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Julian Assange paga ancora per aver denunciato il disastro dell’Afghanistan

È impressionante rileggere oggi i 77mila file sull’Afghanistan che nel 2010 Julian Assange aveva pubblicato, perché dentro quei rapporti scritti dagli stessi soldati americani che combattevano sul campo, c’era – con 11 anni di anticipo – il racconto di una guerra fallita: l’offensiva talebana veniva raccontata in dettaglio anno dopo anno, mentre gli stessi soldati parlavano delle truppe governative afghane come di un “esercito di carta”, mal pagato e armato.

Il conflitto innescato dalla Nato, poi, era costellato di centinaia uccisioni indiscriminate, compiute da speciali unità come l’americana Task Force 373, di cui non si conosceva neanche l’esistenza. Al governo e nelle più alte cariche dello stato afghano c’erano corrotti che drenavano i fondi degli internazionali, una “cleptocrazia” che nei rapporti americani veniva accusata persino di narcotraffico: negli anni dell’occupazione militare della Nato la produzione di oppio afghano è esplosa. Quando Donald Trump a Doha firma, nel 2020, l’accordo con cui consegna l’Afghanistan ai Talebani, l’operazione dell’Isaf era già fallita da anni. Ma è l’intera “Guerra al terrore”, scatenata dagli americani dopo l’attacco alle Torri gemelle, nel mirino di Assange. In quel 2010 la piattaforma di WikiLeaks rende disponibile alle più importanti testate giornalistiche una enorme mole di materiale militare classificato, che l’ex analista dell’esercito di stanza a Bagdad Bradley Manning aveva trafugato: il video “Collateral Murder”, che mostrava il massacro di civili inermi compiuti da due elicotteri Apache a Baghdad nel luglio del 2007, tra cui due cronisti della Reuters; 400mila rapporti secretati dei militari americani sul campo che raccontavano l’incubo in cui era piombato l’Iraq, le torture, le prigioni segrete, lo scoppio della guerra civile tra sunniti e sciiti, un inferno costato all’Iraq 200mila morti di civili e la distruzione di una nazione; lo scandalo della prigione di Guantanamo, di cui abbiamo avuto piena consapevolezza solo dopo che Assange ha pubblicato la lista intera dei quasi 800 sospetti terroristi che vi erano finiti dentro: la maggioranza degli internati erano dei poveracci, vittime di delazioni e della tortura usata egli interrogatori. Duecentosessantamila rapporti secretati che provenivano dalle ambasciate americane dove si leggeva come gli americani intervenivano sulle politiche interne dei paesi del mondo per piegarli alle loro esigenze e come è successo in Italia.

Una miniera di informazioni e notizie che facevano capire come la “Guerra al terrore” si era rivoltata contro di noi, consegnando ai servizi segreti in nome della sicurezza nazionale un potere enorme, extra legem, e fuori dal controllo democratico. Lo stesso potere che ha giurato vendetta contro Assange. Come vi racconteremo questa sera a PresaDiretta, sono 11 anni che il giornalista australiano non è più un uomo libero. Prima la magistratura svedese che lo accusa di stupro e che ne vuole l’estradizione, un’inchiesta che per 7 anni è rimasta alle fasi preliminari, e oggi, grazie al lavoro della giornalista Stefania Maurizi, sappiamo che furono gli inglesi a dire agli svedesi, testuali parole, “non vi azzardate a chiudere il caso!”.

Poi quasi 7 anni dentro l’ambasciata dell’Ecuador a Londra e questa sera vi porteremo le prove di come sia stato illegalmente spiato per anni dalla società che doveva occuparsi della sicurezza dell’ambasciata: tutti i suoi incontri venivano filmati, persino quelli con i suoi avvocati e tutto finiva negli Stati Uniti. E quando Nils Melzer, il Relatore speciale contro la tortura dell’Onu, decide nel 2019 di aprire una inchiesta sul caso Assange, arrivano le pressioni Usa sull’Ecuador perché la protezione venga sospesa e Scotland Yard lo arresta dentro l’ambasciata e lo trascina in un carcere di massima sicurezza dove è detenuto da quasi due anni e mezzo, in attesa che si decida se consegnarlo agli Stati Uniti che lo vogliono processare con una legge contro lo spionaggio del 1917, mai utilizzata prima contro un giornalista e con una possibile pena di 175 anni di carcere.

