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Indagine sul giustizialismo

Popolo, pm e Cinque stelle. La confusione tra giustizia sociale e penale. L’ideale assoluto di purezza che via internet diventa paranoia. Il nuovo libro di Manconi e Graziani

Il termine “giustizialista” si è affermato in Italia a partire dalla fine degli anni Ottanta, ottenendo largo spazio nell’informazione e nella polemica politica. Tra le definizioni e le interpretazioni, quella che ci pare più appropriata e che esprime meglio i connotati del fenomeno è proposta dal dizionario Sabatini Coletti: “Con valore polemico, atteggiamento di chi appoggia senza riserve l’azione della magistratura contro la corruzione, anche a scapito delle garanzie individuali del cittadino”.

Ma nella maggior parte dei vocabolari, il primo significato dato al termine è: “Nel linguaggio giornalistico, la richiesta di una giustizia rapida, severa, e talvolta sommaria, nei confronti di chi si è reso colpevole di particolari reati, spec. di quelli di criminalità organizzata e di disonestà nell’amministrazione della cosa pubblica”. Il termine ha un’accezione esclusivamente negativa ed è forse per questo che i giustizialisti, per dimostrare il carattere strumentale e pretestuoso delle accuse loro rivolte, spesso replicano evidenziando come, nella lingua inglese, la categoria che li denota non esista. E questa carenza linguistica, e davvero non capiamo il perché, viene considerata un ottimo argomento. Quasi che la parola esaudisse il concetto e fosse una sorta di mera espressione dialettale, un epiteto provinciale, una definizione interamente dipendente da un esausto chiacchiericcio domestico.

Ma – oh, sorpresa! – la parola esiste nella lingua tedesca (Gerechtigkeitsfimmel) e il suo significato nel dibattito pubblico di quel Paese è esattamente corrispondente a quello italiano. In tedesco, per la verità, la locuzione è ancora più illuminante, dal momento che il secondo termine (der Fimmel) che la compone in italiano è traducibile con: “fissa”, “mania” e addirittura “fregola”.

Dunque, come scrivono Valentina Calderone e Angela Condello: “Il significato è univoco e richiama orientamenti tutti relativi all’area della patologia, più o meno acuta; siamo in presenza di qualcosa di molto simile a una nevrosi, che porta a comportamenti esasperati o, comunque, alterati”. L’amore per la giustizia che trascende in uso deformato della stessa. Ma non si tratta solo di un’interpretazione scorretta o squilibrata, e nemmeno di un abuso: ciò cui si assiste è una sorta di rovesciamento della giustizia nel suo contrario, attraverso una sua applicazione paranoica (ecco la mania). E’ la giustizia che diventa l’ingiustizia.

Luigi Manconi e Federica Graziani

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Giustizia da trafiletto

E’ questo l’effetto della confusione tra giustizia sociale e giustizia penale. Il “giustizialismo” peronista si teneva ancora nei confini di un progetto di giustizia sociale, da perseguire con i diversi strumenti politici ed economici a disposizione delle autorità di governo di un grande Stato nazionale come quello argentino. Al contrario, il giustizialismo italiano contemporaneo, quando non sia strumentale a obiettivi ulteriori, propri degli imprenditori politici della paura come la Lega di Matteo Salvini o altre forze di estrema destra, si nutre di quella confusione tra giustizia sociale e giustizia penale. E lo fa portando alle estreme conseguenze una sorta di mandato fiduciario, affidato alla magistratura inquirente che, a partire da Tangentopoli (e talvolta anche prima, negli anni Settanta e Ottanta del Novecento), ha trovato larghi consensi tra le forze politiche e, più ancora, nel cosiddetto “popolo della sinistra”, e “nel popolo” tout court.

