Menu

Il giornalista che si accontenta si rende complice

Da un’intervista a un leader non si ricava nulla: è quasi impossibile fargli domande e, se riesci, risponde tenendo un discorso; i discorsi gli sono utili ad arrampicarsi al potere.

di Marco Sommariva

In un articolo di Gianni Santamaria pubblicato il 1° dicembre scorso su Avvenire, https://www.avvenire.it/agora/pagine/il-senso-di-hitler-per-la-stampa-estera leggo dell’uscita in Germania di un saggio scritto da Lutz Hachmeister – giornalista, documentarista e storico dei mass media – che indaga sui rapporti di Hitler coi giornalisti, in particolare anglofoni.

Pare che i giornalisti stranieri, soprattutto statunitensi, lo cercassero perché ambivano a uno scoop; Hitler, invece, cercava loro perché utili alla sua strategia: non gli bastava riempire le piazze, aveva bisogno dei media. Ed è grazie a questo ambiguo e doppio legame fra le parti che ci sono giunte oltre cento interviste, di cui più della metà rilasciate alla stampa angloamericana – rare le interviste coi media tedeschi.

Dell’interessante articolo di Gianni Santamaria mi sono rimaste impresse tre cose.

La prima è che Karl von Wiegand – rappresentante del gruppo Hearst, colosso mediatico statunitense – dopo aver avuto un faccia a faccia privato di un quarto d’ora con il leader nazista, alla fine aveva concluso così coi colleghi: “Quest’uomo è un caso disperato. Diventa sempre peggio ogni volta che lo vedo. Non sono riuscito a ricavarne niente. Quando gli fai una domanda, lui tiene un discorso. Questo incontro è stato solo una perdita di tempo”.

La seconda è che, nel 1936, il giornalista americano John Gunther – pur giudicando Hitler un rozzo urlatore, inferiore come oratore rispetto a Goebbels – aveva sottolineato come il leader nazionalsocialista avesse raggiunto la vetta del potere assoluto arrampicandosi ai discorsi.

La terza è che fare domande a Hitler era praticamente impossibile ma che a molti giornalisti, questo, non importava: spesso si accontentavano di farlo parlare a ruota libera.

Riassumendo i tre punti esposti sopra, mi è venuto in mente il tempo che stiamo vivendo: da un’intervista a un leader non si ricava nulla; è quasi impossibile fargli domande e, se riesci, risponde tenendo un discorso; i discorsi gli sono utili per raggiungere e conservare il potere.

Mi domando se il giornalista che si accontenta, che si fa usare, si renda conto che, in qualche misura, si rende complice.

E allora penso a chi non si accontentava, a chi non pensava neppure lontanamente a farsi usare, ad Anna Politkovskaja per esempio che, riguardo il suo lavoro di giornalista, disse: “Sono una reietta. È questo il risultato principale del mio lavoro di giornalista in Cecenia e della pubblicazione all’estero dei miei libri sulla vita in Russia e sul conflitto ceceno. A Mosca non mi invitano alle conferenze stampa né alle iniziative in cui è prevista la partecipazione di funzionari del Cremlino: gli organizzatori non vogliono essere sospettati di avere delle simpatie per me. Eppure tutti i più alti funzionari accettano d’incontrarmi quando sto scrivendo un articolo o sto conducendo un’indagine. Ma lo fanno di nascosto, in posti dove non possono essere visti, all’aria aperta, in piazza o in luoghi segreti che raggiungiamo seguendo strade diverse, quasi fossimo delle spie. Sono felici di parlare con me. Mi danno informazioni, chiedono il mio parere e mi raccontano cosa succede ai vertici. Ma sempre in segreto”.

Il 7 ottobre 2006 Anna Politkovskaja, all’epoca quarantottenne, fu ritrovata nell’androne della sua casa moscovita uccisa da quattro colpi d’arma da fuoco. Pochi giorni dopo avrebbe pubblicato sul giornale Novaja Gazeta i risultati di una sconvolgente inchiesta sulle torture perpetrate in Cecenia dai russi – l’ultimo reportage di una carriera giornalistica all’insegna del coraggio e della verità. Subito, amici e persone qualunque che stimavano il suo lavoro andarono sul luogo del delitto per renderle omaggio; quel giorno, anche l’intervento della polizia fu tempestivo: le entrarono in casa e sequestrarono il computer.

