Sharifeh Mohammadi, attivista sindacale e sociale iraniana, già componente del comitato di coordinamento per la costituzione di organizzazioni sindacali in Iran, è stata condannata a morte con l’accusa di tradimento e insurrezione.
di Alessandra Mincone da Pagine Esteri
Mentre l’Iran, o una parte di esso, festeggia l’elezione a presidente del riformista Masoud Pezeshkian, lo scorso 4 luglio il Tribunale di Rasht ha sentenziato la pena di morte per l’ingegnere e sindacalista Sharifeh Mohammadi, accusata di “insurrezione armata contro lo Stato dell’Iran” e di “coordinamento alla creazione di organizzazioni sindacali”.
I giudici del Tribunale, Ahmad Darvish Goftegari e Mehdi Rasakhi, hanno sostenuto che la donna è affiliata al Comitato nazionale di coordinamento per l’assistenza ai sindacati (LUACC) e al partito socialdemocratico del Kurdistan iraniano “Komala”, considerato oggi un partito terroristico. I familiari della donna hanno smentito la notizia della partecipazione al Komala e precisato che Sharifeh avrebbe militato per un breve periodo nel LUACC, ma non meno di dieci anni fa. Smentite sono arrivate anche dai promotori della “Campagna per la difesa di Sharifeh Mohammadi”, che hanno descritto il verdetto “un crimine medievale”. Aldilà dell’attivismo nel coordinamento dei lavoratori, anche altri ex membri del LUACC hanno voluto sottolineare l’aumento della repressione e della persecuzione antisindacale, precisando che diversamente dal Komala, il Comitato è considerato ancora legale e che dagli anni 2000 promuove iniziative di organizzazione dei lavoratori e di sensibilizzazione sui diritti e sul tema del lavoro minorile.
L’attivista è in prigione dal 5 dicembre 2023, quando alcuni membri del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie islamiche (IRCG) l’hanno prelevata brutalmente dalla sua residenza a Rasht. Dopo essere stata trasferita in più centri di detenzione gestiti dal Ministero dell’intelligence, è finita in isolamento nel reparto femminile del carcere di Lakan a Rasht. La struttura, che si trova nella provincia di Gilan, si erge a circa 250 chilometri dal primo centro abitato, rendendo estremamente rare le visite dei familiari per le detenute. Alcune testate locali riportano i maltrattamenti e le umiliazioni a cui sono costrette le donne, come le perquisizioni corporali e le denudazioni ad ogni spostamento e l’assenza di acqua potabile, salvo che non si abbiano le possibilità di acquistarla a prezzi elevati; ma anche la carenza di beni per l’igiene come spazzolini e prodotti per il ciclo mestruale e la totale assenza di un ricambio della biancheria intima. Tra le attività concesse a Lakan, emerge la tessitura dei tappeti in seta: secondo un’inchiesta condotta dal Comitato delle Donne del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana (CNRI), durante il periodo del Covid-19 i prigionieri hanno passato le giornate a produrre dei tappeti dal valore di otto miliardi di toman ciascuno, ricevendo un salario annuo di un milione di toman.
Anche il sindacato nel settore del trasporto Vahed di Teheran e Periferia, in questi giorni ha fatto appello alla scarcerazione di Sharife denunciando le torture subite dalla donna in prigione, ipotizzando che le ripetute violenze avrebbero spinto alcuni agenti di custodia a protestare contro il suo pestaggio, fino a consentirle di sporgere una denuncia ufficiale tramite il legale. Adesso Sharife dovrà attendere la conferma o meno dell’impiccagione dopo l’impugnazione della condanna alla pena di morte dalla Corte Suprema iraniana.
Nel mese di maggio, altre 11 attiviste provenienti dalla regione di Gilan hanno perso l’appello impugnato contro la sentenza preliminare del giudice Mohammad Sadeq Iran-Aqideh, che le vedrebbe condannate a un totale cumulato di 60 anni di carcere con le accuse di “riunione”, “collusione per disturbare la sicurezza nazionale”, “propaganda contro l’establishment” e “affiliazione a gruppi illegali”. Dall’inizio delle rivolte succedute alla morte di Masha Amini, assassinata nel 2022 dalla polizia morale, l’Iran ha utilizzato la pena capitale come arma per terrorizzare i dissidenti nel tentativo di sedare le rivolte al grido “donna, vita, libertà”. Secondo il rapporto sulla pena di morte nel mondo pubblicato da Amnesty International, nel 2023 l’Iran ha registrato un aumento del 48% delle esecuzioni rispetto al 2021, rappresentando da solo il 74% delle esecuzioni nel mondo. Human Right Watch, ha affermato che l’Iran rimane uno dei principali praticanti della pena, spesso “applicandola a individui condannati per crimini commessi da bambini e con vaghe accuse di minacciare la sicurezza nazionale”.
