Il deferimento di Israele alla Corte internazionale di giustizia con l’accusa di genocidio è un fatto dirompente anche per il tentativo, in esso insito, di rimettere al centro della questione palestinese il diritto. Vengono così al pettine numerosi problemi che riguardano, insieme alla guerra, lo stesso assetto democratico dello Stato di Israele, l’effettività del principio di uguaglianza, il concetto di limite
di Alessandra Algostino da Volere la Luna
Vorrei accostare il tema oggetto di questo incontro al termine “democrazia” e muovere da un’affermazione. Un’affermazione che non si può fare, che non è tollerata dall’informazione dominante: “Israele non è una democrazia”. Vorrei allora qui, in questo spazio libero, cercare di argomentare perché “Israele non è una democrazia”, ma anche riflettere sulle implicazioni sulla nostra, come sulle altre, democrazie che discendono dalla delegittimazione, se non criminalizzazione, della critica. Con una premessa. Il discorso razionale pensando a Gaza, si intreccia inevitabilmente con un piano emotivo; come ha scritto qualche giorno fa Valeria Parrella su il manifesto: «Penso sempre a Gaza. Si, è vero, mi alzo, esco, faccio le mie cose e penso sempre a Gaza». In primo luogo, sono il dolore, la disperazione e l’angoscia del popolo palestinese, che sentiamo riflessa in noi, e poi l’impotenza, e, insieme, la volontà di reagire, di non accettare che vi siano persone senza un luogo sicuro, senza acqua, cibo, cure, sotto i bombardamenti e privazioni disumane, uccise nella vita e nella speranza. E per reagire, denunciare, prendere posizione, per fermare il genocidio e con esso la scomparsa del senso di umanità, provo a ragionare.
Primo punto. La guerra di oggi è l’ultimo cortocircuito della democrazia israeliana, una democrazia negata dalla presenza di aggettivi che ne contraddicono l’essenza, li anticipo: razziale o etnica, identitaria, coloniale; aggettivi che raccontano una lunga storia di diseguaglianza, oppressione e violenza.
Il primo cortocircuito è nella tensione presente nella Dichiarazione di Indipendenza, laddove lo Stato è definito “ebraico e democratico”; un’affermazione affinata in senso identitario ed escludente con la legge fondamentale del 2018, “Israele, lo Stato-nazione del popolo ebraico”, che insiste sul rafforzamento dell’«insediamento ebraico» e afferma che «l’esercizio del diritto all’autodeterminazione nazionale dello Stato d’Israele appartiene solamente al popolo ebraico». Una democrazia etnica e identitaria che si fonda sulla distinzione e l’espulsione dell’altro (il nemico) è una contraddizione in termini laddove la democrazia ha nei suoi geni l’uguaglianza e il pluralismo ().
Il secondo cortocircuito è nella negazione dell’essenza della democrazia: l’uguaglianza. In Israele e nei territori occupati vigono regimi differenti, che concretizzano la definizione di apartheid come di colonialismo (da ultimo, cfr. Amnesty International, Israel’s Apartheid against Palestinians, 2022), sia in relazione alla legislazione e giurisdizione sia nelle discriminazioni in materia di diritti: dagli espropri ed assegnazioni delle terre alla libertà di circolazione al riconoscimento della cittadinanza all’allocazione delle risorse per servizi e diritti sociali alle privazioni arbitrarie della libertà personale. E poi, come può definirsi democratico un sistema che esercita poteri di governo senza riconoscimento di diritto di voto ai governati (come è per i 5.5 milioni di persone, su 14.5 milioni, che risiedono nei territori occupati)?
Il terzo cortocircuito è reso dall’assenza del concetto di limite. Non vengono riconosciuti limiti per quanto riguarda il territorio (occupazioni, insediamenti, frammentazione delle terre palestinesi, il muro in Cisgiordania dichiarato illecito dalla Corte Internazionale di Giustizia); non è rispettato il limite del diritto internazionale, da sempre, non da oggi; infine, la logica dell’emergenza utilizzata senza soluzione di continuità legittima la violazione dei limiti di uno stato democratico.
