La guerra inter-bianca d’Ucraina è solo l’inizio: benvenuti nella geopolitica del caos
di Franco Berardi “Bifo”
“Questo non è il tempo del Tuo giudizio, scandisce Francesco rivolgendosi a Dio dalla Piazza vuota, la notte di Pasqua del 2020, ma del nostro giudizio: il tempo di scegliere che cosa conta e che cosa passa, il tempo di separare ciò che è necessario da ciò che non lo è”
(Marco Politi, Francesco, la peste, la rinascita)
Il nemico interno
La logica della guerra è l’orrore. Nella semiotica della guerra, tutte le notizie di orrore, anche quelle false, sono efficaci perché producono odio e paura. Perché scandalizzarsi se gli Usa sganciano bombe al fosforo su Falluja o i russi uccidono prigionieri inermi a Bucha? Stiamo parlando di crimini di guerra? Ma la guerra è un crimine in sé, una catena automatica di crimini.
La domanda cui occorre rispondere è: chi è responsabile di questa guerra? Chi l’ha voluta, provocata, armata e scatenata?
Il nazi-stalinismo russo guidato da Putin, non c’è dubbio. Ma tutti vedono che qualcun altro l’ha fortemente voluta e attivamente la sta alimentando.
Se nel mese di febbraio l’Unione Europea avesse convocato una conferenza internazionale per discutere le richieste di Lavrov, la macchina della guerra si poteva fermare. Invece si è preferito soffiare sul fuoco. Un delegato ucraino che partecipa ai colloqui con i russi ha dichiarato candidamente: “Sono sorpreso. Perché la Nato ha dichiarato tanto presto che in caso di guerra non sarebbe intervenuta? Così ha invitato la Russia all’escalation”.
Chi partecipa a una guerra non è in grado di pensare. Per ragioni neuro-cognitive piuttosto facili da capire, chi fa la guerra non ha tempo di pensare, deve salvare la sua vita, deve uccidere chi potrebbe attentare alla sua vita. E deve per prima cosa far tacere il nemico interno.
Il nemico interno è la sensibilità di essere umani: la coscienza, se vogliamo. Ne parla Freud in un testo sulle nevrosi di guerra scritto durante la Prima guerra mondiale: il nemico interno si manifesta come dubbio, esitazione, paura, diserzione. Il nemico interno è la volontà di pensare. Ecco oggi l’intero sistema mediatico e politico intento a sconfiggere il nemico interno: Federico Rampini accusa il direttore de L’Avvenire di lavorare per Putin, le parole del papa sono censurate dall’intero sistema mediatico italiano, Francesco Merlo invita al linciaggio degli indecisi (leggi anche Quello che Merlo non può capire. Lettera aperta, ndr).
Siamo già molto avanti nel processo di militarizzazione del discorso pubblico e il ceto politico e giornalistico italiano porta disciplinatamente il cervello all’ammasso nazionalista. In quell’ammasso diventa difficile distinguere le voci di giornalisti dell’estrema destra e quelle di intellettuali di formazione trotzkista o lottacontinuista.
Il sistema mediatico ha subito una mutazione impressionante negli ultimi due anni. Durante la pandemia è stato costantemente mobilitato con finalità sanitarie. Ventiquattro al giorno ci venivano mostrate ambulanze, grembiuli verdi, apparecchi di ventilazione, e da un certo momento iniezioni, siringhe, e ancora iniezioni e ancora siringhe, in un flusso ininterrotto ansiogeno e intimidente. Qualcuno previde che quell’assedio mediatico sanitario era il preambolo di una mutazione definitiva dei media. Ora per ventiquattro ore al giorno vediamo spettacoli terrificanti, corpi mutilati, la fuga disperata e dolorosa di madri e bambini. Per ventiquattro ore al giorno assistiamo all’affollarsi vociante di commentatori, di opinionisti, di generali che chiamano alla guerra, e mettono a tacere il nemico interno.
Cosa avrei fatto se vivessi a Kiev
Anch’io mi sono chiesto: cosa farei se vivessi a Kiev? Per giorni questa domanda mi ha tormentato. Mio padre ha partecipato alla Resistenza italiana contro il fascismo, mi sono detto; dunque non sarebbe mio dovere sostenere la resistenza del popolo ucraino? Non dovrei combattere a favore dei valori che l’aggressione russa mette in pericolo?