Tornando al fondatore del nazionalsocialismo, l’articolo di Avvenire riporta anche che le interviste pubblicate dai giornali dell’epoca venivano sempre riviste da Hitler prima di andare in stampa: conosceva bene il potere della parola.

In Sulla lingua del tempo presente, scrive Gustavo Zagrebelsky: “[…] la lingua dei regimi totalitari, così come la lingua dei gruppi chiusi e settari d’ogni genere (politici e religiosi) [appartiene alla] categoria delle parole in libertà vigilata. Questi regimi si dotano, per intrinseca necessità, di «ministeri delle parole». Li denominano variamente, ministeri dell’informazione, della propaganda, della cultura popolare, e simili. Hanno in comune il compito di diffondere ideologie, non necessariamente negando frontalmente la realtà – sarebbe in tal caso troppo facile lo smascheramento – ma rivestendola di appropriate parole dette e ridette secondo il motto di Joseph Goebbels: «Ripetete una cosa qualsiasi cento, mille, un milione di volte e diventerà verità»”. Sarà forse per questo che negli Stati Uniti ci sono giornalisti che lavorano per importanti testate ed emittenti televisive che hanno avuto un passato in unità militari e di intelligence di Israele e che, a giudicare dal loro lavoro, sembrano ancora fare gli interessi del loro Paese nella guerra di informazione e propaganda? https://www.lindipendente.online/2024/11/29/le-spie-israeliane-che-lavorano-come-giornalisti-nelle-maggiori-testate-usa/

Torniamo a Goebbels e alla sua frase per cui una menzogna ripetuta in continuazione diviene verità; in un articolo pubblicato su Il Foglio Quotidiano https://www.ilfoglio.it/magazine/2024/09/23/news/la-politica-di-cani-e-gatti-dal-terzo-reich-alle-presidenziali-americane-6966637/, Siegmund Ginzberg ci fa notare qualcosa di più: “Una menzogna non vale per quanto sia vera o verosimile, vale per l’emozione che suscita. La differenza tra allora e oggi è che quella dei giorni nostri non è suffragata da un minimo di prove. Mentre i propagandisti nazisti facevano finta di documentarsi. A sostegno delle sue orrende invenzioni Streicher [leader nazista e direttore del giornale violentemente antisemita Der Stürmer] aveva messo in piedi un centro di documentazione e una biblioteca fornitissima, con tutte le prove “inconfutabili” di antiche leggende medievali e ritagli di giornali, specie cronache giudiziarie. L’ebreo violentatore, l’ebreo ladro e imbroglione, l’ebreo assatanato l’ebreo assassino, e così via. Vi lavoravano decine di “specialisti”, tanto di professoroni e grandi giornalisti”.

Tenete conto che le informazioni false son costate care al nazismo stesso, a leggere quanto scrive in Terra, Terra!, Sándor Márai: “Il grande errore del nazismo è stato quello di aver sottovalutato – dando credito a informazioni false – la potenza russo-sovietica. Ma è possibile che poi sia stato fatto lo stesso errore e quella medesima potenza – sempre sulla base di informazioni false – sia stata sopravvalutata”.

“La macchina del falso […] ha già azzannato il giornalismo con la moltiplicazione di fake news o con la sovrapposizione della propaganda ai fatti: nei teatri di guerra i giornalisti non riescono a entrare o vengono uccisi se vedono quello che non si deve sapere”, così scrive Annamaria Guadagni nel suo interessante articolo pubblicato sabato 28 dicembre su Il Foglio Quotidiano; e quanto riportato dalla giornalista non è certo una novità dei nostri giorni, dato che Graham Greene nel romanzo del 1955 L’americano tranquillo, ambientato durante la guerra d’Indocina che venne combattuta tra il 1946 e il 1954, scrive: “[…] dopo quattro giorni, con l’aiuto dei paracadutisti, il nemico era stato respinto a ottocento metri dalla città. Era stata una disfatta. A nessun giornalista era consentito l’accesso, né si potevano mandare telegrammi, perché i giornali dovevano riportare solo vittorie”.