Così si è diffusa l’idea che la magistratura inquirente potesse rendere giustizia a quel popolo e rispondere alle sue ansie e alle sue aspettative, attraverso l’individuazione dei “colpevoli”, poteri e potenti fino ad allora o fino a oggi impuniti. Nel mercato della politica, una legittima domanda di giustizia sociale ha incrociato un’offerta di giustizia penale, dapprima in forma “spontanea”. Questo perché singoli settori della magistratura avevano intravisto, nella capacità propria e dei propri uffici giudiziari di operare il controllo di legalità, una possibilità di reazione alle carenze e agli illeciti degli attori e delle politiche pubbliche dominanti. E successivamente, in forma via via più strutturata in ragione della progressiva centralità del paradigma penalistico, nella proposta politica di partiti e movimenti che hanno tradotto la tensione al cambiamento in un’elencazione di nuovi reati e nuove pene.

Ermes Antonucci

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La gogna può proseguire

Viene in mente un sublime aforisma di Piergiorgio Bellocchio, “beati gli affamati di giustizia perché saranno giustiziati”. Gli “affamati” di Bellocchio bramano a tal punto la giustizia da correre il rischio e pagare il fio del suo ottenimento: l’assoluto affermarsi del Giusto può essere a tal punto totalizzante da comportare il sacrificio di coloro che l’hanno perseguito e che per esso si sono immolati. Non c’è alcun gioco di parole, se non quello voluto dal divertito esercizio letterario, bensì un lungimirante monito morale. E un richiamo a due riflessioni: la prima attiene all’idea stessa di assoluto, qui inteso come concetto opposto a quello di finitezza (non l’assoluto, pertanto, come evocazione del trascendente, ma come pretesa di totalità). L’affamato di giustizia che finisce giustiziato conosce sulla propria pelle il connotato onnicomprensivo di un valore – la giustizia – che si afferma senza contraddizione e senza eccezione, senza limiti né vincoli. Esattamente un assoluto, che nega la finitezza propria dell’attività umana, e, tanto più, di quell’attività – l’amministrazione della giustizia – così profondamente calata dentro la materialità delle relazioni sociali, oltre che dentro la fatica del conflitto e della sua composizione, del danno e della riparazione, della ferita e della sutura. Immergersi nella pesantezza della realtà e operare con caparbietà per la mediazione sono poi l’aspirazione più alta, ma comunque finita, della giustizia umana in una società umana, organizzata – riflessivamente – da uomini per sé e per altri uomini. Scriveva Alessandro Manzoni in Storia della colonna infame: “Non è cosa ragionevole l’opporre la compassione alla giustizia, la quale deve punire anche quando è costretta a compiangere, e non sarebbe giustizia se volesse condonar le pene de’ colpevoli al dolore degl’innocenti”. In questa frase è condensata l’idea della fallacia di ogni tesi esclusivamente retributiva della pena (e quindi anche della giustizia penale). L’incommensurabilità del danno patito dalla vittima – soprattutto per effetto dei più gravi reati contro la persona – impedisce di commisurare, appunto, la pena al costo della sofferenza subita (pretium doloris), dovendo invece a tal fine assumersi, quale parametro principale da affiancare a quello della colpevolezza, l’esigenza di reinserimento sociale del reo. Si tratta di scommettere sull’uomo, assumendo uno sguardo non esclusivamente retrospettivo (tutto circoscritto al fatto di reato), ma anche rivolto al futuro e alla possibilità del colpevole di rispettare le regole del vivere comune, espresse dall’ordinamento.