Poi ho ricordato che mio padre non era un antifascista quando dovette scappare dalla caserma di Padova dove era soldato semplice. Non si era mai posto il problema, il fascismo era per lui un’ovvia condizione naturale, come per la grande maggioranza degli italiani. Quando l’esercito italiano si squagliò dopo l’8 settembre lui scappò come tanti altri, andò a trovare la famiglia a Bologna ma i suoi genitori erano scappati dalla città perché temevano i bombardamenti. Allora, con suo fratello, decise di fuggire verso le Marche, chissà perché. Trovarono un gruppo di altri sfollati, incontrarono dei partigiani e si intrupparono. Per difendere la sua vita divenne partigiano. Parlando con i partigiani gli parve che i più preparati e generosi fossero comunisti, e capì che i comunisti avevano una spiegazione per il passato e un progetto per il futuro: così divenne comunista.
Se io vivessi a Kiev e ci fosse qualcuno che mi spiega che debbo difendere il Mondo Libero, la Democrazia, i Valori dell’Occidente, tutte parole con l’iniziale maiuscola, diserterei. Ma forse deciderei di entrare nella resistenza per difendere la mia casa, i miei fratelli: tutte parole con la lettera minuscola.
Perciò non so rispondere quando mi chiedo se parteciperei alla resistenza ucraina, se sparerei sui soldati russi oppure no. Quello che so per certo è che le ragioni maiuscole per cui il Mondo Libero chiama gli ucraini alla resistenza sono false. E falsa è la retorica degli europei che incita a continuare lo spettacolo.
Il nazismo è un’evoluzione dell’umiliazione
Un’orgia di orrore si scatena in Europa, come da un paio di decenni si è scatenata in Siria, Afghanistan, Iraq, Libia, Yemen. Ma quelli erano luoghi lontani, abitati da genti diverse da noi; anzi, per essere precisi: abitati da gente che odiamo, e consideriamo inferiori.
Vladimir Putin, che non ha mai nascosto la sua vocazione imperiale e i suoi metodi stalinisti quando lo corteggiavano i nostri presidenti, imprenditori e giornalisti, ha scatenato questa guerra perché la maggioranza del popolo russo ha reagito all’umiliazione dell’ultimo trentennio nello stesso modo in cui i tedeschi reagirono all’umiliazione di Versailles negli anni Trenta del secolo scorso.
Il nazismo è un’evoluzione dell’umiliazione, è una promessa di riscatto aggressivo contro l’umiliazione. E chi voglia conoscere la profondità dell’umiliazione subita dai russi a partire dagli anni Novanta, deve leggere Tempo di seconda mano di Svetlana Aleksievic.
Ma, come dice il compassato Xi, “una mano da sola non fa rumore”. La mano di Putin non basta. L’altra mano è quella di Joe Biden che ha spinto alla guerra russi e ucraini per poter incassare quattro risultati: distruggere politicamente l’Unione Europea, impedire la realizzazione del North Stream 2, risalire nei sondaggi elettorali nel suo paese, e sconfiggere il nemico russo.
I primi due obiettivi sono stati raggiunti perfettamente. Il progetto North Stream 2 è stato cancellato dal governo tedesco, così ora l’Europa deve rifornirsi sul mercato americano, dove il combustibile costa un po’ di più, e in ogni caso non basterà neppure lontanamente a sostituire quello russo.
Dal punto di vista politico, l’Unione Europea è stata sottoposta al comando della Nato, e costretta a identificarsi come nazione, che è esattamente il contrario di quello che i fondatori dell’Unione avevano pensato.
L’Unione Europea nacque per uscire dall’ossessione nazionalista del Novecento, ma nei primi mesi del 2022 la Nato l’ha trasformata in una nazione. E ora l’Europa-Nazione va al battesimo di fuoco della guerra come ogni nazione che si rispetti.
