A Sherwood Open Minds, appuntamento mensile di approfondimento politico che si tiene nella sede di Sherwood a Padova, il 24 novembre si è parlato di tortura, in seguito alla terza condanna della dalla Corte EDU allo Stato italiano per i fatti di Genova 2001. Perché nel nostro Paese non è ancora configurato il reato di tortura? Ha ancora senso parlare di uno Stato “garante” di diritti e libertà soggettivi? Queste le domande che sono state poste ad Italo Di Sabato (Osservatorio sulla Repressione) e Giuseppe Romano (avvocato del Foro di Treviso).
Di recente il tema della tortura è tornato al centro del dibattito pubblico, dopo la terza condanna subita dallo stato italiano rispetto ai fatti di Genova 2001, avvenuta per opera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo lo scorso 25 ottobre. Si tratta di una condanna ancora più esplicita delle precedenti perché, oltre a indicare in maniera inequivocabile che a Bolzaneto siano state commesse torture, ha richiamato l’attenzione sul fatto che l’Italia non abbia svolto adeguatamente le indagini per portare alla luce i fatti.
Per chi fa movimento le ragioni per approfondire questo tema sono principalmente due. La prima attiene alle motivazioni per cui in Italia non ci sia una legislazione sul reato di tortura all’altezza di quello che accade nelle piazze e nelle varie espressioni della repressione nei confronti dei movimenti. L’altra questione è legata alle trasformazioni che investono in questa fase storica lo Stato di diritto, proprio a partire da quei dispositivi giuridici e politici che permettono l’autoconservazione del potere e dei poteri, che qui assume la forma di impunità e abusi.
Quali possono essere gli effetti politici, oltre che giuridici, di questa sentenza da parte della Corte EDU?
Italo Di Sabato: Parlare di tortura è importantissimo e attuale non solo perché ci sono state le sentenze ultime della CEDU; non solo perché qualche settimana fa c’è stato un pronunciamento del comitato ONU contro la tortura, che rafforza ulteriormente quello che è stato deliberato dal CEDU, dicendo esplicitamente che la legge approvata dal parlamento a luglio non è applicabile per le sevizie compiute alla Diaz e a Bolzaneto, garantendo ulteriore impunità alle forze dell’ordine. Io credo che il fenomeno della tortura in Italia sia più basso e subdolo di quanto possa apparire.
A partire dalle torture compiute ai danni dei militanti politici degli anni 70, il nostro Paese ha spesso volutamente girato la testa di fronte a fatti conclamati, spesso comprovati dal sistema giudiziario stesso, sebbene dopo molti anni. Basta evidenziare il caso di Enrico Triaca, per il quale il Tribunale di Perugia ha riconosciuto le torture subite all’interno di istituzioni totali, per mano del gruppo facente capo al professor De Tormentis.
Le torture ai militanti degli anni 70 hanno “normalizzato” il fenomeno, aprendo la strada a quanto accaduto nel 2001 alla caserma Raniero a Napoli, nel mese di marzo, e soprattutto a Genova. A questo bisogna aggiungere i tanti “casi singoli”, da Stefano Cucchi a Federico Aldrovandi, da Di Mastrogiovanni a Uva, solo per citarne alcuni. Tutto questo ci indica che la tortura è quell’esercizio di dominio assoluto che si articola dalle violenze non fisiche, quindi di carattere psicologico, a quelle materiali, producendo talvolta anche la morte. Si tratta di una pratica di dominio che la maggioranza dell’opinione pubblica molte volte ignora perché considera i casi citati come degli unicum, dei fatti distanti anni luce dal quotidiano corrente. Spesso si pensa: «sì è successo, ma è impensabile che accada a me».
Il grande lavoro svolto dai movimenti sul tema della repressione, specie dopo Genova 2001, è stato quello non solo di andare alla costante ricerca di verità e giustizia su vicende che molti hanno vissuto da protagonisti. L’obiettivo che ci poniamo, ad esempio con l’Osservatorio Repressione, è quello di mettere in evidenza il fatto che torture e abusi siano una prassi comune del potere.
Molte volte si sostiene che la tortura serva per far parlare, ma io credo che invece serva per generare menzogne e questo lo sapeva già Beccaria, che ne ha ampiamente parlato nei suoi scritti. A distanza di qualche centinaia di anni questo viene confermato anche dal rapporto sulla tortura della CIA, nel quale si dichiara esplicitamente che le torture commesse a Guantanamo servano ad estorcere dichiarazioni falsate. Tornando all’Italia, si pensi al “caso Gulotta” un ragazzo di Alcamo siciliano che è stato condannato all’ergastolo per la strage alla caserma dei Carabinieri, avvenuta nel gennaio 1976, e scagionato dopo aver fatto 22 anni di carcere solo grazie alla crisi di coscienza di un carabiniere, presente al momento delle torture fatte ai danni del ragazzo per indurlo a confessare un reato mai compiuto.