Infine, il quarto cortocircuito, la guerra. La guerra è violenza, distruzione e sopraffazione, sempre; avvolge Israele in una spirale di violenza difficile da arrestare; la guerra condotta contro Gaza (quanto sta accadendo è evidentemente una guerra contro il popolo palestinese) è una violenza cieca ad ogni rispetto dell’umano. Bombardamenti di campi profughi, di ospedali, privazione di acqua, cibo, medicine. È un genocidio . Come negare che si tratti di atti «commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso», come recita la Convenzione Onu per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio del 1948? Lo hanno detto il direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani, Craig Mokhiber, come sette relatori speciali delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Palestina. Cito le parole di Mokhiber, molto chiare: «So bene che il concetto di genocidio è stato spesso utilizzato abusivamente per scopi politici. Ma l’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzione ed epurazione sistematica, basata interamente sul loro status di arabi, e accompagnato da esplicite dichiarazioni d’intenti da parte dei leader del governo e dell’esercito israeliano, non lascia spazio a dubbi o discussioni». Una democrazia non può praticare una punizione collettiva, una democrazia deve agire, anche di fronte a dei crimini come quelli compiuti il 7 ottobre contro i civili israeliani, con coerenza rispetto a se stessa: deve rispettare i diritti e i limiti che la distinguono da un mero assetto di dominio e sopraffazione; altrimenti si autodistrugge. Come scrisse il Presidente della Corte Suprema israeliana, Aharon Barak, la democrazia deve «affrontare la lotta con una mano legata dietro la schiena».
Secondo punto. La violenza bellica, la disumanizzazione, l’arruolamento e la repressione della dissidenza, si riverberano su tutte le democrazie. Due sono i profili che vorrei mettere brevemente in rilievo: il dissenso neutralizzato dalla semplificazione e dalla logica dicotomica amico/nemico e il suicidio dei diritti umani. Prima è venuta la guerra fino all’ultimo ucraino, nel contesto di uno scontro manicheo fra democrazia e autocrazia; quindi, il conflitto fra la supposta democrazia (Israele) e la barbarie : il 16 ottobre 2023, Netanyau scrive, in un post su X che «questa è una lotta tra i figli della luce e i figli delle tenebre, tra l’umanità e la legge della giungla». Il nemico non solo non è democratico, è disumano; ricorderete tutti il riferimento agli “animali umani”: il 9 ottobre 2023, il Ministro della Difesa, Yoav Gallant, ha affermato, per giustificare l’assedio totale («non ci sarà elettricità, né cibo, né carburante, tutto è chiuso…»): «stiamo combattendo contro animali umani e ci comportiamo di conseguenza». Il nemico si può cancellare, è da cancellare. Il bene e il male, l’umano e l’inumano, la democrazia e l’autocrazia: dicotomie che espellono, tacciando di tradimento, delegittimandole, le opinioni non allineate, chiunque intenda riflettere con un approccio storico e non artificialmente semplificato (quanto accade a Gaza evidentemente non inizia il 7 ottobre 2023 ma data almeno 75 anni), chiunque voglia applicare le categorie del pensiero complesso. Per tutte, ricordo la reazione scomposta e violenta che ha seguito le parole del Segretario generale delle Nazioni Unite Guterres. La complessità, la contestualizzazione, la storia richiamano parole e concetti che non si possono dire, come “Israele non è una democrazia”, dal quale siamo partiti, ma anche violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, occupazione, discriminazione, espulsioni collettive, apartheid, progetto coloniale, genocidio, così come diritto all’autodeterminazione dei popoli, che non può essere a senso unico, e diritto di resistenza (all’occupazione come alla sistematica violazione dei diritti umani).
In questione sono l’informazione plurale, con la criminalizzazione delle voci critiche (la vicenda dell’attivista palestinese, Mariam Abu Daqqa, espulsa dalla Francia, per non riferirsi direttamente al numero impressionante di giornalisti uccisi); la libertà di manifestazione del pensiero, nel suo essere libertà di critica, di protesta e di dissenso (per l’ex ministra degli interni britannica Braverman sventolare la bandiera palestinese implica sostegno al terrorismo); la libertà di riunione (penso ai cortei vietati in Francia e non solo, ma anche alla negazione degli spazi nelle università). Si tratta dei fondamenti della democrazia, di una democrazia che sia effettivamente tale, plurale e conflittuale. Ancora. I diritti vengono colpiti alle radici: la disumanizzazione che uccide a Gaza si riflette come in uno specchio sui diritti, che si infrangono, per tutti. Quando i diritti non sono più riconosciuti all’umano, naufragano per tutti; la perdita del senso di umanità dissolve i diritti, privandoli della loro essenza.
Non reagire, non esigere il cessate il fuoco (per tacere del supporto militare), comporta una complicità dei paesi europei, degli Stati Uniti e di quanti non agiscono, nel genocidio, come nell’annientamento dell’idea di diritti umani, oltre che della credibilità del diritto internazionale e dell’idea delle Nazioni Unite, che si perdono nel loro utilizzo occidentalocentrico, coloniale e selettivo. Anche per questo, quanto accade a Gaza si riverbera sulla democrazia, svuotandone la sostanza. Spezzare un’informazione arruolata e chiedere un immediato cessate il fuoco e la fine di violente politiche coloniali è anche un passo per salvaguardare la democrazia dalla deriva autoritaria.
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