Quanto agli altri due risultati la cosa è più complicata, perché il 55% degli americani disapprova la politica estera di Biden (non era mai successo, neppure ai tempi del Vietnam, neppure ai tempi dell’Iraq, che una percentuale maggioritaria disapprovasse il Presidente in guerra). Le preferenze elettorali, secondo i sondaggi, non sorridono: Biden è risalito dal 36% fino al 44%, ma questo non basta. È probabile che i democratici perderanno le elezioni di novembre, e più avanti un repubblicano (vedremo quale, ma non escluderei Donald Trump) vincerà le presidenziali.
Quanto all’ultimo risultato che Biden voleva ottenere, la sconfitta della Russia, le cose sono ancor più complicate. Nonostante la resistenza accanita del popolo ucraino, la Russia sta ottenendo quel che si proponeva, cioè la distruzione dell’apparato militare ucraino, e il controllo sui territori sud-orientali e la Crimea. Che i soldati russi muoiano a migliaia e anche i generali russi cadano nei combattimenti, a Putin importa meno che zero. Il sacrificio è l’anima della mistica nazionalista russa, come sa chi ha letto Tolstoj o Isaak Babel e Aleksandr Blok.
In seguito è prevedibile che il conflitto diventi endemico sul territorio ucraino e che la Russia entri in una fase di catastrofe economica e sociale.
Ma gli strateghi dell’intransigenza anti-putiniana hanno riflettuto su cosa vuol dire una guerra di successione interna alla gerarchia militare di un paese che possiede 6000 testate nucleari?
La vita è un paradiso
Secondo alcuni sondaggi l’83% dei russi sostiene la guerra. Io non ci credo, penso che i sondaggi che vengono da Mosca non sono attendibili. Ma è probabile che l’aggressione goda di un consenso maggioritario.
Una minoranza crescente dei giovani russi si sta inoltre orientando sulle idee degli ultra-nazionalisti per i quali la guerra in Ucraina è un’autopurificazione dell’anima russa che prelude a più vaste avventure. “Grazie a te, Ucraina, che ci hai insegnato a essere nuovamente russi!”, dichiara con toni lirici un idiota di nome Ivan Okhlobystin.
C’è una lunga tradizione martirologica che discende dallo spiritualismo ortodosso, che passa per Dostojevski, e attraversa il XX secolo, ripresentandosi in Vasily Grossman e nello stesso Aleksandr Solženicyn. Questo vittimismo mistico si riassume nelle parole del fratello morente del monaco Zosima ne I fratelli Karamazov: “Mamma, non piangere, la vita è un paradiso, e tutti siamo in paradiso, ma non vogliamo riconoscerlo, ché se avessimo volontà di riconoscerlo domani stesso si instaurerebbe in tutto il mondo il paradiso.”
Il paradiso di cui parla Dostojevski è il dolore, il freddo, la miseria, la tortura, la croce insomma. Il nazionalismo russo-ortodosso ama il dolore come prova di vicinanza a Cristo sulla croce, e ama il popolo tanto quanto odia le donne e gli uomini concreti: “Quanto sono ripugnanti gli uomini”, dice Raskol’nikov prima di compiere il delitto insensato che proprio per la sua insensatezza deve essere compiuto.
L’ignoranza americana si trova di fronte al delirio russo e non è un incontro facile. Gli americani (parlo naturalmente del ceto che detiene il potere politico e mediatico in quel paese) non sono mai stati in grado di intendere la differenza culturale, se non come arretratezza e inferiorità da sfruttare, sottomettere, o correggere a suon di ceffoni. Ma la differenza culturale russa permane, irriducibile nella sua commistione di universalismo salvifico e culto della sofferenza subita e inflitta.
Follia russa e ignoranza americana hanno trascinato l’Europa in un precipizio nel quale ora pare difficile frenarsi.
Il paese leader del Mondo Libero
Nel paese che guida il Mondo Libero (con la maiuscola, mi raccomando) la polizia uccide regolarmente tre persone al giorno, generalmente di colore.