È proprio la struttura del 41 bis, il carcere duro, a mettere chi è recluso nella condizione di “dover parlare”, facendo diventare la delazione uno dei punti fondamentali dell’impalcatura legislativa contemporanea. Se si banalizza la tortura, come viene sistematicamente fatto da molti organi di stampa e dalle forze politiche, vengono messi in discussione e in pericolo i principi basilari della democrazia formale. L’introduzione nell’ordinamento italiano del reato di tortura, attraverso la legge n. 110 del 14 luglio 2017, è la sintesi di questa banalizzazione, perché di fatto non inserisce nel suo codice penale un reato così come contemplato dalle convenzioni internazionali sottoscritte da questo paese più di 30 anni. In primo luogo questa legge qualifica il reato come comune, slegandolo dall’operato dei pubblici ufficiali; inoltre, per essere giudicato reato, deve necessariamente avere più condotte e quindi ripetersi più volte sulla stessa persona.
Una legge inefficace è lo specchio di uno Stato che ha sempre tratto beneficio politico e istituzionale dall’impunità delle forze dell’ordine. Non è un caso che molti responsabili di tortura siano addirittura stati premiati con innalzamenti di carriera. Questo avviene perché è proprio sull’impunità che si fonda un sistema di potere atto a controllare e reprimere il cosiddetto “nemico pubblico”. Le ultime azioni legislative messe in campo al Parlamento su proposta del ministro Minniti amplificano questa visione, diventando foriere di tortura anche al di fuori del nostro Paese. Basti pensare a quello che sta succedendo in Libia, con i lager, avallati proprio dall’accordo tra l’Italia ed il Paese nord-africano, in cui vengono torturati e uccisi migliaia di migranti provenienti dall’Africa sub-sahariana.
Giuseppe Romano: Rispetto all’ultima sentenza della CEDU è bene sottolineare che il governo italiano ha cercato in ogni modo di evitarla, offrendo ad aprile una cifra economica ai ricorrenti. Alcuni l’hanno accettata, altri hanno invece ritenuto – giustamente – di arrivare fino in fondo, ossia al processo conclusosi lo scorso 25 ottobre.
Ci sono alcuni elementi, apparentemente di contorno, che hanno un’importanza notevole. Innanzitutto viene stigmatizzato il fatto che nessuno degli agenti che erano presenti a Bolzaneto abbiano avuto una sospensione durante il procedimento, evidenziando una «mancata collaborazione» dello Stato durante le indagini. Nel caso di Bolzaneto viene anche stigmatizzato il fatto che le persone torturate non potessero guardare in faccia i loro carnefici, con i relativi problemi di individuazione legati al fatto che mancassero per loro dei codici identificativi, per un enorme vulnus giuridico dell’Italia su questo tema.
Vorrei anche far notare che nella stessa data in cui la corte ha deciso la condanna per i fatti di Bolzaneto, lo Stato italiano è stato anche condannato per dei fatti gravissimi accaduti nel carcere di Asti, dove due detenuti sono stati per 19 giorni tenuti nudi, senza mangiare e senza dormire, senza che gli autori delle sevizie abbiano subito conseguenze penali. Anche in questo caso gli autori dei pestaggi individuati si sono salvati grazie alla prescrizione, al condono, ma soprattutto grazie all’assenza di una legislazione che consentisse una sanzione penale idonea per i fatti contestati.
L’ultima sentenza CEDU su Bolzaneto, al contrario di quella sul “caso-Cestaro”, si inserisce all’interno di un contesto in cui è stata introdotta una normativa, il 613 bis, che è la nuova norma introdotta dal codice penale. Il fatto che questa non sarebbe applicabile ai fatti di cui discutiamo lo conferma una lettera scritta a giugno dal Pubblico Ministero che si occupò delle indagini sul G8, sottoscritta anche da alcuni giudici del tribunale di Genova, agli alti organi dello Stato. Nella missiva si sottolineava come il testo in corso di approvazione (quello approvato a luglio sul “reato di tortura” ndr) fosse assolutamente inidoneo rispetto agli scopi per cui era stato promosso. Ancora più importante è una raccomandata inviata dal commissario per diritti umani del Consiglio d’Europa, che stigmatizzava una serie di problematiche relative a questo progetto di legge.
Senza entrare in tecnicismi va detta innanzitutto una cosa: come ha affermato giustamente Italo il senso della tortura è soprattutto quello di «far parlare». Leggendo il nuovo articolo si vede come, proprio sotto questo profilo, si distanzia dall’articolo 1 della Convenzione contro la tortura, che fu approvata nel 1984 New York e che bastava riprendere e inserire nel nostro ordinamento. Nel citato articolo si ha tortura «quando si infliggono a una persona dolore e sofferenza acute al fine di ottenere informazioni o di punirla per un atto». Nella nostra normativa la dizione è completamente diversa: «chiunque, con violenza o minaccia, agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico ad una persona privata della libertà è punibile con il reato di tortura».