“Se mi consegneranno agli Stati Uniti farò in modo di non arrivarci vivo”, ha detto Assange a Nils Melzer. E l’Europa? Assente. Mentre tutte le associazioni internazionali che si occupano di libertà e diritti hanno chiesto alla Gran Bretagna la scarcerazione di Assange e agli Stati Uniti di rinunciare a processarlo, nessun leader europeo ha mai ufficialmente detto una sola parola, talmente grande è il potere di interdizione esercitato dagli Stati Uniti sul caso Assange. Ma con quale faccia diamo lezione di democrazia nel mondo intero, se accettiamo che da noi un giornalista ed editore rimanga per anni in carcere in detenzione preventiva e venga processato solo perché ha fatto il suo lavoro?

Riccardo Iacona

da il Domani

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In un ottima inchiesta su Micromega, Stefania Maurizi ricostruisce i files  sulla guerra in Afghanistan che Wikileaks e Julian Assange hanno reso noti negli scorsi anni, strappando il velo delle menzogne sull’intervento militare Usa e Nato in quel paese. Le autorità Usa e britanniche non glielo hanno mai perdonato e continuano ad accanirsi e vendicarsi di Julian Assange tenendolo in carcere a Londra in attesa dell’estradizione negli Stati Uniti.

Conoscere e far conoscere gli Afghan War Logs e liberare Julian Assange è un atto di verità e giustizia contro gli orrori della cosiddetta “guerra al terrorismo” condotto da Usa e Nato.

Qui di seguito l’articolo di Stefania Maurizi su Micromega

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Il 25 luglio 2010 WikiLeaks pubblicò gli «Afghan War Logs», che mandarono il Pentagono su tutte le furie. I file erano 76.910 report segreti sulla guerra in Afghanistan compilati dai soldati americani sul campo tra il gennaio del 2004 e il dicembre del 2009. Aprivano uno squarcio senza precedenti in quel conflitto lontano e ignorato. […] Pochi mesi prima della pubblicazione di questi documenti, l’organizzazione di Julian Assange aveva pubblicato un memorandum riservato [1] della Cia, datato 11 marzo 2010. Non aveva fatto grande scalpore, eppure era importante perché spiegava le strategie da usare per scongiurare il rischio che l’opinione pubblica francese e tedesca si rivoltasse contro la guerra, chiedendo il ritiro dei loro militari. In quel periodo i due paesi europei avevano i contingenti più grandi in Afghanistan, dopo quelli di Stati Uniti e Inghilterra: un ritiro delle loro truppe sarebbe stato a dir poco problematico per il Pentagono. Uno dei fattori su cui la Cia faceva più affidamento era proprio l’indifferenza che questa guerra generava nella pubblica opinione occidentale: se ne parlava rarissimamente nei giornali e si vedeva ancora meno in televisione, quindi stragi e atrocità non generavano alcuna reazione nell’opinione pubblica occidentale. «Lo scarso rilievo della missione in Afghanistan» scriveva infatti la Cia nel documento rivelato da WikiLeaks «ha permesso ai leader di Francia e Germania di ignorare l’opposizione della gente e di continuare ad aumentare costantemente il numero delle loro truppe nella missione Isaf.»

