Non solo in Turchia, non solo Ankara. Anche in Iran la repressione – di Teheran- nei confronti della popolazione curda prosegue nell’indifferenza generale
Rispetto al meritato riconoscimento internazionale di cui hanno goduto – se pur momentaneamente – i combattenti curdi del Rojava impegnati contro l’Isis, i loro fratelli del Rojhilat (il Kurdistan sotto amministrazione iraniana) appaiono alquanto trascurati dai media.
Pur trattandosi di una comunità di oltre 10 milioni di persone e nonostante sia sottoposta a una dura repressione da parte di Teheran. Molto alto, in percentuale, soprattutto il numero delle impiccagioni (anche di donne) di prigionieri curdi. Sia militanti che “comuni”.
Ragion per cui alcuni osservatori hanno evocato un possibile “genocidio a bassa intensità”.
Poco si conosce inoltre della loro lotta per l’autodeterminazione, analoga per molti aspetti a quella condotta dalle YPG nel Nord della Siria e ugualmente nella prospettiva del Confederalismo democratico (ossia non per la creazione di un ennesimo Stato, ma per l’autonomia e l’autogoverno).
Anche in questa regione curda la popolazione si caratterizza per una grande varietà dal punto di vista etnico, linguistico e religioso. Accanto ai Curdi qui convivono Arabi, Assiri, Persiani, Azeri. Sia sunniti che sciiti. Da segnalare la presenza di numerose organizzazioni politiche curde, generalmente di sinistra.
Negli ultimi due anni ad aggravare la situazione dei Curdi del Rojhilat, dopo la breve parentesi dialogante di Obama, il ripristino di dure e ingiuste sanzioni contro l’Iran da parte degli Stati Uniti.
Stando alle dichiarazioni del Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) anche l’incremento di incidenti (scontri, rappresaglie, uccisioni di “spalloni” sulla frontiera…) sarebbe stato in qualche misura un riflesso inevitabile dell’inasprimento delle sanzioni. Un inasprimento che avrebbe contribuito ad allargare la crisi economica e sociale iraniana (vedi le proteste, gli scioperi per i salari non pagati per mesi…).
Lo stillicidio di vittime curde era ripreso con particolare intensità nel 2018 (anche se le cause profonde, ovviamente, risalgono al periodo precedente le rinnovate sanzioni).
In agosto venivano abbattuti in circostanze mai chiarite quattro ecologisti curdi mentre cercavano di spegnere un incendio nella zona di Marivan. Incendio – particolare non secondario – appiccato dai Pasdaran (Guardiani della rivoluzione) che avevano bombardato la postazione di una milizia curda. A parte l’evidente similitudine con gli incendi delle foreste operati dai militari turchi in Bakur (il Kurdistan sotto amministrazione turca)*, non si può escludere che l’incidente venisse creato ad arte e che l’obiettivo dei miliziani iraniani fosse costituito proprio dagli ecologisti curdi.
Pochi giorni dopo, ai primi di settembre 2018, a Sine venivano uccisi tre esponenti di KODAR (Società libera e democratica del Kurdistan dell’Est). Quasi contemporaneamente altri tre prigionieri politici curdi venivano impiccati in un carcere nei pressi di Teheran. Con un processo che sarebbe eufemistico definire sommario (una sola udienza di un’ora). Arrestati dopo un attacco condotto dai Guardiani della rivoluzione contro il Komala (“Società”, organizzazione curda nata nel 1968, in origine comunista, ora socialdemocratica), azione in cui avevano perso la vita alcuni miliziani di Teheran, i tre curdi erano stati accusati senza prove di omicidio. Ramin Hossein-Panahi, in particolare, aveva subito un duro trattamento durante la detenzione (200 giorni di isolamento durante i quali venne sottoposto a torture per estorcergli una confessione).
Non soddisfatto, sempre nel settembre 2018, il regime iraniano faceva bombardare con dei missili la sede del PDK (Partito democratico del Kurdistan, iracheno) mentre era in corso una riunione.
Almeno cinque membri del Comitato centrale perdevano la vita nell’attacco del tutto ingiustificato.
Il contemporaneo arresto di altri esponenti curdi aveva provocato manifestazioni e scioperi di protesta.
Emblematico il gesto disperato della madre di Hedayat Abdullah Pour (2 luglio 2018) che si era data fuoco per protestare contro la condanna a morte inflitta al figlio, accusato di sostenere il Partito della vita libera in Kurdistan ( Partiya Jiyana Azad a Kurdistan, il PJAK considerato legato al PKK).
Da allora (vedi gli articoli più recenti anche su QV) gli eventi per i Curdi non hanno fatto altro che peggiorare. Tra le vittime curde delle “forche della vergogna” anche numerose donne.
Il 13 novembre 2018 Sharareh Eliasi veniva impiccata nel carcere di Sanandaj, così come poco prima era toccato a Zeinab Sekaanvand.
Stando ai dati più aggiornati, le condanne a morte eseguite nel 2018 nei confronti dei Curdi (ricordo: solo il 10% della popolazione iraniana) costituivano il 28% di quelle complessivamente avvenute in Iran. Praticamente il triplo rispetto ad altre comunità. Un tristissimo record che in futuro potrebbe ancora peggiorare.
Le cose infatti non sono cambiate l’anno dopo.
Ancora condanne a morte contro persone curde sono state eseguite nel 2019.
