento dei propri punti totali, contro il 40 racimolato in trasferta. Con le porte chiuse questa differenza si è ridotta della metà. Quindi in situazione di normalità, a porte aperte, giocare tra le mura amiche accresce il punteggio del cinque per cento.

In Inghilterra, negli stadi desertificati dal coronavirus, le squadre hanno ottenuto il 52 per cento delle vittorie in trasferta e il 48 in casa.

La pandemia ha anche reso possibile misurare quanto la presenza della folla sulle gradinate contribuisca a rendere attrattivo l’evento pure in TV. È significativo che dopo la ripartenza dei campionati, in un turno stagionale del luglio 2020, due milioni e mezzo di telespettatori in meno abbiano seguito le partite da casa, rispetto ad un fine settimana del gennaio precedente, quando ancora la crisi pandemica non era esplosa.

Le conseguenze della pandemia intaccano lo spettacolo calcistico in tutta la sua ritualità sociale, ristrutturano l’economia del debito che ne consente l’allestimento. È noto che le entrate delle società di calcio derivano soprattutto da diritti televisivi, plusvalenze e compravendita dei calciatori, sponsor e merchandising. Soltanto una piccola voce dei bilanci è coperta dalla vendita dei biglietti d’ingresso.

Ammonteranno solo a 300 milioni di euro le perdite causate dalla chiusura dei botteghini fisici e virtuali per la serie A nella stagione in corso. In totale, i venti club hanno registrato nel 2019-20 un calo di oltre un miliardo dei ricavi operativi.

Non che prima la situazione fosse incoraggiante: nei dieci anni che hanno preceduto la Covid, il debito dei club di serie A è lievitato da 2,6 a 4,6 miliardi. E francamente appare improbabile che per ossigenare un sistema al collasso sarà sufficiente il budget derivante dal matrimonio tra Tim e Dazn per accaparrarsi i diritti Tv nel triennio 2021-24.

La «dimensione puramente metafisica del calcio finanziario», oggi ripropone con maggior vigore la domanda posta da Luca Pisapia: «Cosa ci fa un Hedge Fund alla guida del Milan?». La risposta era in parte già custodita nelle parole di Eduardo Galeano, un quarto di secolo fa. Dunque la mercificazione del football non è un fatto nuovo, in questa fase si sta solo riproponendo in forme inedite.

Del fenomeno ci accorgemmo proprio nell’epoca in cui lo scrittore uruguaiano perveniva alle stesse conclusioni. La mercificazione investì anche il mondo del tifo organizzato, lo fagocitò, estrasse plusvalore dalla produzione sociale spontanea di spettacolo che ogni domenica realizzavamo negli stadi. Ci comprarono, spesso senza neanche pagarci, e ci rivenderono sul mercato della pubblicità. Gli ultrà divennero griffe e spot, mentre il ministero degli Interni li valorizzava con altri strumenti, li brandiva ed usava come folk devil per giustificare la militarizzazione di stadi, città e stazioni.

Rimane ora da capire quali saranno gli spazi assegnati al tifo organizzato, quando il calcio tornerà alla normalità.

Se i vaccini si riveleranno efficaci solo contro la malattia ma non ci renderanno immuni dall’infezione, se cioè pur in forma attenuata continueremo ad ammalarci e ad essere portatori del contagio, è ovvio che le norme del distanziamento resteranno in vigore anche nel 2022 e chissà per quanto tempo ancora, soprattutto in occasione degli eventi di massa.

È plausibile aspettarsi che gli stadi saranno riaperti agli spettatori, forse già dall’autunno 2021, ma in una prima fase transitoria potrebbe essere consentito l’accesso ad un pubblico statico e silenziato, più o meno come quello del tennis. Senza voler ipotizzare complotti e regie occulte che esistono solo nella mente delle persone psicolabili e dei negazionisti, è ovvio che nel calcio come in altri settori della vita sociale gli apparati di controllo approfitteranno delle norme di prevenzione del contagio per irrobustire la legislazione d’emergenza già vigente negli stadi e assestare il colpo di grazia, in senso disciplinare e securitario, alle residue libertà del tifo organizzato, già soffocate negli ultimi due decenni.

Il 3 marzo del 2020 Mimmo ed io assistemmo all’ultima partita del Cosenza in casa prima del lockdown, dalla tribuna coperta del “Marulla”, in compagnia di una vecchietta e qualche altro anziano tifoso. Perdemmo 1- 2 col Cittadella Padova. A fine partita, uscendo dallo stadio, fummo assaliti da un diluvio. Entrando nella zona delle palazzine, forse intontiti dalla pioggia, vagammo per mezz’ora alla ricerca dell’auto di Mimmo. Non riuscivamo a ritrovarla, finché poi saltò fuori, parcheggiata dove non s’era mai mossa.

Nei luoghi a noi più familiari avevamo perso l’orientamento.

Tutta quell’acqua, il nostro senso di smarrimento, ci fecero presagire che qualcosa stesse finendo. Pensavamo che il cielo ci stesse annunciando un’inevitabile retrocessione in serie C. Invece, con la ripresa dei campionati, il Cosenza in estate si sarebbe salvato. Ma il calcio si fermò pochi giorni dopo la sera del 3 marzo 2020. Il presagio allora ci stava tutto: si era conclusa un’epoca.

Ci vorrà ancora del tempo, sarà un processo graduale, comunque il football tornerà a porte aperte e rivedremo il tifo sugli spalti. Però è davvero finita l’era in cui il tifoso in carne ed ossa era insieme consumatore e merce indispensabile. Il calcio onanista può godere da solo.

Claudio Dionesalvi

da DINAMOPress