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Inchiesta sulle sparizioni forzate in Egitto. Alla luce dell’assassinio di Giulio Regeni

In Egitto, il clamore sollevato dall’assassinio di Giulio Regeni non è bastato a fare luce sul problema delle centinaia di sparizioni forzate, e parlarne rimane un tabù. Lo ricorda l’inchiesta di un giornalista egiziano, Karem Yehya, pubblicata dal magazine francese OrientXXI. Il fenomeno dei desaparecidos, quasi inesistente sotto Mubarak, oggi raggiunge cifre spaventose: 430 solo tra agosto e novembre 2015, tra cui molti giornalisti. Una situazione che però non sembra interessare l’Unione Europea, né la Francia, il cui presidente Hollande ha da poco concluso una visita in Egitto, concludendo con il paese un sostanzioso pacchetto di accordi politici, economici e militari.

Era il 22 giugno 2015 quando l’espressione “sparizione forzata” viene utilizzata in un comunicato del sindacato dei giornalisti egiziani per descrivere il caso di Mohamed Saber Al-Battawi, giornalista del quotidiano statale  Akhbar Al-Youm, arrestato il 17 giugno nel suo appartamento, nella città di Toukh a nord del Cairo. Dopo una denuncia così esplicita, un’agenzia di stampa ufficiale pubblicò la dichiarazione di una fonte di polizia che indicava il suo luogo di detenzione. Sebbene sia ancora dietro le sbarre, Al-Battawi può ritenersi fortunato: la sua sparizione è durata meno di una settimana. Le accuse nei suoi confronti sono le più  svariate, tra cui anche l’appartenenza a un gruppo terroristico. Il vero motivo dietro il suo arresto era però la pubblicazione online di un articolo satirico in cui alludeva alla repressione dei civili da parte dell’esercito. Il riferimento era agli episodi di pochi giorni prima in Sinai, quando, in un cementificio di proprietà dei militari, questi avevano sparato sugli operai in sciopero.

La famiglia di Al-Battawi ha avuto più fortuna di quella di Sabri Anwar, redattore della rivista online Al-Badil (L’Alternativa), arrestato in casa dalla polizia nella città di Kafr Battikh, governatorato di Damietta, all’alba del 21 febbraio 2016. Grazie a una conoscenza, la sua compagna è riuscita fargli visita due giorni più tardi nel commissariato di polizia della città. In quell’occasione il giornalista le ha raccontato di essere stato torturato, anche con l’uso ripetuto di elettro-shock. Secondo gli amici, Anwar è sparito dopo aver presentato una denuncia al Procuratore Generale. Ad oggi, né il ministero dell’interno né altri servizi di sicurezza hanno dato informazioni sul luogo di detenzione.

Nell’ambiente dei media, nonostante i molti tabù sul tema delle sparizioni forzate – soprattutto nella stampa di stato – la questione è sentita. Richiama alla memoria Reda Hilal, giornalista del quotidiano Al-Ahram, scomparso nel luglio 2003. Alcuni attivisti per i diritti umani affermano che quello di Hilal è uno dei due soli casi noti di sparizioni forzate avvenute durante i trent’anni di regno di Hosni Mubarak. Altri invece parlano di 57 casi documentati nello stesso periodo. Questa cifra è quella riconosciuta anche dal gruppo ONU che si occupa di sparizioni forzate.

Cifre significative ma contraddittorie

Una delle differenze tra le sparizioni forzate ai tempi di Hilal e quelle ai tempi di Battawi o di Anwar, sta nell’aumento del numero degli scomparsi, che preoccupa non poco le organizzazioni per i diritti umani nazionali e internazionali e l’opinione pubblica egiziana. Le autorità negano il fenomeno e lo attribuiscono a una campagna di diffamazione orchestrata dai Fratelli Musulmani e dal loro network di relazioni a livello internazionale. Eppure, il 22 dicembre 2015, un’organizzazione per i diritti umani che non si può qualificare come islamista, né tanto meno vicina alla Fratellanza, ha pubblicato un rapporto che raccoglie 430 casi di sparizioni forzate solo nel periodo tra agosto e novembre dello stesso anno, in pratica tre al giorno. L’unione delle famiglie dei desaparecidos, fondata nell’estate del 2013, dispone di un registro che raccoglie 108 sparizioni, secondo quanto ci racconta il presidente Ibrahim Metwalli, avvocato e padre di una vittima. L’associazione, senza una sede né mezzi sufficienti, conta di fatto solamente sul lavoro volontario dei suoi membri.