Il file consigliava, comunque, di non sperare solo nell’apatia, ma di preparare possibili strategie di persuasione nel caso in cui l’umore dell’opinione pubblica fosse cambiato. Gli argomenti propagandistici da usare con i cittadini francesi erano il possibile ritorno dei talebani al potere e gli effetti che questo avrebbe avuto sulla vita delle donne afghane: «La prospettiva che i talebani riportino indietro [il paese], dopo i progressi ottenuti faticosamente in tema di educazione delle donne, potrebbe provocare l’indignazione e diventare ragione di protesta per un’opinione pubblica largamente laica come quella francese».

Mentre la carta da giocare con i tedeschi era quella dei rifugiati: «Messaggi che illustrino come una sconfitta in Afghanistan possa aumentare il rischio che la Germania sia esposta al terrorismo, al traffico di droga e all’arrivo dei rifugiati potrebbero aiutare a rendere la guerra più importante per chi è scettico verso di essa».
Per quanto rilevante, questo documento non aveva avuto un grande impatto, quando però il 25 luglio 2010 WikiLeaks rivelò gli Afghan War Logs, i documenti furono rilanciati in tutto il mondo e la reazione del Pentagono fu durissima.

Una straordinaria finestra sul conflitto

I 76.910 documenti segreti descrivevano la guerra come mai prima era stato possibile. Si trattava di brevi relazioni compilate dai soldati statunitensi che combattevano sul campo. Contenevano informazioni fattuali, incluse latitudine e longitudine dei luoghi in cui erano avvenuti scontri, incidenti e stragi di civili, il tutto descritto con data e ora esatta e in un gergo militare stretto.

I file registravano in tempo reale gli eventi significativi (SigActs, significant activities) dal gennaio del 2004 al dicembre del 2009, ovvero negli anni che andavano dal secondo mandato presidenziale di George W. Bush fino al primo anno dell’amministrazione di Barack Obama. Ogni unità e avamposto presente sul teatro di guerra doveva relazionare in modo estremamente sintetico su: attacchi subiti, scontri, morti, feriti, rapiti, prigionieri, fuoco amico, messaggi di allerta e informazioni sugli Improvised explosive devices (Ied), gli ordigni improvvisati piazzati lungo le strade e azionati a distanza che facevano strage di civili e soldati.

Ognuno dei report era come un’istantanea che fissava in un preciso momento e in un determinato luogo geografico il conflitto in Afghanistan. Mettendo insieme tutte le istantanee, soldati e intelligence potevano avere una visione completa della guerra, così come si sviluppava sul campo azione dopo azione, in modo da poter fare piani operativi e analisi di intelligence.

I rapporti erano compilati dai soldati dell’esercito americano, lo Us Army, quindi erano il loro racconto del conflitto. Non contenevano informazioni di eventi top secret, perché si trattava di documenti classificati al livello secret.

I documenti lasciavano emergere per la prima volta centinaia di vittime civili mai computate: il quotidiano inglese «The Guardian» aveva contato almeno 195 morti e 174 feriti, ma aveva fatto notare che il dato era sicuramente sottostimato. I file aprivano anche uno squarcio sulla guerra segreta che si combatteva con unità speciali mai conosciute prima di allora, come la Task Force 373, e con i droni, gli aerei senza pilota che, comandati dai soldati americani che si trovavano in una base del Nevada, uccidevano in posti remoti come l’Afghanistan.

La Task Force 373 era un’unità d’élite che prendeva ordini direttamente dal Pentagono e aveva come missione quella di catturare o uccidere combattenti di alto livello di al Qaeda e dei talebani. La decisione di chi catturare e chi ammazzare in modo stragiudiziale, ovvero senza alcun processo giudiziario, appariva completamente affidata alla task force [2].

Il valore degli Afghan War Logs rivelati da WikiLeaks stava proprio nel far emergere i fatti che la macchina della propaganda del Pentagono nascondeva e le oscure operazioni della Task Force 373 erano uno degli esempi. La brutalità con cui queste forze speciali agivano nella notte aveva portato a sterminare forze afghane alleate, donne e bambini. Questo tipo di attacchi contribuivano a creare un forte risentimento nelle popolazioni locali contro le truppe americane e della coalizione.