Vengono introdotti almeno tre elementi volutamente contraddittori rispetto all’articolo della Convenzione. Innanzitutto il termine “crudeltà” introduce un lessico difficile da interpretare giuridicamente, perché attiene ad uno stato d’animo che nel nostro ordinamento è al massimo una circostanza aggravante. Inoltre il “verificabile trauma psichico” prevede perizie che allungano decisamente iter e tempi processuali. Infine la “privazione della libertà” esclude tutta una serie di reati commessi dalle forze dell’ordine in piazza, durante controlli di polizia o nei confronti di persone che non sono in stato di fermo o arresto. Ad esempio per i fatti della Diaz questa legge non potrebbe essere applicata.
Il testo approvato toglie quindi una serie di reati che invece sono “propri” e sono puniti in altri Paesi rispetto alla condotta dell’agente. Per questo sarebbe stato importante configurare sulla persona in divisa questo tipo di reati, che invece vengono valutati come circostanze aggravanti al comma 2. Tecnicamente questo apre un altro problema: siccome spesso gli esponenti delle forze dell’ordine godono delle attenuanti generiche, per un meccanismo del nostro codice la possibile preparazione di queste attenuanti farebbe cadere l’aggravante al secondo comma e tornare alla condotta che è punita al primo comma.
L’altro elemento su cui è necessario porre attenzione riguarda “la pluralità di condotte”, che è stato uno dei motivi che ha spinto Manconi a togliere il sostegno alla legge di cui era primo firmatario. Questa viene posta in essere come meccanismo necessario per arrivare alla punizione. C’è un’ipotesi in cui anche una sola condotta potrebbe sembrare idonea, nel caso in cui comporti un «trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Nella convenzione di New York la citazione testuale è ma non umano e «trattamento inumano o degradante»: si tratta di una piccola differenza nell’uso della congiunzione, che è invece assolutamente di rilievo. Prendiamo l’ipotesi di una persona che venga messa nuda a quattro zampe durante l’interrogatorio: si tratta di un atto “unico” – quindi l’autore non potrebbe essere incriminato per la prima parte della norma – si potrebbe discutere se sia un atto degradante, ma qualcuno potrebbero sostenere che non sia disumano. Viceversa, la pratica degli interrogatori soffocati dall’acqua rappresenta un atto unico, potrebbe essere ritenuto un atto disumano, ma forse non degradante. Entrano dunque in gioco una serie di meccanismi diabolici che potrebbero essere utilizzati con facilità dagli avvocati difensori dei poliziotti per cercare di raggiungere sentenze assolutorie.
In definitiva vi sono una pluralità di insidie in questa norma veramente numerose. Peraltro è stato anche eliminato il meccanismo, previsto all’inizio, di raddoppio dei termini di prescrizione ordinaria. Con questo reato, che ancora non è mai stato applicato, il nostro Paese fornisce una pessima immagine di sé a livello internazionale, anche alla luce delle sentenze della Corte europea.
La questione della tortura si sta ponendo come meta-tema, perché ci parla di “abusi” in senso stretto, ma anche di dispositivi strutturali che riguardano quel potere che protegge sé stesso, modificando gli stessi assetti giuridici. Nel nostro Paese Genova 2001 ha segnato uno spartiacque non solamente nella gestione dell’ordine pubblico, ma nella definizione di uno Stato d’emergenza riproducibile e applicabile a tanti contesti. A partire da questo assunto possiamo chiederci: che cos’è in questa fase lo Stato di diritto?
Italo Di Sabato: Siamo in una fase storica in cui si disegna un passaggio epocale da uno Stato sociale minimo ad uno Stato penale massimo. Questo avvalora l’ipotesi, soprattutto nei paesi europei, che ci troviamo di fronte ad un diritto penale del nemico, in cui moltissimi soggetti non vengono giudicati in base ad un ipotetico reato compiuto, ma vengono giudicati in base all’appartenenza politica e sociale. Tutto questo rientra in quella logica dell’emergenza, di cui l’Italia è stata uno degli attori principali, dalle leggi speciali utilizzate nella cosiddetta “lotta al terrorismo” contro tutti i movimenti politici e sociali presenti nel Paese tra la fine degli anni 70 a tutti gli anni 80, alla repressione negli stadi. Quest’ultima è stata una sperimentazione che ha avuto lo scopo di allargare quelle normative a tutto il corpo sociale; pensiamo alla fenomenologia del Daspo che, partita dagli stadi, inizia ad entrare a pieno titolo nei meccanismi di controllo urbano (vedi il Daspo ai dieci clochard avvenuto a Bologna).