E’ questo il punto dove si colloca l’aspro conflitto intorno alla questione dell’ergastolo ostativo, della sua permanenza o della sua abrogazione. Un discrimine che vede la più ampia mobilitazione del populismo penale e il suo ricorrere ad “armi proibite”: Hanno riammazzato Falcone e Borsellino (questo il titolo del “Fatto” del 9 ottobre 2019, a commento della pronuncia della Cedu che confermava l’illegittimità dell’ergastolo ostativo). In ogni caso, il fine irrinunciabile della riabilitazione del reo e della giustizia riparativa non corrisponde né a un’ambizione globale, né a una meta finale e nemmeno a un disegno generale. E’, piuttosto, un’attività che si muove tra mille insidie, percorre terreni sdrucciolevoli, rischia costantemente di mettere un piede in fallo. Non solo: quell’attività di giustizia è sempre necessariamente imperfetta, controversa, contraddittoria. Ed è appunto questo l’ulteriore aspetto della sua finitezza: essa lascia sempre vittime, anche quando rende loro giustizia. Non risarcisce mai davvero quando risarcisce. Non compensa quando vuole equilibrare. Non soddisfa mai, in altre parole, la fame di giustizia e, se lo facesse, dovrebbe andare fino in fondo. Fino, cioè, a giustiziare chi esige giustizia. Se si persegue un’idea di giustizia assoluta e senza contraddizione, senza limiti e vincoli, sarà fatale, insomma, che gli affamati di giustizia vengano giustiziati. Ma quelle due righe di Bellocchio consentono di trarre un’altra, ancora più essenziale, lezione. La giustizia non può essere assoluta, non solo perché è affare di uomini, ma anche perché la sua ipostatizzazione – da regolazione del conflitto e sanzione del reato a virtù suprema – porta a una conseguenza fatale: o la giustizia diventa pura astrazione e mero paradigma di riferimento ideale e, così, si separa dalla vita sociale, oppure si fa religione. Ovvero quella sua qualità astratta diventa teologia, speculazione intellettuale sul rapporto col trascendente, che infine precipita nel mondo aggregando un certo numero di seguaci. In questi ultimi, il culto della giustizia come astrazione virtuosa si traduce, nel concreto della vita quotidiana, in una identità confessionale. Tale identità parte dal presupposto dell’appartenenza a una comunità titolare di ciò che costituisce il fondamento di ogni teologia: la conoscenza della verità e l’accesso al bene.

