Il migrante respinto illegalmente ha diritto a rientrare in Italia e presentare richiesta di asilo. A stabilirlo è stato il Tribunale civile di Roma accogliendo il ricorso presentato da 14 cittadini eritrei che nel 2009 vennero bloccati in mare insieme ad altri profughi dalle autorità italiane e consegnati alle motovedette libiche.
Una sentenza «storica» per la sezione italiana di Amnesty international e Asgi, l’Associazione studi giuridici sull’immigrazione, che hanno assistito il gruppo di profughi nel ricorso, destinata probabilmente ad avere ripercussioni anche su quanto accade oggi: «Ci sono molte forme di respingimento illegale», spiega infatti l’avvocato Salvatore Fachile dell’Asgi, autore del ricorso con la collega Cristina Laura Cecchini. «Se arrivo a Lampedusa e non mi viene consentito di presentare domanda di protezione internazionale mi trovo di fronte a un respingimento illegittimo. Così come accade in alcuni casi negli aeroporti».
La vicenda ha inizio dieci anni fa quando ministro dell’Interno era il leghista Roberto Maroni e l’Italia aveva firmato il Trattato di amicizia con la Libia che prevedeva anche la possibilità di rimandare nel Paese nordafricano i migranti intercettati in mare. Cosa che accade nel giugno 2009 quando due barche con a bordo in tutto una novantina di persone – la maggior parte dei quali di origine eritrea – vengono intercettate, spiega Amnesty, «dalla Marina militare». «I profughi vengono fatti salire a bordo e rassicurati che sarebbero stati portati in Italia», ricostruisce Fachile. Invece la nave inverte la rotta e punta verso la Libia fino a incontrare le motovedette del Paese nordafricano. Quando i migranti capiscono quanto sta per accadere loro, mettono in atto un inutile quanto vano tentano di ribellione. «Con la forza vengono costretti a trasferirsi sulle motovedette libiche», prosegue Fachile secondo il quale violenze subite dai migranti sono documentate da una serie di fotografie scattate dalle forze dell’ordine e che l’Asgi è riuscita ad avere.
Una volta in Libia i migranti vengono rinchiusi in una prigione dalla quale alcuni riescono ad uscire dopo aver pagato un riscatto alle milizie. Una volta liberi alcuni riescono a imbarcarsi nuovamente e a raggiungere l’Europa. Altri, invece, falliti i tentativi di attraversare il Mediterraneo, si dirigono verso Israele dove ottengono un permesso di soggiorno rinnovabile ogni tre mesi. Ed è qui che Amnesty international li incontra e li mette in contatto con i legali dell’Asgi. «Siamo andati a Tel Aviv e abbiamo raccolto le procure per avviare una causa che all’inizio ci sembrava difficile da vincere», ammette Fachile.
L’Italia è già stata condannata per i respingimenti dalla Corte europea per i diritti dell’uomo con la cosiddetta sentenza Hirsi Jamaa, ma nell’accogliere il ricorso i giudici del Tribunale civile di Roma, spiega una nota di Amnesty, «si sono riferiti a quanto previsto dall’articolo 10 comma 3 della nostra Costituzione che riconosce allo straniero il diritto di asilo e che deve ritenersi applicabile anche quando questi di trovi fuori dal territorio dello Stato per cause a esso non imputabili». La sentenza, prosegue Amnesty, «è estremamente rilevante e innovativa perché laddove riconosce la necessità di ’espandere il campo di applicazione della protezione internazionale volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente sul territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione dei principi costituzionali e della carta dei diritti dell’Unione europea». I giudici hanno quindi condannato l’Italia a consentire l’ingresso nel Paese dei 14 profughi che hanno presentato il ricorso in modo da permettere loro di fare richiesta di asilo, stabilendo inoltre un risarcimento di 15 mila euro per ciascuno di loro.
