Luoghi comuni e oblio attorno agli istituti penitenziari italiani nell’ignavia della politica
di Federico Giusti
Con l’arrivo di Ferragosto arriveranno le solite visite di parlamentari nelle carceri italiani, eppure sono proprio le aule parlamentari l’ambito nel quale si dovrebbe parlare della condizioni di vita dei detenuti.
Il carcere è un luogo dimenticato, se ne ricordano i parlamentari di destra invocando organici maggiori per la Polizia penitenziaria ma è del tutto assente una inchiesta che permetterebbe di comprendere un mondo avvolto nell’oblio ed evocato solo per imporre logiche securitarie e repressive.
In carcere si entra sani e si esce malati, i centri medici sono pochi e al collasso, investire in operatori culturali appare ormai uno spreco di denaro pubblico.
La soluzione prospettata è sempre la stessa: accrescere il numero della Polizia penitenziaria e costruire nuovi istituti di pena per non affrontare il sovraffollamento che scaturisce dalla carenza di misure alternative alla pena, di luoghi ove potrebbe avvenire un pieno recupero del detenuto.
Manca insomma una risposta complessiva di natura sociale, è assente la volontà di rivedere i codici penali che condannano alla detenzione uomini e donne per reati che potrebbero essere espiati con misure alternative.
Il carcere è da tempo una discarica sociale dove la dignità umana viene calpestata. Sarebbe utile riflettere sui vantaggi derivanti dalla istituzione di percorsi di avviamento lavorativo, di mera inclusione sociale per offrire la opportunità di acquisire un titolo di studio, sarebbero scelte importanti ma inconciliabili con quella logica securitaria e repressiva che la fa da padrona.
Il supporto psicologico non è banale in contesti nei quali ogni anno decine di detenuti si suicidano, nei primi sette mesi del 2024 i suicidi sono più numerosi di quelli del 2023, frutto della perdita di ogni speranza e fiducia in un domani al di fuori dalle sbarre. Se poi guardiamo alla liberazione anticipata per molti detenuti ci imbattiamo nel muro eretto dal Governo per il quale scelte del genere sarebbero solo una sorta di resa dello Stato, quello Stato implacabile con le classi subalterne ma assai conciliante con quelle benestanti.
Uno Stato che vorrebbe eliminare il reato di tortura e rendere impuniti i reati commessi dalle forze dell’ordine, si disattendono sistematicamente i principi guida della Carta dimenticata da chi, fino a prova contraria, dovrebbe metterli in pratica. E così il diritto penale si trasforma in stato penale, le condizioni “inumane e degradanti” non appaiono mai sufficientemente severe e si cercano nuove leggi per rendere ancora più efferata la gestione delle carceri affermando una logica solo punitiva e non di rieducazione, di vendetta dello Stato.
La condizione di vita degli ex detenuti non è certamente migliore, nel corso degli anni sono quasi scomparse cooperative pensate un tempo per la inclusione lavorativa e sociale di quanti hanno espiato le loro pene. Questa è la condizione penitenziaria nel 2024, non c’è da esserne fieri, ci sarebbero motivi sufficienti per indignarsi ma anche la rabbia e la indignazione possono diventare motivo di ulteriore repressione, basti pensare alle misure adottate contro le proteste dentro il carcere e alle azioni di solidarietà fuori dalle sbarre, iniziative considerate alla stregua di rivolta contro uno stato implacabile verso gli ultimi ma sempre più passivo davanti ai reati fiscali, ai disastri ambientali e alle morti sul lavoro
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