Ma nelle dichiarazioni ufficiali dei militari il nome della Task Force 373 non compariva mai e, come il «Guardian» aveva ricostruito, (3) venivano nascoste informazioni per coprire errori e stragi di innocenti. Durante una delle loro operazioni, per esempio, i soldati della Task Force 373 avevano ucciso sette bambini. La notizia della loro morte era stata data in un comunicato stampa della coalizione, ma senza spiegare il contesto in cui era avvenuta. Nessuno aveva raccontato che quelle forze speciali, spesso, non avevano letteralmente idea di chi ammazzavano, come in questo caso: avevano sparato cinque missili contro una scuola religiosa, una madrasa, convinti di colpire un leader di al Qaeda, Abu Laith al-Libi. In un altro, invece, avevano sterminato sette poliziotti afghani e ne avevano feriti quattro, convinti di colpire gli uomini di un comandante talebano.

I file, però, non rivelavano solo i massacri commessi dalle truppe americane, ma anche dai talebani, in modo particolare quelli causati dai loro atroci attacchi con gli Ied. Secondo i dati riportati dal «Guardian», dal 2004 al 2009 il database degli Afghan War Logs permetteva di ricostruire come gli Ied avessero causato oltre duemila vittime civili e come il 2009 fosse stato un anno particolarmente terribile, con cento attacchi in appena tre giorni. [4] Il quotidiano londinese evidenziava come gli Ied fossero l’arma preferita dai talebani, quella con cui cercavano di contrastare la schiacciante superiorità tecnologica delle truppe occidentali.

L’intensificarsi degli attacchi contro truppe americane e della coalizione internazionale era registrato nei file a partire dalla fine del 2005. Scavando nella documentazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva ricostruito che questa escalation era anche dovuta al fatto che i talebani e i signori della guerra, come il famigerato Gulbuddin Hekmatyar, minacciavano o anche pagavano cifre importanti, che potevano arrivare a diecimila dollari, [5] affinché la guerriglia locale portasse avanti azioni contro i soldati.

I file rivelavano anche un’altra informazione mai emersa prima pubblicamente: dalle ricerche del «New York Times» nel database risultava che i talebani avevano ottenuto missili terraaria trasportabili e a ricerca di calore del tutto simili agli Stinger che, venticinque anni prima, la Cia aveva fornito ai mujaheddin.
Si trattava di un contrappasso: la stessa tipologia di armi con cui i guerriglieri afghani avevano inflitto perdite devastanti ai sovietici, costringendoli alla ritirata, era finita nelle mani dei nemici degli americani in Afghanistan. [6]

Quanto ai droni, presentati spesso come un’arma infallibile a rischio zero – visto che, come in un videogame, venivano pilotati da soldati che operavano in completa sicurezza da una base negli Stati Uniti –, non sempre erano così infallibili. I file, infatti, documentavano situazioni, ricostruite dal settimanale «Der Spiegel», in cui le truppe avevano dovuto fare rischiose operazioni di recupero, perché quei velivoli senza pilota si erano schiantati al suolo e le informazioni segrete contenute nei loro computer potevano finire in mano al nemico. Non sempre, infatti, era possibile cancellare da remoto i dati presenti nei sistemi informatici dei droni [7] e, quando l’operazione falliva, i soldati sul campo in Afghanistan dovevano imbarcarsi in pericolose missioni.