Che conseguenze può avere adesso la decisione dei giudici? Al di là degli allarmi leghisti (il senatore Roberto Calderoli ha già definito la sentenza «un precedente pericoloso e inquietante» che «rischia di essere l’apri pista per l’arrivo di decine di migliaia di immigrati») effetti si potrebbero avere sul Memorandum firmato con Tripoli dall’ex premier Paolo Gentiloni e confermato di recente dal governo giallo rosso. «In quel documento – conclude infatti Fachile – non sono previsti i respingimenti, ma l’Italia fornisce ai libici mezzi navali e apparecchiature radar, nonché li informa su dove si trovano le barche con i migranti. A noi non sembra molto diverso dal riconsegnarli alle autorità di Tripoli».
da il manifesto
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Illegali le espulsioni collettive
Il tribunale civile di Roma: Sì all’asilo e 15 mila euro il risarcimento. La marina militare riportò indietro 89 eritrei violati i diritti dell’uomo. I migranti respinti furono torturati in Libia,
«Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate» ed è per questo che lo Stato dovrà risarcire con 15mila euro a testa e l’accoglimento della richiesta d’asilo un gruppo di migranti riportati con la forza in Libia dalla Marina militare italiana.
È una sentenza pesante quella pronunciata dal Tribunale civile di Roma, che accogliendo un ricorso dell’Asgi e di Amnesty international ha assestato un nuovo colpo alle politiche migratorie dell’Italia. Sancendo, soprattutto, il comportamento «antigiuridico» del nostro Paese, che conscio delle violazioni dei diritti umani in Libia ed Eritrea ha comunque mettendo in atto un illegittimo respingimento di massa.
Il fatto risale a giugno 2009, quando 89 persone sono partite fuggite dall’Eritrea sono salpate dalle coste della Libia con l’obiettivo di raggiungere l’Italia per chiedere il riconoscimento della protezione internazionale.
Raggiunti dopo tre giorni dalla Nave Orione, della Marina italiana, dopo esser stati perquisiti e identificati, ai migranti è stato garantito l’ingresso in Italia, dove avrebbero potuto richiedere la protezione internazionale. Un bluff, visto che la Marina ha invece riconsegnato i migranti ai libici, ignorando i rischi corsi dai migranti. E lì, infatti, sono stati detenuti per mesi, in condizioni inumane e degradanti. Il tutto in nome di una trattato di “Amicizia, partenariato e collaborazione” siglato nel 2008 con la Libia.
L’Italia, scrive il giudice, ha però violato «un principio fondamentale che non ammette riserve» : quello di non respingimento, che vieta agli Stati aderenti alla Convenzione di Ginevra di rispedire un rifugiato in luoghi dove la sua vita o la sua libertà vengono minacciate. Un principio strettamente legato, oltre che al divieto di tortura, anche al diritto d’asilo. L’Italia, dunque, non solo aveva l’obbligo di informarsi sui pericoli che i migranti avrebbero corso in Libia, ma i vari rapporti diffusi al momento del respingimento, afferma il giudice Monica Velletti, ben testimoniavano le «sistematiche violazioni dei diritti dell’uomo» e in particolare «torture, arresti arbitrari, condizioni detentive disumane, lavori forzati e gravi restrizioni alla libertà di movimento, di espressione e di culto» in Libia e Eritrea. E l’accordo allora in vigore tra Italia e Libia «non poteva esonerare l’Italia dal rispettare gli obblighi assunti per la ratifica di strumenti internazionali», di rango superiore, anche perché quell’accordo non disciplinava in alcun modo operazioni di respingimento. Insomma, la condotta dell’autorità italiana è stata «antigiuridica» e oltre al danno patrimoniale, lo Stato dovrà ora anche individuare «gli strumenti più idonei» ad accogliere la domanda di accesso al territorio italiano per poter richiedere la protezione internazionale.
«La sentenza – ha commentato Gianfranco Schiavone, vicepresidente dell’Asgi – è innovativa perché stabilisce che la violazione deve trovare un suo rimedio anche consentendo a quelle persone, anche dopo molto tempo, di accedere al territorio italiano per fare quello che è stato loro impedito, imponendo il rilascio di un visto d’ingresso per motivi umanitari. Altrimenti il diritto d’asilo, costituzionalmente garantito, sarebbe vanificato».
Simona Musco
da il dubbio