Lo scarto tra l’idea di un mondo giusto e la realtà dell’amministrazione della giustizia ha radici antiche, fin nelle origini della nostra civiltà, tra la Dike greca e lo ius dicere romano. Alla ricerca dell’ordine naturale delle cose, della distinzione originaria tra il giusto e l’ingiusto, i greci finirono inevitabilmente per scoprire la tragedia, l’impossibilità della conciliazione del fato con la giustizia, e l’eterno riprodursi dell’ingiustizia, anche a danno di chi più giusto di come fu non poté essere. Assai più prosaici dei nostri progenitori ellenici, i romani, invece, tennero ben fermi i piedi per terra, e inventarono lo ius dicere, il giudizio terreno. E addirittura quello che ancora oggi viene chiamato il diritto pretorio, il diritto del caso concreto, individuato da un sacerdote laico, la cui missione non era la ricerca della giustizia, ma evitare che i cittadini venissero alle mani, o alle armi (ne cives ad arma veniant). Torniamo per l’ultima volta a quell’aforisma di Bellocchio e intendiamone il significato più semplice e perfino elementare. Quegli “affamati di giustizia” che finiranno giustiziati richiamano un dato di bruciante attualità, che percorre la cronaca politica lungo gli ultimi decenni. Richiamiamo ancora il detto di Nenni: “Il puro più puro che epura l’impuro”. Anche in questo caso, oltre lo scintillio del funambolismo delle parole, emerge una lezione morale, coerente con quanto finora detto. Anche la purezza – “Onestà! Onestà!” – è per sua stessa natura categoria assoluta. In altre parole, non si può essere “un po’ puri” o “abbastanza puri”. Se a quello stato si attribuisce un limite o si riconosce una carenza, crolla l’intera costruzione etica che si pretendeva di edificarvi. Ma proprio l’orrore per ogni limite e per ogni carenza di quello stato di purezza costituisce il vincolo essenziale di quanti a quello stesso stato guardano come alla fonte dell’autorità da cui dipendono. Preservare la purezza diventa allora, oltre che il legame associativo fondamentale, il primo e unico tratto identitario, la missione da perseguire, il campo della battaglia da combattere. Ne derivano una mentalità e una postura belligeranti, un vocabolario militare, un repertorio d’azione marziale. L’appartenenza o meno a un tale sodalizio si trasforma necessariamente in quello che, per alcune congregazioni religiose, è il voto di castità. E la corrispondenza tra purezza e castità, che secondo dottrina e pastorale non è perfetta, risulta nei fatti pienamente sovrapponibile in quanto richiede una coerenza assoluta tra categoria astratta e comportamenti pratici. La disciplina che ne discende è di tipo forzatamente monacale, regolamentata da un codice meticoloso, causidico, parossisticamente rigido. Ciò finisce col determinare un clima generalizzato di costante sospetto e di reciproca diffidenza, in cui ogni associato ha il duplice ruolo di sorvegliato e sorvegliante, investito da una funzione assai simile a quella di “poliziotto del cielo”. Ora, tutto ciò potrebbe avere un suo senso all’interno di uno spazio circoscritto, definito da ragioni extra-mondane, come potrebbe essere appunto un monastero, un carmelo, una comunità di ricerca spirituale: ma nella società secolarizzata e nello spazio della vita pubblica, e tanto più in quello della sfera politica, quella purezza semplicemente non si dà. E non perché tutto è corrotto, ma perché è l’attività umana stessa a presupporre l’impurità. O meglio: la contraddizione, la caduta e la ripresa, l’errore e la riparazione. Dunque, quella comunità fittizia e fittiziamente aggregata attorno a un ideale assoluto di purezza, è in realtà costantemente esposta e vulnerabile, e chi ne è parte sa che la propria permanenza dipende dalla capacità di tenuta e dalla selezione degli associati. Il vero vincolo, quello più robusto e cogente, più che la reciproca solidarietà, è allora la delazione ininterrotta, e il meccanismo più incisivo di fidelizzazione è rappresentato dalle procedure dell’epurazione (ciò che soltanto può – attraverso l’atto di espulsione dell’impuro, appunto – restaurare l’originaria purezza). Tutto questo, in quella dimensione ancora più fittizia del fittizio che è per sua natura lo spazio virtuale di internet, diventa parossistica paranoia. Il sospetto e la denuncia ne sono le manifestazioni più frequenti. Se trasferiamo le nostre considerazioni dal piano teorico a quello della cronaca politica quotidiana, l’effetto è addirittura grottesco. Basti un esempio. Dal maggio del 2012, quando Federico Pizzarotti venne eletto sindaco di Parma, all’ottobre del 2018, quando i ministri dei 5 Stelle accettarono la realizzazione della Tap, molta acqua è passata sotto i ponti. E quello stato di purezza è come evaporato. O meglio: è stato strappato, sgualcito, sporcato. L’assolutezza della Regola ha subito pressioni, strattoni e lacerazioni. E ne sono conseguite deroghe, eccezioni e abusi. Ma, soprattutto, c’è stata una vera e propria Rivelazione. E’ emerso nitidamente un tratto culturale e antropologico dell’elettore-tipo dei 5 Stelle, che aiuta a spiegare come non hanno incrinato il consenso – anzi – fatti quali la mancata “restituzione” di parte dei contributi promessi, gli episodi di acclarato malcostume, o la grottesca vicenda di rimborsi spese equivalenti a tre volte un salario operaio. O ancora: quella sorta di condono che permise al senatore Elio Lannutti di candidarsi nonostante la regola che impone ai grillini di non aver svolto incarichi con altri partiti; le mancate dimissioni di tre parlamentari del movimento (Sarti, Lannutti e D’Ippolito) condannati per diffamazione in primo grado; le frequenti anomalie nella documentazione dei rimborsi (il sito che li rendiconta è fermo da mesi); la disparità di trattamento riconosciuta a diversi parlamentari; l’inosservanza dell’articolo del nuovo statuto sulla formazione delle liste. La successione di questi fatti, e molti altri ancora, hanno indotto gli avvocati di Virginia Raggi a dichiarare, 48 ore prima della sua sentenza di assoluzione, che “il codice etico non è stato mai applicato”. Partendo da Alessandro Manzoni e da Pierluigi Bellocchio siamo arrivati alle piccole vicende intestine di un partito, quello grillino, che dalle elezioni europee della primavera del 2019 conosce un rovinoso calo di consensi.

Non sembri, il nostro, un esercizio eccessivamente ardito: serve a indicare come i limiti e i vizi del Movimento 5 Stelle, e della cultura da cui è prodotto e che riproduce, hanno una storia antica e radici profonde e articolate.

da il foglio