A oggi gli Afghan War Logs rimangono l’unica fonte pubblica che permette di ricostruire attacchi, morti, assassini stragiudiziali avvenuti in Afghanistan tra il 2004 e il 2009, considerata la segretezza di queste operazioni militari. Sono anche una delle pochissime fonti che abbiamo a disposizione per cercare di ricostruire il numero di civili uccisi prima del 2007, di cui nessuno pare avere dati affidabili, neppure la missione delle Nazioni unite in Afghanistan, l’Unama, che compila queste statistiche. [8]

Mentre scrivo nessuno sa che tipo di futuro attende l’Afghanistan. In particolare per quanto riguarda le donne, nel caso in cui i talebani tornassero al potere, anche perché nel frattempo nel paese è arrivato anche l’Isis. L’unica certezza è che non esistono dati affidabili su quanti civili siano stati ammazzati dall’ottobre del 2001 al 2006, mentre si sa che solo nel periodo dal 2009 al 2019 sono stati uccisi almeno 35.518 civili e ne sono stati feriti 66.546. Questo significa oltre tremila morti innocenti all’anno: è come se dal gennaio del 2009 al dicembre del 2019 in Afghanistan ci fosse stato ogni anno un 11 settembre, [9] eppure questa guerra è sempre rimasta fuori dallo schermo radar dell’opinione pubblica occidentale. E senza il coraggio di Chelsea Manning e di WikiLeaks, il segreto di Stato e la macchina della propaganda bellica non ci avrebbero mai permesso di acquisire le informazioni fattuali che abbiamo scoperto grazie agli Afghan War Logs. L’allora direttore del «New York Times», Bill Keller, li aveva definiti [10]  «una straordinaria finestra su quella guerra».

Subito dopo la loro pubblicazione, il settimanale tedesco «Der Spiegel» aveva intervistato Julian Assange, [11] chiedendogli: «Lei avrebbe potuto creare un’azienda nella Silicon Valley e vivere a Palo Alto in una casa con piscina. Perché ha invece deciso di dedicarsi alla creazione di WikiLeaks?».
Assange aveva risposto: «Si vive solo una volta e quindi abbiamo il dovere di far un buon uso del tempo a disposizione e di impiegarlo per compiere qualcosa di significativo e soddisfacente. Questo è qualcosa che io considero significativo e soddisfacente. È la mia natura: mi piace creare sistemi su larga scala, mi piace aiutare le persone vulnerabili e mi piace fare a pezzi i bastardi. E quindi è un lavoro che mi fa sentire bene».

Ma il Pentagono non la vedeva allo stesso modo e reagì con furia alla rivelazione degli Afghan War Logs. L’allora segretario alla Difesa Robert Gates promise subito «un’inchiesta aggressiva», mentre l’ammiraglio Mike Mullen aveva subito dichiarato: «Assange può dire quello che vuole sul bene che lui e la sua fonte credono di fare, ma la verità è che potrebbero avere già le mani sporche del sangue di qualche giovane soldato o di una famiglia afghana».
Un’accusa questa che sarebbe stata ripetuta acriticamente dai media per oltre un decennio, danneggiando seriamente Wiki-Leaks. Ma era vera?

Le mani sporche di sangue

Il veleno che il Pentagono aveva iniettato nel dibattito pubblico su WikiLeaks non tardò a dare i suoi frutti. Pochi giorni dopo la pubblicazione dei documenti segreti sulla guerra in Afghanistan, l’idea che Julian Assange e la sua organizzazione fossero dei pericolosi irresponsabili iniziò a circolare nell’opinione pubblica e nelle redazioni dei giornali. Le parole dell’ammiraglio Mike Mullen sulle «mani sporche di sangue» si riferivano al fatto che, secondo il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, la diffusione dei 76.910 documenti segreti esponeva le truppe americane, quelle della coalizione internazionale e i collaboratori afghani – che fornivano loro informazioni e assistenza sul campo – al rischio di attentati da parte dei talebani, perché alcuni di quei file contenevano nomi o dettagli che permettevano di identificarli.

Era chiaro che il Pentagono avesse un grandissimo interesse nel delegittimare WikiLeaks a causa della pubblicazione di quei file e di altri precedenti, come il video Collateral Murder. Gli Afghan War Logs costituivano una vera e propria miniera di informazioni: la stampa e l’opinione pubblica mondiale potevano confrontare le dichiarazioni dei vari leader militari e governi, che avevano inviato truppe in Afghanistan, con i dati contenuti nei file e scoprire le menzogne ufficiali, le omissioni e le manipolazioni.