Nel 2020, dopo la rivolta di Black Lives Matter, quando si trattava di ottenere il voto dei neri e della sinistra, il Partito Democratico americano si impegnò a ridurre i finanziamenti per la polizia, e a investire massicciamente per migliorare le condizioni di vita sociale. Naturalmente queste promesse non sono state mantenute: niente cancellazione del debito degli studenti e così via. Ma soprattutto nessuna riduzione dei finanziamenti per la polizia. Al contrario, i finanziamenti aumentano.
Alla frontiera messicana il respingimento dei migranti ha raggiunto livelli da far rimpiangere i tempi di Donald Trump (che comunque torneranno presto).
Per una ragione o per l’altra, il consenso per Biden è sceso ai livelli più bassi. Dopo l’agosto di Kabul, Biden doveva dimostrare che pur avendo perso la guerra contro il paese più scalcagnato al mondo, l’America poteva vincerla contro la Russia. Quindi non poteva prendere in considerazione le ripetute richieste di Sergej Lavrov, che un giorno sì e l’altro pure ripeteva che la Russia voleva discutere della sua sicurezza, dei suoi confini, e quindi dell’espansione che la NATO ha perseguito negli ultimi venticinque anni.
Come spesso fanno i vecchi che si ribellano contro la propria dolorosa impotenza, Biden decise di affrontare i russi a muso duro, preparando il mezzogiorno di fuoco con Putin. Ma al momento di tirare fuori la pistola, gli ucraini sono stati lasciati soli di fronte al criminale stalino-zarista del Cremlino.
Gli sponsor euro-americani della resistenza ucraina hanno fornito le armi e il supporto mediatico. Ma a morire sono gli ucraini, che una lunga storia di oppressione ha spinto comprensibilmente verso posizioni ultra-nazionaliste.
Una guerra inter-bianca precipita in una nuova geopolitica del caos
A parte la psicopatologia della demenza senile, che gioca un ruolo essenziale nel collasso psicotico della razza bianca (russo-europea-americana), quale motivazione strategica ha questa guerra? Biden è categorico: bisogna difendere il mondo libero, cioè l’Occidente di cui ha deciso di essere nuovamente leader. Difendere l’Occidente dopo cinque secoli di colonizzazione, violenza, rapina sistematica e razzismo si è fatto difficile, e come vedremo presto la scelta russo-americana di andare alla guerra inter-bianca ha fatto precipitare il declino bianco, trasformandolo in collasso.
Quella iniziata il 24 febbraio è una guerra inter-bianca, in cui la “razza” bianca combatte contro la “razza” bianca: ma da questa guerra emergerà – anzi, già sta emergendo – una nuova geopolitica post-globale.
Quando nel 1989 il mondo libero sconfisse il campo socialista aprendo la strada alla privatizzazione del mondo e all’imposizione finanziaria del neoliberismo, gli ideologi si chiesero se questo nuovo ordine fosse irrevocabile ed eterno, e dunque se la storia era finita, con tutti i suoi conflitti le sue rivolte e le sue guerre. Francis Fukuyama si pronunciò un po’ frettolosamente in questo senso, e i liberal-democratici si pavoneggiarono: democrazia e mercato erano una coppia imbattibile.
Accoppiata alla legge ferrea del mercato, la parola democrazia rivelò presto di essere priva di significato: ogni quattro, cinque anni, i cittadini del mondo libero potevano scegliere i loro rappresentanti; ma i loro rappresentanti non potevano fare altro che applicare le leggi del mercato, la cui logica automatica non poteva essere scalfita dalla volontà politica.
Questa truffa non poteva durare, e dal 2016 in poi la democrazia è ridotta a barzelletta.
Qualcuno, un po’ meno scemo di Fukuyama, scrisse un libro per spiegare che era iniziata un’epoca di conflitto tra le civiltà. In The Clash of Civilizations and the Remaking of the World Order Samuel Huntington descrisse a grandi linee la geopolitica di questo scontro, che a suo parere avrebbe dovuto opporre l’uno contro l’altro un certo numero (sette, forse, più o meno) di blocchi di civiltà.
In qualche modo la teoria di Huntington vedeva nell’identità (etnica, religiosa, culturale) la linea di divisione tra le forze in conflitto, e anticipò le guerre americane contro paesi islamici, e lo scontro a venire tra l’Occidente e il mondo cinese. Huntington non ha sbagliato così clamorosamente come Fukuyama, ma la sua teoria banalizza un processo molto più complesso.