Tra le altre, il 26 settembre 2019 nella prigione di Sanandaj (Sine) è stata impiccata, dopo aver trascorso cinque anni nel braccio della morte, Leyla Zarafshan. La donna era stata condannata in quanto ritenuta responsabile della morte del marito. Sempre in Iran, altri quattro detenuti curdi, in carcere per reati comuni, venivano impiccati il 25 settembre 2019 a Urmia (Azerbajan occidentale).
Nel maggio 2020 veniva impiccato Hedayat Abdollahpour, arrestato nel 2016 e accusato di aver fornito assistenza a esponenti del PDKI, il Partito democratico del Kurdistan d’Iran. In giugno è stato condannato alla pena capitale, per quello che ha tutta l’aria di uno scambio di persona, il militante curdo Kamal Hassan Ramezan Soulo.
Verso la metà di luglio 2020, in una sola settimana, il cappio del boia si è stretto al collo di altri sei curdi iraniani.
In base alle pur scarse informazioni, è stato confermato che uno dei prigionieri, Kamil Qadri Eqdem (rinchiuso nel carcere di Nexede), veniva impiccato il mattino del 22 luglio.
Per Hengaw l’esecuzione di Kamil sarebbe appunto stata la sesta in una sola settimana. L’organizzazione di difesa dei diritti umani del Rojhilat ha anche riferito come davanti al carcere di Nexede si sia svolta una manifestazione di protesta organizzata da militanti dei diritti civici di Piransar (la località da cui proveniva il condannato). Peraltro inutilmente.
Altri prigionieri politici curdi erano stati impiccati nella prigione di Oroumieh il 14 luglio. Si trattava di Diako Rasoulzadeh e di Saber Cheikh Abdollah. Arrestati nel 2013, erano stati accusati di “guerra contro Dio”, dopo essere stati sottoposti lungamente alla tortura nella sede dei Servizi segreti di Mahabad.
Sempre secondo Hengaw, gli altri tre curdi sarebbero stati impiccati a Kirmashan.
Poco di nuovo sotto il sole comunque.
Come è noto lo stesso Khomeini, dopo la rivoluzione del 1979, non aveva perso tempo nel dichiarare la “guerra santa” contro i Curdi con l’accusa, in buona parte pretestuosa, di “separatismo”.
Ovviamente la repressione anti-curda rappresenta anche un monito, un esempio, un deterrente per qualsiasi altra forma di dissidenza.**
E le cose, non solo per i Curdi, potrebbero soltanto peggiorare nel caso di una avventata invasione statunitense (in stile Iraq) come forse piacerebbe a Trump.
Non meno privo d’incognite e oscuri presagi l’eventuale riavvicinamento tra Wahington e Teheran (ipotesi al momento improbabile, ma non si sa mai) in quanto potrebbe fornire l’occasione per un inasprimento definitivo della repressione. Turchia e Arabia Saudita stanno lì a dimostrare nei fatti quanto poco interessi alla Casa Bianca il rispetto dei diritti umani e del Diritto dei popoli da parte dei loro alleati. Almeno fintanto che gli interessi statunitensi, sia economici (petrolio) che strategici (basi militari), non vengono rimessi in discussione.
Del resto accadeva anche con Saddam quando sterminava i curdi con i gas. Impunemente (in quanto all’epoca alleato degli USA in funzione anti-iraniana).
Insomma, anche nel Rojhilat “per amici i Curdi hanno soltanto le montagne”.
E soltanto una possibilità: continuare a lottare per i loro diritti, l’autodeterminazione prima di tutto.
Gianni Sartori
* nota 1: Ricordo che proprio nel 2018, durante le operazioni militari in Bakur, in pochi mesi venivano dati alle fiamme migliaia e migliaia di ettari di foreste. Questa pratica ignobile non costituisce comunque una novità da parte dell’esercito turco. Avviata almeno dal 1925, in coincidenza con la ribellione di Sheik Said, era proseguita durante il periodo passato alla Storia come il genocidio di Dersim e il “piano di riforma orientale”. Apertamente contro-insurrezionale (come gli USA in Vietnam con i defolianti, l’agente Orange), ieri come oggi serve ad allontanare forzatamente la popolazione autoctona curda trasformandola in una massa di sfollati e profughi.
** nota 2: Come non mi stancherò di ricordare, è un record veramente poco invidiabile quello che Amnesty International attribuiva ai curdi (a quelli iraniani in particolare) per il 2018. Il 10% delle condanne a morte eseguite nel mondo (senza però calcolare quelle della Repubblica popolare di Cina sul cui numero reale – si presume un migliaio – vige il segreto di Stato) sarebbero avvenute nei confronti di questo popolo. Nominalmente “senza stato”, ma in realtà sottoposto ad almeno quattro. Nel 2018 il numero delle esecuzioni a livello planetario era sensibilmente diminuito, ma in Iran almeno 70 cittadini curdi erano stati impiccati (su un totale di 253 esecuzioni accertate) .
Stando al rapporto annuale di Amnesty International, le condanne a morte eseguite nel pianeta nel corso del 2018 sarebbero state 690 (quelle accertate), un 30% in meno rispetto al 2017 (993 esecuzioni).
Di queste, ripeto, ben 70 contro curdi di cittadinanza iraniana. Ossia il 10% del totale.