Quei documenti permettevano per la prima volta di diradare la nebbia della guerra, mentre il conflitto in Afghanistan era in corso e non venti o trent’anni dopo, quando ormai i fatti potevano interessare giusto agli storici di professione.
Era dal 1971, quando Daniel Ellsberg fece uscire i Pentagon Papers – settemila documenti top secret sul Vietnam –, che l’opinione pubblica non aveva più avuto l’opportunità di accedere a migliaia di informazioni riservate su una guerra mentre questa era in corso. Di fronte alla dichiarazione dell’ammiraglio Mike Mullen era d’obbligo una notevole dose di sano scetticismo, perché era ovvio che il Pentagono fosse furioso con Assange. Eppure quelle parole fecero subito breccia nell’opinione pubblica e nei media.

WikiLeaks non aveva pubblicato le rivelazioni sull’Afghanistan da sola, aveva stabilito una collaborazione con tre grandi giornali internazionali: il «New York Times», il quotidiano inglese «The Guardian» e il settimanale tedesco «Der Spiegel». Come già fatto con me nel caso del file audio sulla crisi dei rifiuti a Napoli, Assange e il suo staff avevano scelto di collaborare con i reporter di quelle tre grandi redazioni per diverse settimane, durante le quali i giornalisti avevano avuto accesso esclusivo ai documenti segreti in modo da poterne verificare l’autenticità e indagare sulle rivelazioni più importanti che ne emergevano.

Finito questo lavoro, il «New York Times», il «Guardian» e «Der Spiegel» avevano pubblicato le loro inchieste basate sugli Afghan War Logs e WikiLeaks aveva reso pubblici sul suo sito web i 76.910 file in modo che, dopo un periodo di accesso garantito solo a quei tre media, chiunque potesse leggerli.

Assange e il suo staff chiamavano questo tipo di collaborazione media partnership e la strategia aveva funzionato: tutto il mondo aveva seguito quelle rivelazioni, che avevano avuto un grande impatto internazionale ed erano state riprese da giornali, televisioni e media di ogni angolo del pianeta. Ormai WikiLeaks era un fenomeno globale.

Due cose mi colpivano, in particolare, di questa organizzazione: innanzitutto la sua scelta di democratizzare l’accesso alla conoscenza e alle informazioni, pubblicando i documenti per tutti, affinché qualunque cittadino, giornalista, studioso, politico o attivista del mondo potesse leggerli, fare ricerche mirate e indagare in modo del tutto indipendente sulla guerra in Afghanistan, senza doversi affidare esclusivamente a quello che i giornali avevano scritto.

Trovavo questa scelta rivoluzionaria, perché permetteva a qualunque lettore di avere accesso alle fonti primarie delle informazioni pubblicate dai media, cercare i fatti a cui era più interessato, utilizzare i documenti per chiedere giustizia in tribunale e anche verificare come i giornalisti li avevano riportati nei loro articoli: ne avevano scritto fedelmente oppure li avevano distorti, esagerati o censurati? Questo processo di democratizzazione dava potere ai lettori comuni: non erano solo recipienti passivi di quello che riportavano giornali, televisioni, radio, ma per la prima volta avevano accesso diretto alle fonti primarie e questo diminuiva l’asimmetria tra chi aveva questo privilegio, come i reporter, e chi no.

