Israele continua a demolire le case palestinesi, il caso alla Corte Internazionale
Il 19 gennaio la polizia israeliana ha cacciato dalla propria abitazione la famiglia palestinese Salhiye, residente a Sheikh Jarrah, quartiere di Gerusalemme Est emblematico per le proteste all’origine della violenta escalation di scontri di maggio 2021. La loro casa era diventata il simbolo della resilienza palestinese, contro gli sfratti. Ma è stata demolita senza pietà. Gli agenti si sono presentati davanti all’abitazione Salhiye per eseguire l’ordine di sfratto, ma i familiari sono saliti sul tetto, minacciando di uccidersi con una bombola di gas e della benzina. «Viviamo qui dagli anni ’50 e non abbiamo altro posto dove andare».
Secondo la ricostruzione del quotidiano israeliano Haaretz, quella terra era stata acquistata dal padre di Mahmoud Salhiye nel 1967, ma in base alla legge israeliana sulla “proprietà degli assenti”, è stata successivamente confiscata perché – secondo le normative di Israele – la famiglia non ha più il diritto di possederla.
Dopo la demolizione, la polizia israeliana ha arrestato 18 uomini, tra cui alcuni membri della famiglia e altri loro sostenitori, con l’accusa di “aver violato un ordine del tribunale, essersi asserragliati in modo violento e disturbo della quiete pubblica”.
Perché tanto accanimento? Secondo le autorità israeliane, quei terreni erano stati in realtà destinati a una scuola per bambini con bisogni speciali di Gerusalemme Est. La costruzione di dimore, per questo, risulta essere abusiva e fuori legge. La polizia ha detto che le famiglie sono state più volte esortate a cedere il terreno in via consensuale. Ma questo non è mai accaduto.
Quindi a chi appartengono per davvero quei terreni? Tra le due fazioni c’è sempre stata una disputa a riguardo. Secondo Israele, quei terreni appartengono alle famiglie ebree che erano residenti a Gerusalemme Est prima del 1948. Per i palestinesi sono degli arabi, ritornati in quei luoghi dopo la cacciata. “Non è un arresto, è una vendetta”, ha detto l’avvocato della famiglia, Walid Abu-Tayeh.
Ma la famiglia Salhiyeh non si è arresa e dopo lo sfratto ha deciso di portare le autorità israeliane davanti alla Corte penale internazionale (CPI). «Non c’è giustizia, non credo più nel mio Paese. Mi hanno distrutto la vita. Non sappiamo quando il caso sarà portato davanti alla CPI, potrebbe volerci molto tempo». Ma nessun membro del nucleo famigliare ha intenzione di perdere la speranza, perché la CPI già nel 2019 aveva aperto un’indagine sui presunti crimini di guerra israeliani nella Palestina occupata. E questo è uno di quei casi.
Gloria Ferrari