Dalla denuncia collettiva inviata al procuratore generale da dieci famiglie di scomparsi il 18 novembre 2015, emerge una grande diversità di provenienza, età, ed estrazione sociale dei desaparecidos. Secondo la denuncia, la prima delle 108 sparizioni documentate risale all’8 luglio 2013, la maggior parte delle altre sono avvenute il 14 agosto dello stesso anno (il giorno del violento scioglimento del sit-in di Rabaa al-Adawiya), mentre l’ultima risalirebbe al 13 gennaio 2014. Tra gli scomparsi, tre studenti, due laureati, un chirurgo, un sarto, un ragioniere, un imbianchino. L’età va dai 22 ai 58 anni. Quanto alle risposte ufficiali, l’avvocato Metwalli ci conferma che, come centinaia di altre denunce, anche la loro è stata archiviata senza nessun seguito. Scrivere invano al procuratore generale, presentare inutilmente petizioni e denunce al ministero dell’interno o al presidente della repubblica, sono alcune delle tappe della via crucis delle famiglie delle vittime. È una pura perdita di tempo mettersi alla ricerca dei propri cari tra di diversi servizi di polizia, ospedali, obitori, o tentare una visita alla prigione militare di Azouli, sulla desolata strada per Ismailiya nel mezzo del deserto.

I formulari del Consiglio nazionale per i diritti umani

Chiunque abbia frequentato piazza Tahrir dopo la caduta di Mubarak nel febbraio 2011 ha potuto incontrare famiglie che lamentavano la sparizione di parenti durante i fatti della rivoluzione. Naturalmente, in un paese come l’Egitto, nessuno dispone di cifre che documentano un fenomeno così pericoloso. Ma dopo la destituzione di Mohamed Morsi da parte dell’esercito nel luglio 2013, numerose testimonianze hanno segnalato l’aumento del numero di casi, molti dei quali a sfondo politico. L’anno scorso il Consiglio nazionale per i diritti umani (organo parastatale formato da rappresentanti della società civile) ha dato la possibilità di compilare dei moduli di denuncia delle sparizioni forzate secondo i criteri della Convenzione ONU del 2006. Dall’autunno 2015 a marzo 2016, secondo George Ishaq, membro del consiglio, sono state 300 le denunce ricevute e inoltrate al ministero dell’interno. Ad oggi, il ministero ha fornito risposte su 193 persone, comunicando nella maggior parte dei casi che gli scomparsi sono in carcere per scontare una pena o in attesa di giudizio. D’altra parte, l’operazione lanciata dal Consiglio non gode né della fiducia delle famiglie delle vittime né di quella di alcuni membri del Consiglio stesso. Quest’ultimo infatti fino ad oggi non ha ancora prodotto un rapporto completo sulle sparizioni forzate sulla base delle denunce ricevute: annunciata più volte, la pubblicazione è stata ostacolata dal suo stesso presidente, uomo politico legato all’establishment.

Comprendere il fenomeno

Ma la differenza tra l’era Mubarak e oggi non sta solamente nell’aumento vertiginoso del numero di casi. Oggi sappiamo con certezza che la maggior parte delle sparizioni documentate sono avvenute dopo l’arresto da parte della polizia e l’interrogatorio e la detenzione nei centri della Sicurezza Nazionale. E sappiamo con altrettanta certezza che alcune vittime sono state ritrovate uccise dopo la convalida del fermo. È il caso di Islam Atito, studente di ingegneria alla Facoltà di Ain Shams, arrestato durante una sessione di esami sotto gli occhi dei suoi colleghi.

Altre volte la sparizione è avvolta nel mistero, come nel caso dello studente italiano Giulio Regeni. Ma lo stesso vale per tante altre sparizioni il cui numero è difficile da determinare, che risalgono ai massacri perpetrati in seguito al colpo di stato nell’estate del 2013, nelle piazze in cui manifestavano i sostenitori del deposto presidente Morsi.

Molto spesso capita che gli scomparsi appaiano dopo mesi in un tribunale militare, imputati in processi con capi d’accusa politici. È successo alle circa ottanta persone che, dopo essere sparite per quasi tre mesi, si sono ritrovate davanti a un giudice militare che ha condannato sedici di loro per l’attentato allo stadio di Kafr al-Sheykh e l’appartenenza ai Fratelli Musulmani; tra le pene, sette condanne a morte e diversi ergastoli.

Il problema non sta solo nel fatto che l’Egitto non abbia firmato la Convenzione ONU sulle sparizioni forzate, ma che questa non sia affatto menzionata né nella costituzione, né nella legislazione vigente. L’articolo 54 della costituzione prevede che si debba concedere a chiunque sia privato della propria libertà la possibilità di contattare la propria famiglia e il proprio avvocato nelle prime ventiquattr’ore dal fermo. La legge prevede pene fino a tre anni per il reato di detenzione illegale. Ma per gli egiziani questa legge è di fatto inesistente. Ciò che più lascia senza parole però è che il ministro dell’Interno – ex direttore della Sicurezza Nazionale – respinge in toto le accuse e nega persino che si sia mai verificato anche un solo caso di sparizione forzata. Come se fosse ancora possibile, dopo tutte queste testimonianze, negare il fenomeno dei desaparecidos in Egitto.

Karem Yehya (giornalista egiziano), 12 aprile 2016

Tradotto e adattato dal francese http://orientxxi.info/magazine/enquete-sur-les-disparitions-forcees-en-egypte,1286,1286 a cura di Osservatorio sulla Repressione.

Versione originale in arabo: تحقيقٌ حولَ الاختِفاءِ القسريِّ في مصر