Il trionfo della democrazia liberale coincise con la privatizzazione generale della sfera sociale e con la precarizzazione generale dell’attività lavorativa. Il suo effetto fu il crollo violento della “civiltà sociale”, una forma di civiltà in cui gli interessi della maggioranza sono protetti da regolazioni politiche e soprattutto dall’educazione che permette di sospendere la legge naturale della giungla.
Insieme a molte altre cose, il totalitarismo capitalista distrusse la scuola pubblica. I processi educativi che nel secondo Novecento hanno motivato in senso etico e solidale la vita umana, promuovendo umanesimo ed egualitarismo, sono stati sostituiti da processi di formazione disumanizzanti: pubblicità pervasiva, martellante, ineludibile, digitalizzazione dominata da grandi aziende globali che si innervano nell’attività cognitiva degli umani associati.
E così è stato prodotto il più fantastico effetto di conformismo mai conosciuto: l’ignoranza e la superstizione pubblicitaria eliminarono ogni regola politica e ogni forma culturale che non coincidesse con l’imposizione del profitto.
La finanziarizzazione integrale dell’economia, resa possibile dalle tecnologie digitali, ha realizzato il definitivo dominio dell’astratto sul concreto.
Il capitalismo finanziario apparve come un sistema automatico senza alternative, il lavoro precario si rivelò incapace di solidarietà, e il futuro apparve definitivamente incapsulato nel presente automatizzato.
In questo senso Fukuyama aveva ragione: la storia era finita, la miseria psichica si diffondeva come un furioso fuoco di foresta, e la soggettività venne sottoposta alla dittatura psico-farmacologica di massa e alla ratificazione digitale pervasiva.
Poi venne la Catastrofe. Dopo le convulsioni su scala mondiale dell’autunno 2019 (l’estallido global di Hong Kong, Santiago, Quito, Teheran…) ecco il virus. E il virus ha creato le condizioni del collasso psichico che ora sta sconvolgendo la scena del mondo. Il caos bloccò la circolazione delle merci e la continuità del lavoro in larga parte del mondo, ma ora la minaccia bellica sconquassa la catena concreta della produzione-distribuzione-consumo e la minaccia atomica sconvolge l’immaginario depresso, come un brutto sogno dal quale ci si sveglia soltanto per scoprire che quel brutto sogno è la realtà.
La vendetta
La guerra inter-bianca fa sì che paradossalmente il mondo si divida lungo linee inedite, che non hanno molto a che vedere con l’ideologia o con la geopolitica, e hanno molto a che vedere con la storia della colonizzazione e dello sfruttamento razziale.
Quando all’Onu è stata presentata la proposta di condanna dell’invasione russa, i paesi più popolosi – India, Pakistan, Indonesia, Sud Africa – si sono astenuti insieme alla Cina. Viene a delinearsi per la prima volta uno scenario geopolitico che corre lungo la linea di frattura coloniale. Gli imperi bianchi del passato si scontrano o si coalizzano, mentre all’orizzonte emerge il mondo non bianco.
La Russia è il jolly, il matto, l’elemento interno che funziona come grimaldello per disarticolare il mondo bianco.
Un altro elemento impazzito potrebbe essere il Pakistan, stretto tra pressione americana e influenza cinese ormai predominante. Il primo ministro Imran Khan ha usato toni estremi per denunciare l’ingerenza americana, e Nawaz Sharif è riuscito a cacciarlo dal governo del paese. Ma la battaglia in Pakistan è solo cominciata e potrebbe presto degenerare.
Altri elementi impazziti si vedono intorno, non occorre neppure nominarli. Altri impazziranno.
La guerra inter-bianca d’Ucraina è il catalizzatore di un processo di frattura tra il sud e il nord del mondo di cui stiamo vedendo solo i primi movimenti.