Riprendendo Ginzberg, una menzogna vale per l’emozione che suscita: è importante non dimenticarlo mai, sia se si ascolta un politico sia se sta parlando un collega, un parente… ricordarlo sempre.

Immagino stiate pensando io stia parlando di cose che non ci riguardano granché visto che, al momento, non abbiamo a che fare con un Hitler o un Goebbels.

Ma se torniamo a ragionare sull’importanza della parola, potremmo scoprire che anche il “politicamente corretto” col suo carico d’ipocrisia e perbenismo è, a dir poco, degradante, umiliante, persino pericoloso se ha la capacità, come ritengo sia, di addormentare le coscienze, la resistenza; un modo come un altro per conformare la comunicazione: di tutti, dai mezzi d’informazione al verbo della tua vicina di casa. Son d’accordo con Zagrebelsky quando, in opposizione alla semplificazione dei problemi comuni, alla rassicurazione a ogni costo, all’occultamento delle difficoltà, alle promesse dell’impossibile, invita a ritrovare “l’orgoglio di comunicare tra noi parlando diversamente, non conformisticamente, seriamente, dignitosamente, argomentatamente, razionalmente, adeguatamente ai fatti”.

Credo che parlare tra noi diversamente potrebbe risultare, alla lunga, un’ottima palestra per la nostra mente, quella mente che tende a chiedere solo le realtà che la nutrono quotidianamente ma che non possono bastare, anzi, non devono bastare, perché il non domandare altro potrebbe indurre i giornalisti a impigrirsi; leggete cosa scriveva Joseph Conrad nel romanzo Il caso: “Può mai essere affare di un giornalista capire qualcosa? Mi sa di no. Lo condurrebbe troppo lontano dalle realtà che sono il pane quotidiano della mente del pubblico”. E adesso leggete cosa scriveva Aldous Huxley in La volgarità in letteratura, facendo riferimento al novantanove per cento dei lettori di giornali: “[…] l’ignoranza non costituisce un deterrente per il giornalista esperto, il quale sa per esperienza che un’ora trascorsa in una biblioteca ben fornita basterà a renderlo più edotto nella materia in questione del novantanove per cento dei suoi lettori”.

Non dovremmo farci mai trovare in condizioni di tale inferiorità perché i giornalisti hanno un potere e, come tale, non va sottovalutato; scrive Jean Echenoz in Correre: “Emil [Zatopek] ha voglia di tornare in Brasile come aveva promesso, ma l’anno scorso, quando era appena tornato da lì, un […] giornalista dello Svobodné Slovo gli ha chiesto una breve intervista. […] Compagno, gli ha detto il giornalista, ai nostri lettori interesserebbero moltissimo le tue impressioni sul Brasile. Senti, ha cominciato Emil, vorrei essere estremamente chiaro. il Brasile è un posto splendido. Te lo ripeto, eh, proprio fantastico. Da ogni punto di vista. Ci tornerò con piacere. Mi sono spiegato bene? Risultato: comunicato del portavoce del ministero brasiliano degli Esteri. A Emil viene rifiutato il posto per il Brasile. Non si tratta, precisa il portavoce, di una decisione politica, ma di un caso particolare. Zatopek, infatti, al suo ritorno in Cecoslovacchia, ha rilasciato dichiarazioni irriguardose sul Brasile”.

Sempre riguardo al potere dei giornalisti, scrive nel romanzo Lo straniero, Albert Camus: “[…] il giornalista si è rivolto a me sorridendo e mi ha detto che sperava che tutto sarebbe andato bene. L’ho ringraziato e lui ha aggiunto: Sa, abbiamo un po’ montato la sua faccenda. L’estate è la stagione morta per i giornali. E non c’è che la sua storia e quella del parricida che valgano qualcosa”.

