­
­
Menu

Intellettuali con l’elmetto per il nazionalismo europeo

Da Piazza del Popolo allo scontro surreale su Ventotene. È evidente il tentativo in atto, da parte di chi guida la cultura e la comunicazione mainstream, di convincere l’opinione pubblica che è giunto per tutti il momento di combattere, e forse anche morire, per difendere l’Europa, i suoi valori, la sua tradizione di pensiero

di Gianmaria Nerli da l’Unità

Anche questo periodo di rivolgimenti geopolitici e crisi epocali è tempo di “fenomeni morbosi”, per dirla con Gramsci. E anche oggi inedite forme di nazionalismo tornano a ridisegnare il senso e l’orizzonte del mondo. È infatti un fenomeno ormai evidente il tentativo in atto, da parte di chi guida la cultura e la comunicazione mainstream, di convincere l’opinione pubblica che è giunto per noi tutti il momento di combattere, e forse anche morire, per difendere l’Europa, i suoi valori, la sua tradizione di pensiero. Il tutto all’insegna di un ri-nato orgoglio nazionalista europeo, che accantona i sovranismi e i nazionalismi dei singoli paesi in nome dell’europeismo, ma che del nazionalismo ripropone neanche troppo velatamente le logiche e di cui riproduce le matrici psicologiche, forze indispensabili per una chiamata alle armi. Campo di battaglia di tale propaganda è l’ampio fronte di chi sente di appartenere alla cultura liberale moderata e progressista egemone in questi decenni; ovvero la maggioranza più o meno silenziosa dei nostri giorni che è ragionevolmente bisognosa di riconoscersi in qualche valore fondante dopo il vuoto lasciato da 40 anni di politiche neoliberali e di ipocrita demonizzazione delle ideologie.

Mentre per la cultura di destra, nell’attuale cataclisma, è facile riconoscersi nelle radici identitarie della nazione o del credo cristiano, ed infatti rimane fuori dal target della propaganda, diverso è il discorso per chi anche a sinistra è vissuto per decenni sotto la martellante litania dei miti postmoderni della globalizzazione redentrice, della pacificante fine della storia, della religione unica del mercato. Questo ampio fronte, disorientato dall’imminente crollo del mondo in cui ancora vive, deve essere convinto che oggi la vera battaglia di civiltà sta nel difendere l’Europa e i suoi valori. E così, come in un remake holliwoodiano degli anni Dieci del Novecento, una parte sostanziosa di intellettuali, chiamiamoli mainstream, organici a questo ampio fronte sono stati ormai arruolati, come dimostra l’attivismo di Repubblica, nel promuovere un europeismo idealizzato e insieme armato, ultimo baluardo di bene in nome del quale combattere. È l’europeismo sentimentale ed eurocentrico che si è ritrovato nella manifestazione del 15 marzo lanciata non a caso da Michele Serra, un intellettuale che di mestiere scrive elzeviri.

Va detto subito che lo scoglio principale di questo progetto di costruzione di un sentimento nazionalista europeo consiste nel confronto con la realtà, da qui il bisogno della propaganda. La realtà tanto dei fatti storici: alla cultura europea dobbiamo da alcuni secoli l’ideazione dello sterminio sistematico delle altre popolazioni in nome della propria superiorità, inventando il razzismo come legittimazione, imponendo il colonialismo come forma di governo e l’imperialismo come forma di sostegno all’economia; più che erede della democrazia ateniese, che, ricordiamolo en passant, si sosteneva grazie a un’economia schiavile, l’Europa assomiglia piuttosto al discendente stanco di chi ha accumulato le proprie ricchezze con la rapina e il saccheggio.

Quanto alla realtà dei fatti attuali: il sentimento popolare diffuso non si riconosce nel pensiero di queste élite intellettuali, stando almeno ai recenti sondaggi che bocciano tanto il piano di riarmo di Von der Leyen che il sostegno all’Ucraina voluto dall’Ue. Come cento anni fa, quando gli intellettuali e gli studenti manifestavano per l’entrata in guerra, e contadini e operai, consci che a morire nelle trincee sarebbero andati soprattutto loro, si opponevano. Anche oggi a volere la difesa europea, e magari il ripristino della leva obbligatoria per forgiare dei veri guerrieri, sono la classe dirigente e una parte di intellettuali tra i 60 e 70 anni, non gli anonimi e impauriti cittadini che magari pensano al futuro concreto dei propri figli.

Vale la pena dunque interrogarsi sulle ragioni profonde di tale nuovo arruolamento degli intellettuali alla causa del nazionalismo, e della creazione di un nuovo mito nazionalista europeo. Le polemiche sui discorsi che hanno accompagnato la manifestazione per l’Europa, e lo scontro surreale sul Manifesto di Ventotene danno alcune utili chiavi di lettura, in quanto sono entrambi sintomatici di un modo di ragionare e di fondare il pensiero teso a rimuovere o capovolgere il senso delle cose, come si fa quando si deve adattare la realtà alla narrazione che si ha in testa.

