Il 9 maggio 1978 veniva ucciso, dalla mafia, Peppino Impastato.
Il Potere aveva relegato Peppino in un cono d’ombra; l’ha indicato, dal 1978 fino al 2001, come un “terrorista”, favorito dal clima creato dall’uccisione di Aldo Moro.
Vi è, allora, anche un aspetto istituzionale, anzi di morfologia del potere da ricordare: per insabbiare la verità sull’uccisione di Peppino, che i suoi compagni subito gridarono e coraggiosamente pretesero, è stato organizzato da settori politici, dei carabinieri, della magistratura, un infame, colossale “depistaggio”.
Ci sono voluti 23 anni, perché sentenze e relazioni parlamentari accertassero che l’uccisione di Peppino configurava un delitto politico-mafioso di grande rilievo.
Oggi quella dell’antimafia è divenuta un’etichetta utile a tutti: istituzioni, partiti, aziende ed associazioni fanno a gara per accaparrarsi il bollino della legalità. Ma cosa è oggi la legalità? Quale processo ha permesso ad un concetto quale quello di “legalità”di divenire la bandiera di un presunto movimento di opposizione quale quello genericamente definito “movimento antimafia”? Se il termine “legalità” è palesemente connotato dall’attuale sistema di potere che identifica lo Stato-legislatore come unico beneficiario della possibilità di definizione di ciò che è legale e ciò che è non, sarà ancora lo Stato l’unico attore in grado di sconfiggere l’apparato mafioso e imporre le sue leggi?
Nel dizionario della lingua italiana per legalità si intende:
- carattere di ciò che è legale, conforme alle disposizioni di legge;
- condizione fissata dalla legge: restare nell’ambito della legalità.
La legalità è derivata e declinata nelle sue varie forme dallo Stato, perché la Legge è definita dallo Stato; ci troviamo così di fronte ad un cane che si morde la coda: la legge è lo strumento per antonomasia che il potere si da per garantirsi la riproduzione sociale, ma nonostante questa peculiarità immutabile, l’unica risposta che il “movimento antimafia” è capace di darsi come soluzione di cambiamento radicale della società meridionale e nazionale è la riproposizione estenuante del binomio magistratura-legalità, cioè del potere stesso.
Le misure puramente repressive non possono in alcun modo cancellare il fenomeno mafioso la cui necessità sociale, economica e politica garantisce il continuo riformarsi delle gerarchie criminali.
Le centinaia di arresti continuamente spacciati dalla propaganda ufficiale come segno di una supposta vittoria sono mera rappresentazione di un teatrino opprimente per la nostra terra.
Credo sia giusto sottolineare un aspetto centrale: a guardare la composizione sociale del nostro territorio, la sua storia e le sue lotte, riconosciamo anche noi che molto spesso, dietro la richiesta di legalità si nasconda un’immediata (ma superficiale) forma resistenziale (e di lotta) ad un potere che in Italia, più che altrove, ha mostrato grande arbitrarietà rispetto ai proprio ordinamenti giuridici; una voglia di cambiamento che però, rispondendo proprio alle sollecitazioni del potere stesso che si vuol combattere, adagiandosi sui suoi strumenti oppositivi e sul suo linguaggio, finisce inevitabilmente per essere più funzionale che conflittuale ed antagonista al sistema stesso.
Per cui, chi grida alla legalità, sostiene un concetto che è al contempo legge e controllo, è Stato e appiattimento sociale, è filosofia della conservazione e antirivoluzione per definizione.
In questo senso va anche visto il ruolo ricoperto dalla venerata e osannata Magistratura; affidare ai tempi (e ai fini) della magistratura i tempi della lotta è l’errore più grande in cui i movimenti di opposizione possano cadere; il potere giudiziario in quanto tale è potere politico a tutti gli effetti ( e in questo purtroppo Berlusconi ha ragione) con precisa funzione sociale: “tale questione non ha nulla a che fare (come talvolta si vuol credere) con la supposta esistenza di buoni o cattivi giudici, di una magistratura corrotta che si oppone ad una di onesti funzionari al servizio della giustizia.
La questione è il ruolo che l’apparato giudiziario e repressivo dello stato riveste nell’economia generale dell’abnorme macchina governamentale che disciplina ed organizza le nostre vite. Questo ruolo, recitato con estrema disciplina, è il ruolo del conservatore dello status quo, del mantenimento dell’ordine e della disciplina, è il ruolo di chi giudica e punisce chiunque da quell’ordine si allontani, il ruolo che magistratura e polizia hanno è, in estrema e brutale sintesi, quello di permettere, al potere attualmente dominante, di dispiegarsi in tutta la sua arrogante violenza e di generare tutto l’orrore di cui è capace”.
Sostenere la magistratura “ad ogni costo” significa in ultima istanza mettere il ruolo della legge in primo piano rispetto alla legittimità delle lotte sociali e delle forme di antagonismo che, spontaneamente o meno, si danno nei territori.
E ciò significa purtroppo difendere lo staus quo dal cambiamento reale e materiale della nostra terra. Processo dirimente è quindi l’immediato abbandono di una visione dualistica e di contrapposizione tra stato e mafia.
Lo dimostrano gli eccidi di Giardinelli e Lercara commissionati direttamente da Crispi; lo dimostrano gli omicidi di quadri proletari, sindacalisti e capi contadini nel primo-dopoguerra; lo dimostra ancora l’eccidio miserabile di Portella della Ginestra, ordito dai più alti vertici del capitalismo globale e nazionale; lo dimostra la morte di Peppino Impastato, impegnato contro le lobbies affaristiche costituitesi dietro la costruzione dell’aeroporto di Punta Raisi a cui erano legati i vertici della Democrazia Cristiana meridionale e non solo; e la lista potrebbe continuare ancora a lungo.
Affidare allo Stato Italiano, lo “Stato delle stragi” e della repressione violenta e antidemocratica di tutti i movimenti rivoluzionari che la storia ha saputo esprimere e lasciarci in eredità, vuol dire consegnare il ricordo di Peppino ai suoi infami assassini.
Peppino parla quindi a noi, oggi, ancora di più, per il suo rigore scientifico, la sua tensione, la sua passione. Anche se tentano di trasformarlo in una icona imbalsamata, in un “santino” (come stanno tentando, del resto, con Che Guevara) va ricordato che Peppino fu un comunista. Fu un organizzatore sociale e politico; organizzò il conflitto bracciantile; occupò terre. Fu un innovatore culturale, anche sul piano della comunicazione: “Radio Aut” fu esempio straordinario della capacità comunicativa di attaccare il comando mafioso anche con lo sberleffo, con la satira aspra e documentata che parte dall’inchiesta sul territorio.
Ricordiamo Peppino, oggi, dopo tanti anni, con il sentimento vivo e l’affetto di chi si sente, anche emotivamente, parte di uno splendido impegno collettivo. Tanto più perché controcorrente.