Tutto questo si inserisce in una logica dell’emergenzialismo che non riguarda solo la sfera repressiva, ma si applica all’intera gestione della cosa pubblica, dalle catastrofi naturali alla costruzione di grandi opere. Lo stato di eccezione diventa uno stato di guerra; in questo esiste un nemico, che va abbattuto con ogni mezzo: è questa l’essenza del diritto penale del nemico, dominante oggi in Italia e in Europa. La costituzionalizzazione dello stato d’emergenza, avvenuta in Francia dopo gli attentati del novembre 2015, è uno degli esempi più evidenti di come questa logica trasformi l’essenza stessa delle istituzioni.
In nome di questa emergenza sono state applicate anche riforme in settori cruciali come quello del lavoro e del Welfare, come accaduto con la Legge Fornero in Italia o la Loi Travail in Francia. Per questa ragione oggi è necessario ragionare su come scardinare l’impalcatura emergenzialista che sta attraversando tutto il continente. È questa la battaglia politica e sociale che devono porsi i movimenti nei mesi e negli anni a venire, perché dentro questo c’è lo scontro in atto.
La vicenda di Fabio Vettorel è emblematica da questo punto di vista. Si tratta di un ragazzo di 18 anni che partecipa al controvertice del G20 e che diventa non solo il capro espiatorio, ma uno strumento attraverso cui le autorità tedesche ed europee danno un messaggio ai suoi coetanei rispetto a cosa possa accadere nei confronti di chi si ribella. Il diritto tradizionale viene scavalcato da un’altra idea di diritto e con questo, oggi, noi dobbiamo fare i conti.
Quello che è accaduto nelle ultime settimane in Veneto, con le marce dei migranti partiti dal CAS di Cona, è uno di quei fatti che mette in discussione e rompe l’idea di emergenzialità, perché rimette in campo l’idea di come riconquistare diritti attraverso azioni extra-legali. È questa anche una risposta a quella cultura politica che, soprattutto negli ultimi 30 anni, ha affermato la cultura della legalità facendo la guerra verso i movimenti e verso i marginali di questa società. Noi sappiamo bene che per riconquistare diritti bisogna rompere questa legalità per costruire una legalità futura. Rompere la cultura della legalità significa oggi ridare legittimità alle lotte sociali, superando la dicotomia repressione/lotta alla repressione. Io credo che l’unico modo per battere la repressione contemporanea sia quello di rimettere in campo due parole che probabilmente sono fuori dal lessico della politica: diritto e giustizia .
Giuseppe Romano: Per comprendere al meglio l’ossatura del potere statuale nel nostro Paese, e le sue trasformazioni, è bene riflettere sulla struttura della polizia. Questa, a differenza della tradizione anglosassone, si è sempre configurata dall’alto verso il basso ed è completamente collegata con il potere esecutivo. Questo spiega come mai la nostra polizia sia regolata dal testo unico del 1931, concepito negli anni del fascismo e fascista nei suoi contenuti. Tra l’altro anche dopo la caduta del fascismo i dirigenti di polizia sono rimasti al loro posto, sostenendo addirittura di non aver appoggiato pienamente il regime.
In Italia gli organi di controllo o di decentramento del potere previsti dalla Costituzione sono entrati in atto con molto ritardo rispetto all’avvio della vita repubblicana: la Corte Costituzionale nel ’56, le Regioni addirittura nel ’70. Questo ha consentito all’apparato repressivo dello Stato, soprattutto quello poliziesco, di strutturarsi e definirsi in continuità con il precedente regime ed in funzione del solo potere esecutivo, rendendo impossibile qualsiasi processo di democratizzazione. Non è un caso che i Ministri degli Interni dal 1945 in avanti siano stati sempre democristiani, ossia appartenenti al partito più grande e potente del Paese, fino Maroni nel 1994.
Questo apparato repressivo e poliziesco ha sempre avuto come primo nemico il “movimento antagonista”, cioè chi si è mosso sempre con una prospettiva che non è solo quella rivendicativa, ma assume un piano più complesso e globale. Questo meccanismo, anche non si rappresenta in maniera brutale e violenta, avviene attraverso una schedatura continua di tutti i militanti, un servizio informativo continuo e capillare.
Per questa ragione parlare di Stato di diritto, anche in termini tradizionali, almeno nel nostro Paese è molto difficile, perché vi è sempre stata una tendenza verso lo Stato di polizia. Da piazza Statuto nel ’60, passando per Genova 2001 e finendo all’ultimo episodio accaduto a Roma il 25 marzo, quando un centinaio di manifestanti sono stati letteralmente sequestrati dalla polizia e trattenuti per diverse ore, in maniera del tutto illegale, ci troviamo ripetutamente di fronte a contesti non episodici in cui è lo stesso potere statuale ad agire al di fuori del diritto.