L’aspetto più interessante del gran rifiuto meloniano verso l’autorità simbolica del Manifesto di Ventotene, negli ultimi anni trasformato in una sacra reliquia della religione europeista, e come tale quasi mai letto, non è il disconoscimento di quel testo evidenziandone la matrice socialista, procedimento tutto sommato legittimo da parte di chi incarna i valori di una destra non antifascista che della nazione fa un mito fondante: sta anzi nelle cose, e fortunatamente, che quel manifesto da costoro sia disprezzato. Ciò che invece è estremamente interessante è l’ampio fenomeno di indignazione con rimozione con cui l’ampio mondo liberale e progressista ha reagito. Non si contano storici, intellettuali, parlamentari, che si sono affrettati a dire che estrapolando delle citazioni si falsifica il testo, che bisogna tenere conto del contesto storico, che è frutto dell’isolamento, insomma tutte dichiarazioni per dire che parole come abolizione proprietà privata, partito rivoluzionario ecc. sono parolacce, che facevano parte dello spirito dei tempi e della reclusione, ma che quel testo, in seguito emendato nei fatti dagli stessi autori, è santo. Addirittura il Benigni addomesticato di questi tempi, ha sentito di dover dire che, sì, ci sono delle idee superate, ma l’opera dei tre eroi è fondamentale per costruire l’Europa federalista. Questo diffuso atteggiamento di giustificazione mette in luce il rimosso vero e proprio: ossia la cancellazione di ogni forma di pensiero che fuoriesce dall’ortodossia liberale oggi egemone.

In questo modo, cancellando il pensiero sociale che lo ispira, non solo si rovesciano le premesse filosofiche antinazionaliste del Manifesto, ma l’uso che se ne fa è ribaltato: di quell’esperienza si prende solamente un astratto federalismo europeo, che, va ricordato, nelle premesse di quel testo era un passaggio per arrivare kantianamente all’unità politica della terra, e lo si eleva a obiettivo strategico. Ma quell’involucro federale, se è svuotato dei contenuti che portano alla pace, resta un involucro vuoto, che afferma il contrario dell’internazionalismo ispiratore: nelle premesse teoriche del Manifesto la guerra imperialista nasce dall’implosione degli stati perché le classi dei possidenti non accettano le conquiste dei ceti proletari, e che i limitati spazi della democrazia liberale d’inizio secolo diventano un pericolo perché mostrano la possibilità di raggiungere più uguaglianza e libertà per vie legali. Senza quindi questi contenuti sociali e rivoluzionari, che oggi si cerca di liquidare come residui trascurabili, il federalismo europeo millantato, trasformandosi nella rivendicazione di una superiorità per natura, è la negazione degli intenti internazionalisti dei cosiddetti padri fondatori.

Allo stesso modo, già dall’iniziale vaghezza dell’appello per la manifestazione in difesa dell’Europa, senza entrare nel dettaglio dei singoli discorsi o articoli con cui si è costruita la campagna, su cui ci si potrebbe divertire a lungo mostrandone i reali contenuti di verità, si intuisce l’operazione di rovesciamento che viene orchestrata. Si chiama il popolo europeo a raccolta per stringersi unito contro la minaccia di un nemico: in primo luogo la Russia di Putin, ma anche gli Stati Uniti del traditore Trump, e magari la Cina insondabile e sorniona che se ne sta in silenzio. Questa è d’altronde la narrazione a cui ci hanno allenato. Eppure questa narrazione si basa su una falsità tanto lampante quanto pericolosa. La Russia, pur portando avanti una politica di potenza di tipo imperialistico, non assume nell’Europa un nemico, non la vuole conquistare, non ne avrebbe le capacità, e in definitiva combatte una guerra che avrebbe volentieri evitato. In sintesi, non vuole e non ha bisogno dell’Europa come nemico. È questa Europa che ha bisogno di costruire un nemico per non sgretolarsi, per non crollare, e la Russia è il candidato ideale.

La manifestazione ideata dagli intellettuali mainstream serve anche a questo proposito, a creare il nemico, anche per legittimare la costruzione del mito nazionalistico dell’Europa indomita e coraggiosa. Lo potremmo chiamare, con un po’ di fantasia, la nascita dell’irredentismo europeo, il tentativo di liberare dal giogo nemico una terra che ancora non esiste nella realtà. Non esiste nella realtà, ma sì nella scommessa imbastita dalle élite, che nel tentativo di non soccombere hanno deciso che anche l’Europa, stretta tra opposti imperialismi, si deve fare impero.

La speranza è che nessuno di questi intellettuali mainstream voglia morire imperiale, anche se si sente parte della élite che lotta per salvarsi. Se qualcosa di veramente memorabile ha prodotto nei secoli la cultura europea è stata la capacità creare sempre un pensiero antagonista e alternativo a quello che creava continui mostri: così è stato per il movimento operaio con lo sfruttamento capitalistico, così per il movimento anticolonialista, così per il pensiero femminista, e così via. Questa tradizione può essere ripresa, rinnovata, rinvigorita, coinvolgendo in questo lavoro di speranza anche tutti gli intellettuali che oggi si sentono smarriti e si affidano a un facile e prevedibilmente fallace nazionalismo europeo. Non è certo infatti da questa linea di pensiero eurocentrica, organica alla cultura liberale e neoliberale che ha creato il disastro in cui stiamo affondando, che possiamo aspettarci uno scarto per superare indenni e pacifici questi anni turbolenti. Da qui la rimozione operata sul Manifesto di Spinelli, Colorni e Rossi: sarà solo mettendo in discussione il sistema economico e sociale costruito dal capitalismo liberale e neoliberale che si estirperanno le ragioni della guerra, della politica di potenza, dell’imperialismo e del nazionalismo, e si affermeranno le ragioni della pace e della giustizia sociale. Forse quello di cui abbiamo bisogno è proprio quel pensiero rivoluzionario rimosso; e insieme di tutti quegli intellettuali che con un pensiero di radicale cambiamento vogliano misurarsi, per il presente e per il futuro. Ma per costruire, kantianamente, non un’Europa, bensì una Terra unita, uguale, in pace.

Osservatorio Repressione è una Aps-Ets totalmente autofinanziata. Puoi sostenerci donando il tuo 5×1000 

News, aggiornamenti e approfondimenti sul canale telegram e canale WhatsApp