Il direttore del Centro per i Diritti Umani in Iran (CHRI), Hadi Ghaemi, ha dichiarato al riguardo che “il Ministero dell’Intelligence, l’IRGC e il sistema giudiziario svolgono un ruolo dedicato a stroncare qualsiasi forma di dissenso pacifico”, e che Sharifeh sarebbe solo “l’ultima vittima del sistema di repressione nella Repubblica islamica”, nonostante l’Iran sia un membro dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO) alla cui base dovrebbe prevedere i principi di libertà di organizzazione e di sciopero. In una lunga lettera del 27 Maggio, due attivisti sindacali iraniani, Reza Shahabi e Davoud Razavi, imprigionati con le accuse di propaganda contro la Repubblica islamica e di essersi riuniti per minacciare la sicurezza nazionale, hanno evidenziato l’inefficienza dell’ILO nel condannare la persecuzione ai danni di organizzatori sindacali e lavoratori iraniani. Nel loro scritto riportano: “Dal 2005 noi membri del sindacato siamo stati oggetto dell’ira dei datori di lavoro, del governo, in particolare del Ministero dell’Intelligence, e della magistratura. Siamo stati arrestati, imprigionati ed espulsi molte volte per aver creato un’organizzazione sindacale indipendente e per aver svolto attività sindacali nel quadro degli accordi e degli standard internazionali sul lavoro. Durante questo periodo, centinaia di membri del sindacato sono stati arrestati e picchiati, decine sono stati licenziati o sospesi, e le loro case perquisite da agenti governativi. Nel frattempo, tre membri dell’UWTSBC sono stati bersagli ininterrotti di questa politica anti-sindacale e condannati a lunghe pene detentive e, nonostante gravi problemi di salute, si sono visti negare il congedo medico dai funzionari della prigione e dagli agenti del Ministero dell’Intelligence.”
Sull’inasprimento della repressione contro i comitati sindacali, gli attivisti indipendenti e i gruppi organizzati di lavoratori, vale la pena evidenziare le recenti proteste dei lavoratori nel settore petrolifero che stanno investendo il paese negli ultimi mesi. A Giugno, si sono registrati degli scioperi che hanno coinvolto 123 aziende con un adesione di almeno ventimila lavoratori. Le rivendicazioni partono dal superamento degli appalti, dall’aumento dei giorni di riposo a fronte di turni di lavoro continui, fino al miglioramento della sicurezza sui posti di lavoro e agli aumenti salariali per contrastare l’inflazione e restituire maggiore potere di acquisto alle famiglie. Sempre a Giugno, anche l’Associazione dei lavoratori edili ha denunciato il disinteresse della Repubblica islamica e del Ministero del Lavoro a risolvere i problemi legati alle morti per incidenti sul lavoro. Nel 2023, si sono registrati i decessi per cadute dall’alto di 983 operai, ciò significa il 46,5% dei morti totali sul lavoro. Akbar Shawkat, attivista sindacale, in un’intervista all’agenzia di stampa ILNA, ha denunciato che in Iran è ancora lontano lo sviluppo di macchinari e attrezzature funzionali alla salute e alla sicurezza sul lavoro: l’arretratezza dei carrelli elevatori, dei sistemi di trasporto dell’imbracatura, l’illuminazione insufficiente e i turni di lavoro obbligatori nelle ore più calde, costituiscono un danno alla salute e condizioni di pericolo quotidiane. Spesso capita anche che i datori di lavoro si rifiutino di fornire l’acqua potabile.
All’indomani delle presidenziali, non resta che augurarsi che l’atteso verdetto per Sharifeh Mohammadi possa diventare l’espressione del diritto delle donne, e dei lavoratori, a ottenere un giorno vita e libertà.
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