Siamo circondati, assediati da falsi contenuti; a fine settembre dell’anno scorso leggevo questo su L’Indipendente: “L’ennesimo caso di commistione tra pubblicità e informazione ha scatenato una nuova protesta all’interno del quotidiano La Repubblica, portando il Comitato di redazione a mobilitarsi. […] Il Comitato di redazione ha rivelato che il 25 settembre è uscito insieme al quotidiano un inserto di oltre 100 pagine con una serie di articoli apparentemente “giornalistici” ma, in realtà, pubblicati dietro compenso delle aziende. Una nuova dimostrazione di come, su molti giornali mainstream, la linea di confine tra informazione e pubblicità sia evaporata”. https://www.lindipendente.online/2024/09/26/falsi-contenuti-giornalistici-pagati-dalle-aziende-la-repubblica-di-nuovo-nella-bufera/

Ovviamente, mai fare di ogni erba un fascio: è indiscutibile ci sia ancora chi svolge seriamente questo mestiere; diversamente, non si spiegherebbero le minacce che tanti giornalisti italiani continuano a ricevere. Nell’ottobre del 2023, ancora L’Indipendente scriveva che in Italia “il numero delle minacce rivolte ai giornalisti è in crescita, mentre diminuisce progressivamente quello delle loro denunce. Lo rivela l’ultimo rapporto dell’Osservatorio Ossigeno, che nei primi sei mesi del 2023 ha rilevato 83 episodi di intimidazione e minaccia a danno di 234 giornalisti. In media 1,3 vittime al giorno. Le vicende legate a intimidazioni e minacce a danno di operatori dell’informazione, nello Stivale, sono più numerose di ogni altro Paese europeo. Lo scenario appare ancora più inquietante se si considera che solo il 22% delle vittime avrebbe denunciato alle autorità le violenze e gli abusi subiti. Un dato estremamente eloquente che dimostra come in Italia molti giornalisti abbiano meno fiducia di prima nella giustizia e nella capacità riparatoria dello Stato”.

https://www.lindipendente.online/2023/10/03/in-italia-aumentano-le-minacce-ai-giornalisti-ma-diminuiscono-le-denunce/

Bisognerebbe sempre fare attenzione a ciò che si scrive; conosco persone che recensiscono opere letterarie e film senza mai scrivere un rigo prima d’aver letto o guardato davvero e con attenzione l’opera, meditando giudizi come dovessero deliberare in un processo d’importanza vitale, mentre altri si armano di penna e, col pretesto della critica, liquidano opere di una vita con frasette disinvolte e, quando ti capita di leggere quel libro o vedere quel film, ti rendi conto che già la loro sinossi errata può esser stata scritta soltanto da chi l’opera se l’è fatta raccontare o ne ha letto da altri e pure distrattamente.

A proposito di recensioni, mi fa piacere riportare cosa scrisse Virginia Woolf in Una stanza tutta per sé quando, fra le altre cose, ricorda anche quanto è difficile giudicare: “[…] le recensioni letterarie, non sono forse una perenne dimostrazione della difficoltà di giudicare? «Questo grande libro», «questo libro privo di valore»: lo stesso libro viene definito in tutti e due i modi. La lode e il biasimo non significano niente. No, per quanto possa essere piacevole il passatempo di misurare, esso è sempre la più futile delle occupazioni e sottomettersi ai decreti dei misuratori è il più servile degli atteggiamenti. Finché scrivete ciò che desiderate scrivere, questa è la sola cosa che conta; e se questo conta per secoli interi o solo per poche ore, nessuno può dirlo”.

Spiace continuare a prendere atto di come chi scrive e chi legge non si renda conto quanto la Parola possa modificare quanto avviene nel mondo; dico questo, nonostante Sándor Márai abbia scritto: “Era ora che tornassi in quelle stanze e che, come in un qualsiasi altro giorno, ci passassi qualche ora a scrivere – a scrivere un articolo o un romanzo nella falsa convinzione che tutto ciò avesse un senso, come se la Parola, bella o brutta che fosse, potesse modificare un po’ quel che avviene nel mondo”.