Oltre alla democratizzazione dell’informazione, mi colpiva ancora una volta il coraggio di Julian Assange e di tutti i giornalisti di WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, infatti, non si era limitato ad accusarli di avere «le mani sporche di sangue», ma aveva anche intimato loro di rimuovere completamente gli Afghan War Logs dal sito e di restituire 15.000 file sulla guerra in Afghanistan che non avevano ancora reso pubblici. «L’unica soluzione accettabile» aveva dichiarato pubblicamente il portavoce del Pentagono, Geoff Morrell, «è che WikiLeaks restituisca immediatamente tutte le versioni di quei documenti al governo degli Stati Uniti e che cancelli una volta per tutte i file dal proprio sito web e dai suoi computer». Poi aveva aggiunto: «Se fare la cosa giusta per loro di WikiLeaks non va bene, allora vedremo che alternative abbiamo di costringerli a fare la cosa giusta».

Era un’intimidazione da non sottovalutare: con la guerra al terrorismo, gli Stati Uniti avevano dimostrato che non si sarebbero fermati davanti a nulla e avrebbero usato ogni tipo di mezzo legale o illegale, dalla tortura agli assassini con i droni, contro chi percepivano come una minaccia alla loro sicurezza. Allo stesso tempo era da escludere che avrebbero usato mezzi così sfacciatamente brutali per neutralizzare Assange e WikiLeaks, che era un’organizzazione giornalistica del mondo occidentale e ormai molto visibile. Il documento del 2008 del controspionaggio americano, l’Army Counterintelligence Center (Acic) – che WikiLeaks stessa aveva rivelato –, aveva fatto emergere come le autorità americane puntassero a neutralizzarli colpendo le fonti che passavano loro documenti segreti, piuttosto che colpendoli direttamente.

In ogni caso quelle minacce andavano prese molto sul serio: suonavano grottesche a chiunque avesse un’idea della sproporzione tra la potenza e le risorse del Pentagono e quelle di una piccola organizzazione come WikiLeaks. Il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti avrebbe potuto schiacciarla come un moscerino in qualunque momento. Ma Assange e il suo staff non si piegarono a quell’intimidazione. E per questo avrebbero pagato un prezzo molto alto.

NOTE

  1. Il documento riservato della Cia è accessibile a chiunque sul sito di WikiLeaks al link: https://wikileaks.org/wiki/CIA_report_into_shoring_up_Afghan_war_support_in_Western_Europe,_11_Mar_2010.
  2. Nick Davis, Afghanistan War Logs: Task Force 373 – special forces hunting top Taliban, in «The Guardian», 25 luglio 2010.
  3. Ibid.
  4. Nick Davies e David Leigh, Afghanistan War Logs: Massive leaks of secret files exposes the truth of occupation, in «The Guardian», 25 luglio 2010; Declan Walsh, Paul Simon e Paul Scruton, WikiLeaks Afghanistan files: every Ied attack with coordinates, in «The Guardian», 26 luglio 2010.
  5. Explosive leaks provide image of war from those fighting it, in «Der Spiegel», 25 luglio 2010.
  6. C.J. Chivers, C. Gall, A.W. Lehren, M. Mazzetti, J. Perlez, E. Schmitt et al., View is bleaker than official portrayal of war in Afghanistan, in «The New York Times», 25 luglio 2010.
  7. Explosive leaks provide image of war from those fighting it, cit.
  8. Il fatto che per i civili uccisi in Afghanistan dal 2001 al 2006 non esistano dati certi mi è stato dichiarato dalla missione delle Nazioni unite in Afghanistan, Unama, attraverso una comunicazione personale del 18 novembre 2020 di Liam McDowall, Director of Strategic Communications dell’Unama.
  9. I dati sui civili uccisi e feriti provengono dal report della missione delle Nazioni unite in Afghanistan, Unama, dal titolo: Afghanistan protection of civilian in armed conflicts, 2019, pubblicato da Unama nel febbraio del 2020 e consultabile al link: https://unama.unmissions.org/sites/default/files/afghanistan_protection_of_civilians_annual_report_2019.pdf.
  10. The War Logs articles, in «The New York Times», 25 luglio 2010.
  11. John Goetz e Marcel Rosenbach, I enjoy crushing bastards, in «Der Spiegel», 26 luglio 2010.

*da Micromega.net