Talvolta mi torna alla mente il presidente Mao, del quale non sono mai stato seguace, ma che diceva cose interessanti. Ricordo che negli anni Sessanta Mao teorizzò che ben presto le periferie strangoleranno le metropoli. La teoria era caldeggiata particolarmente dal suo fido scudiero Lin Piao (che poi venne eliminato mentre volava in aereo qualche anno più tardi, nel 1971), ma la visione del Grande Timoniere va intesa come alleanza strategica tra operai del mondo industrializzato e popolazione proletaria o contadina dei paesi periferizzati. Lo slogan dell’Internazionale comunista “Proletari di tutto il mondo unitevi!” venne riformulata dai maoisti in “Proletari e popoli oppressi unitevi!”. In quegli anni il colonialismo sembrava recedere, i movimenti di liberazione respingevano gli imperialisti, e nel 1975 la sconfitta degli americani in Vietnam parve il momento culminante di un processo di emancipazione.
Ma le cose non andarono proprio come avevamo sperato: il colonialismo sconfitto risorse in forme nuove come dominio economico, come estrattivismo, come colonizzazione culturale.
La formula “le campagne strangoleranno le città” si può considerare retrospettivamente come alternativa strategica all’alleanza tra operai industriali e popoli impoveriti dal colonialismo. Se va tutto bene, diceva Mao, ci sarà un’alleanza tra operai del nord e contadini del sud. Se qualcosa va male e gli operai del nord sono sconfitti, allora saranno i popoli oppressi a strangolare il capitalismo imperialista.
Spero che mi si perdoni la semplificazione caricaturale, però Mao non stava scherzando. La Lunga Marcia era stata proprio questo: le campagne avevano circondato le città fino a prendere il potere in un paese prevalentemente contadino.
I cinesi serbano la memoria dell’umiliazione che a metà del XIX secolo le potenze occidentali nascenti inflissero all’Impero Celeste, periferizzandolo per centocinquanta anni. Ed ecco che nel XXI secolo i popoli impoveriti dal colonialismo, soggetti per due secoli a sfruttamento e umiliazione, hanno cominciato a strangolare in molte maniere la metropoli bianca: migrazioni, tribalismi nazionalisti, tendenza a rompere il ruolo del dollaro come funzione monetaria dominante a livello globale.
La prospettiva strategica “buona” è fallita perché il comunismo operaio è stato sconfitto dal capitalismo globale neoliberista. Resta quindi solo la seconda, più cattiva: i nazionalismi risorgenti, la vendetta.
Per ora la vendetta si sta compiendo all’interno del mondo bianco, con il conflitto tra Russia e “mondo libero”. Ma il capitolo successivo è la riemergenza aggressiva delle potenze sottomesse nei secoli passati.
Può l’Occidente sopravvivere a questo doppio attacco che si aggiunge al persistere dell’ostilità islamista, pronta a riesplodere in Medio Oriente, ma anche nelle banlieue d’Europa?
Solo l’internazionalismo della classe operaia avrebbe potuto evitare che la resa dei conti con il colonialismo passato e presente si risolvesse in un bagno di sangue planetario: operai dell’Occidente industriale e proletari dei popoli oppressi dal colonialismo si riconoscevano nello stesso programma comunista. Ma il comunismo è stato sconfitto, e ora dobbiamo affrontare la guerra di tutti contro tutti in nome di niente.
Coda
In questo generale precipizio dobbiamo cercare di immaginare l’evoluzione del precipizio europeo. Come si agglutinerà il processo di disgregazione sociale quando l’economia sarà sconvolta e la società impoverita in maniera fino a ieri impensabile? Chi guiderà le probabili rivolte europee?
Al momento pare certo che le forze prevalenti saranno nazionalistiche e psicotiche, e torna a mente il vaticinio di Sandor Ferenczi, che in uno scritto del 1918 escludeva che una psicosi di massa fosse curabile.
Questa è la sfida di oggi: come si cura una psicosi che è uscita dai suoi limiti individuali, e ha investito la sfera della mente collettiva?
A queste domande non possiamo rispondere oggi in modo coerente, eppure queste domande ce le dobbiamo porre con urgenza, perché la soggettività sociale oscilla tra epidemia depressiva e psicosi aggressiva di massa, e solo una cura efficace per questo quadro patologico potrà evitare l’Olocausto terminale.
Trovare questa cura efficace è il compito di un pensiero all’altezza del presente.