A mio modesto parere, la parola scritta, letta, proferita, cantata, recitata, ascoltata, può modificare quello che avviene nel mondo, anzi, già lo sta facendo, e pure da parecchi anni; diversamente, non si spiegherebbe tutto il tempo che normalmente si è speso e ancora si spende per decidere qual è la narrazione migliore da scegliere fra le tante perché passi “quel” messaggio che si vuole esser certi raggiunga “quel” preciso obiettivo.

Ma forse Márai non era così persuaso di questa “falsa convinzione” o, molto più probabilmente, sono io a non aver capito qualcosa della sua affermazione, visto che un centinaio di pagine dopo pare temere l’allontanamento dalla Parola, parla di uomini negli anni Cinquanta e Sessanta per i quali i libri erano diventati “un mezzo sussidiario, come le vitamine, la radio, l’automobile”, da cui pochi aspettavano una Risposta, rassegnati a un cerimoniale pagano “la civiltà della lettera era stata sostituita dalla civiltà dell’immagine (come più tardi venne saggiamente diagnosticato il fenomeno: l’immagine non dev’essere capita, ma guardata e basta, a bocca aperta, senza sforzo intellettuale)”.

Vanni Codeluppi autore de La morte della cultura di massa edito da Carocci, scrive che “vivendo in simbiosi con lo smartphone, non solo non sappiamo orientarci senza Google Map, ma ci siamo abituati al flusso continuo delle informazioni […] a un tempo di sopravvivenza delle immagini di sette secondi”, come riportato ancora da Annamaria Guadagni su Il Foglio Quotidiano.

In assenza di sforzo intellettuale, potremmo non accorgerci che ci stanno lavando il cervello con problemi annessi e connessi, specie in termini di libertà persa, sottratta: “La libertà non è uno stato permanente, ma una continua tensione verso qualcosa, e il lavaggio del cervello annienta proprio questo nella coscienza: chi viene «trattato» un giorno si accorge di non voler più essere libero” – sempre Sándor Márai in Terra, Terra!

Comunque, temo che il lavaggio del cervello sia iniziato da tempo, e a dare forza a questo mio timore è quanto riportato nell’articolo già citato de Il Foglio: “Se guardiamo l’Italia, secondo dati appena forniti dall’Ocse, un terzo degli adulti non capisce le informazioni che legge, è in condizioni di analfabetismo culturale”.

Non fatevi sciacquare il cervello dalle immagini, continuate a leggere perché, così come scrivere, “leggere è protestare contro le ingiustizie della vita. Chi cerca nella finzione ciò che non ha, dice, senza la necessità di dirlo, e senza neppure saperlo, che la vita così com’è non è sufficiente a soddisfare la nostra sete di assoluto, fondamento della condizione umana, e che dovrebbe essere migliore”. Dove per finzione s’intende anche le storie inventate – “inventiamo storie per poter vivere in qualche modo le molte vite che vorremmo avere quando invece ne abbiamo a disposizione una sola” – e la letteratura “grazie alla letteratura, alle coscienze che ha forgiato, ai desideri e agli aneliti che ha ispirato, alla disillusione del reale con cui torniamo dal viaggio in una bella fantasia, la civiltà è ora meno crudele di quando i cantastorie incominciarono a umanizzare la vita con le loro favole. Saremmo peggiori di quello che siamo senza i buoni libri che abbiamo letto, più conformisti, meno inquieti e ribelli, e lo spirito critico, motore del progresso, non credo esisterebbe”. Gli ultimi passaggi virgolettati sono estratti da Elogio della lettura e della finzione di Mario Vargas Llosa.

Spero la mia Parola non sia stata troppo consona, quieta, rassegnata, arrendevole, insomma, che non v’abbia deluso.

www.marcosommariva.com

Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000 

News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp