Antonio Mazzeo, insegnante e giornalista messinese, attivista del movimento No Muos e cooperatore internazionale già presente a Sarajevo e in Albania dopo la guerra nella ex Jugoslavia, è a Palermo per partecipare al convegno e al presidio organizzati per l’8 aprile dagli studenti e dai Cobas Scuola contro i PCTO (alternanza scuola-lavoro) nelle caserme siciliane e contro la guerra. Lo incontriamo alla Casa della Cooperazione, sede del CISS (Cooperazione Internazionale Sud Sud onlus) in un edificio confiscato alla mafia. Sergio Cipolla, presidente del CISS, che ha aderito alla Carovana per la Pace appena tornata da Leopoli, gli chiede innanzi tutto di narrarci non tanto la cronaca del viaggio quanto le sue percezioni politiche circa gli italiani che sono partiti e la popolazione incontrata e, in seconda battuta, le prospettive future della guerra e dell’impegno possibile. Mazzeo racconta, come un fiume in piena, fatti ma più emozioni pensieri sensazioni progetti.

Lo scopo dell’iniziativa era denunciare la guerra dai luoghi della guerra, invece di porsi come spettatori estranei che fanno il tifo contro il cattivo di turno. Nella marcia, voluta da diverse ONG e associazioni, c’erano moltissimi cattolici e moltissimi giovani, ragazzi sui vent’anni che, quasi tutti, erano già stati almeno una volta in Palestina, anche se, per la loro età, non avevano fatto l’esperienza delle manifestazioni contro i missili a Comiso né dell’intermediazione nella ex Jugoslavia, spoliticizzati forse, ma determinati nel rifiuto della guerra senza se e senza ma. C’erano monaci e monache, c’era l’arcivescovo di Bitonto che ha elaborato analisi pacate e meditate. La carovana è stata realizzata mentre i media proponevano come unica strada percorribile l’impiego delle armi. Noi abbiamo visto il paese reale, specifica Mazzeo, non intossicati dalla pseudo-informazione televisiva. Portavamo una quantità enorme di aiuti umanitari e abbiamo riportato indietro in Italia 170 profughi, soprattutto donne e bambini. Questa scelta costituisce un esempio di accoglienza dal basso, ben diversa da quella governativa che ha lucrato, per esempio sul CAR di Mineo, con la corruzione perpetrata con una istituzionalizzazione dall’alto, dalle prefetture, dell’assistenza: è un’accoglienza accompagnata, che ha offerto non solo cibo e medicine ma ascolto e sostegno psicologico, che ha messo in gioco i corpi di ciascuno e ha costretto le nostre autorità politiche a riconoscere valore a questo tipo di relazioni. Pax Christi chiede che l’intermediazione pacifica continui, come è accaduto nella ex Jugoslavia, e in effetti sono in progetto altre carovane. L’intervento in Bosnia e in Kossovo, però, veniva dopo un anno e mezzo di conflitto, ma anche di relazioni e contatti; qui invece tutto si è improvvisato dopo un mese, dunque i rapporti con partner locali non erano ancora ben costruiti. Abbiamo comunque dimostrato che si può far altro che consegnare armi.

Andare a Leopoli ha distrutto in noi molti luoghi comuni e cambiato il nostro immaginario. Siamo tornati con la consapevolezza che quella in Ucraina è una guerra guerreggiata dal 2014, ma preparata ideologicamente e politicamente dalla caduta del muro di Berlino e dalla proclamazione dell’indipendenza del Paese. Lo respiri nell’aria, perché scompaiono parole come dialogo o relazione e si sente parlare solo di vittoria.

Certo è una guerra brutale, ma non più di altre combattute di recente. Già al passaggio dalla frontiera polacca a quella ucraina, ci siamo imbattuti in tre manifesti: il primo raffigurava una donna bellissima, vestita dei colori della bandiera nazionale, che a braccio teso puntava una pistola dentro la bocca di un Putin atterrato, esprimeva violenza e spregio; il secondo mostrava uno scarpone militare che schiacciava la testa di Putin sempre steso a terra; il terzo, che tappezzava tutta Leopoli, anche il centro storico della capitale Unesco con lo splendido teatro, disegnava il profilo della Piazza Rossa di Mosca come fosse una nave militare che sta affondando in un mare di sangue e recava la scritta in cirillico “Russia vaffan….”, espressione a quanto pare molto più cruda e triviale di quella italiana. Ora, un solo mese di guerra non può aver prodotto un tale imbarbarimento: dev’esserci un odio pregresso. Respirando questo clima si capisce perché non ci si può sedere attorno a un tavolo per la pace: il nemico è stato non solo disumanizzato, ma anche massacrato eticamente e ideologicamente.

L’Ucraina è un paese immenso, grande quanto tutta la Mitteleuropa; con la sua indipendenza la frontiera russa è arretrata di migliaia di chilometri! Non poteva essere un passaggio indolore, specie nelle aree di confine russofone come il Donbass.

La gente vive da settimane in bunker attrezzatissimi. Quando abbiamo sentito per la prima volte le sirene che preannunciano i bombardamenti, stavamo andando ad una manifestazione; era sabato pomeriggio e i ragazzi sciamavano per le strade per raggiungere i locali di divertimento; non sono scappati, ma si sono mossi con ordine e calma, come abituati. Noi siamo stati ospitati nelle cantine del grande e lussuoso edificio del Don Orione, provviste di tutto. Tutti gli edifici hanno le cantine già predisposte per vivere “sotto”, con riscaldamento (fuori nevicava) e sistemi di sicurezza. Dunque la guerra era attesa!

L’ambasciatore italiano in Ucraina ci ha riferito che Italia e Francia sono gli unici Stati che non hanno abbandonato il Paese, mantenendo in servizio tutto il personale diplomatico, probabilmente per via degli interessi economici e militari in gioco, benché fino all’ultimo fossero in ottimi rapporti anche con la Russia, per le medesime ragioni. Sul sito del comando delle forze armate USA in Europa c’è un comunicato datato quattro mesi fa con l’elenco dei reparti russi schierati ai confini dell’Ucraina; pertanto il Pentagono sapeva almeno dall’estate del ’21, mentre l’immobilismo europeo era solo di facciata, probabilmente, quando in realtà si agiva per fomentare gli attori principali del futuro conflitto. Non si tratta allora dello scontro di Davide contro Golia, come vogliono farci credere: rinforzi si ammassano alle frontiere. Al confine tra Svezia e Norvegia si è svolta un’esercitazione NATO con 35.000 militari, 200 sottomarini e numerosi cacciabombardieri, in cui è coinvolta anche la Finlandia, mentre da poco se ne è conclusa un’altra in Grecia alla quale ha partecipato anche l’Italia.

Si tratta perciò di una guerra artatamente preparata, nella quale le responsabilità di tutto l’Occidente sono enormi, e, a differenza della guerra nella ex Jugoslavia, non è una guerra locale ma globale, i cui riverberi toccano USA, Europa, Turchia, Medio Oriente.

Non ci sono cattivi e buoni, coi quali schierarsi: qualunque logica duale è ideologica e falsa, va usato il paradigma della complessità. Le uniche vittime sono quelle che subiscono i bombardamenti, ma pure i giovani russi ventenni obbligati a combattere a migliaia di chilometri da casa in un paese di cui neppure conoscono la lingua. La guerra ha già fatto 45 mila mutilati e non riusciamo a contare caduti e dispersi. Anche noi potremmo essere tra le vittime, non solo direttamente in caso di escalation, non solo per le enormi spese militari e per l’energia che pagherà la popolazione più debole, ma anche perché ci stanno intossicando con la propaganda, distruggendo il nostro senso della realtà a vantaggio di una logica di morte. E questa intossicazione sta colpendo pure la sinistra, mentre vanno ricostituendosi le relazioni fra sinistra e cattolici accomunate dal rifiuto della violenza.

Nella narrazione della guerra c’è un’oscillazione fra due livelli, sottolinea Cipolla: la guerra intelligente e chirurgica e quella brutale, l’una combattuta a colpi di intelligence (droni, satelliti spia, etc.) l’altra con le armi. In realtà droni e cannibalismo, antenne satellitari e stupri di guerra sono complementari: la guerra integra i suoi strumenti in una logica unica di distruzione. Questa carovana ci ha fatto capire, prosegue Mazzeo, che la parola d’ordine “schierarsi con l’aggredito usando l’intelligence” è inaccettabile. Non esistono droni buoni che trasmettono informazioni e droni cattivi che puntano armi. Un generale Usa ha da poco dichiarato che negli ultimi 30 anni mai erano stati forniti tanti dati sensibili a un alleato! Ecco perché le manifestazioni No Muos a Niscemi e Sigonella dei giorni scorsi sono state così importanti: sono state le prime manifestazioni contro la guerra.

Che fare? Innanzi tutto, dobbiamo convincerci che non siamo pochi, siamo la maggioranza. E proprio la virulenza della propaganda dimostra la difficoltà di persuadere la gente che “la guerra è bella, anche se fa male” (e la canzone “Generale” di De Gregori è proprio usata dal canale La7 per la raccolta fondi per l’Ucraina!). Poi si tratta di dare scacco in tre mosse spiazzanti: controinformazione, aiuti umanitari, fermezza politica.

Se l’indottrinamento parte dalle scuole, non solo russe e ucraine, ma anche nostre, da lì dobbiamo cominciare (perciò è significativa la giornata dell’8 aprile contro l’accordo fra scuole ed esercito). La scuola italiana sta assumendo il modello del militarismo israeliano insieme al revisionismo storiografico; bisogna, al contrario, superare il paradigma binario vero/falso, adottando l’apertura alla complessità. E fare controinformazione, ovunque sia possibile, sui media, nei rapporti personali, nei luoghi pubblici, come nel presidio per la pace che l’UdiPalermo insieme a molte associazioni di donne promuove ogni domenica davanti al monumento ai caduti della Grande Guerra.

Il secondo aspetto è quello umanitario, non solo forniture di beni ma costruzione di reti e relazioni, accoglienza che metta in gioco i nostri corpi. Questo ha fatto la carovana, anche se siamo tornati delusi, confessa Mazzeo, specie quelli che erano già stati nella ex Jugoslavia: qui non abbiamo incontrato antimilitaristi, pacifisti, donne per la pace contro la guerra; le associazioni presenti erano “liquide”, politicamente inconsistenti, forse a causa della propaganda governativa, forse perché per stabilire fiducia occorrono tempo e ricerca. Un nostro limite è che ci siamo fermati a Leopoli, il campo profughi più grande d’Europa, con 250 mila sfollati, certo, ma avremmo dovuto raggiungere anche chi sta sotto le bombe, anche chi vive in Donbass e nelle zone filo-russe. Gli aiuti umanitari devono arrivare dappertutto, per trovare interlocutori da ambo le parti e avviare il dialogo. Occorre aprire corridoi umanitari a Est e a Sud con l’aiuto delle Ong. È quanto ci ha chiesto il nostro ambasciatore, il quale, tra l’altro, ritiene esistano problemi di comunicazione fra il comando centrale in Russia e l’esercito sul territorio, il che spiegherebbe le efferate e incontrollate violenze dei soldati. Certo non ci sono regole in guerra, non c’è diritto internazionale che viga né servirebbe processare il presidente russo come criminale di guerra a L’Aja, lui solo come unico responsabile, o considerarlo pazzo, quando di mezzo ci sono disequilibri geopolitici molteplici e dagli esiti imprevedibili.

Terza cosa da fare: l’assunzione di una posizione politica ferma, rifiuto della guerra e di tutte le armi e riconoscimento della responsabilità globale della guerra.

Se non si denuncia e smaschera l’intossicazione, questa guerra diverrà globale, totale, nucleare. È probabile che gli Stati stiano già ragionando sull’uso di armi nucleari “tattiche”.

Anche se nel contesto ucraino al momento è difficilissimo, la cooperazione, specie con un lavoro di lunga lena con i giovani, può favorire l’incontro tra i popoli ed elaborare una contronarrazione alternativa al pensiero unico.

da pressenza

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Opporsi attivamente alla guerra. Voci dalle carovane italiane in Ucraina

Il mondo del pacifismo e dell’attivismo dal basso si sta mobilitando per pratiche di solidarietà attiva a favore delle vittime della guerra in Ucraina con esperienze ampie e significative come la carovana “Stop the War Now” e il “pullman sospeso”

di Francesco Brusa

Mentre in Ucraina infuria il clamore delle armi e dei combattimenti, c’è chi prova – andando direttamente “sul campo” – a far sentire anche le ragioni della pace, del disarmo e dell’accoglienza. È il caso di alcune iniziative, come la carovana “Stop the War Now” o della carovana milanese contro la guerra, che hanno coinvolto nei giorni scorsi numerose realtà del terzo settore e dell’attivismo dal basso del nostro paese. In particolare, la prima ha visto la partecipazione di 153 associazioni laiche e non tra cui Un Ponte Per e Mediterranea (per un totale di 220 volontari e volontarie e 66 mezzi di trasporto impiegati) per un viaggio verso Leopoli. La seconda, su iniziativa della rete di mutualismo conflittuale contro la guerra in Ucraina, ha preso vita grazie alla volontà di spazi e realtà autogestite del capoluogo lombardo, come le Camere del Non Lavoro e Ri-Make, che si sono recate inizialmente al confine polacco e poi anch’esse verso la regione galiziana.

Due eventi importanti e, per certi versi, “eccezionali” vista la quantità di enti e persone coinvolti e vista anche la capacità di organizzarsi dopo poco tempo dallo scoppio del conflitto.

Altrettanto importanti ed eccezionali rimangono le sfide che il movimento pacifista e le realtà solidali hanno ora di fronte a sé, vista l’intensità della guerra che non sembra purtroppo destinata a scemare nel breve periodo e visto anche il dibattito acceso e polarizzato che si sta creando da noi. Abbiamo raccolto le testimonianze di alcuni fra i partecipanti.

Alfio Nicotra (Un Ponte Per)

«La carovana è stata davvero un miracolo dal punto di vista organizzativo e pratico, perché è stata messa in piedi in pochi giorni sulla spinta di diverse realtà. C’è stata dunque la capacità di mettere insieme un arco di forze del pacifismo italiano, del volontariato, della solidarietà internazionale molto articolato. Si è trattato dunque di uno schieramento laico e religioso molto ampio e non era assolutamente detto che si sarebbe formato.

Perché dunque si è concretizzata questa carovana dal mio punto di vista? Innanzitutto penso sulla scorta della spinta umanitaria, per via della necessità urgente di portare assistenza alle popolazioni colpite dal conflitto. Ma anche perché, secondo me, era diventata insopportabile la propaganda bellicista che ha preso piede nel nostro paese e che addita i pacifisti come “amici di Putin” oppure di essere “quelli che stanno in salotto”.

Al contrario noi siamo i soggetti che, a differenza di chi pontifica dai talk show con questo linguaggio militarista, siamo sempre stati sotto le bombe e dalla parte delle vittime. Come Un Ponte Per siamo stati in Iraq, in Siria, in Libano, in Kosovo… Insomma, io credo che ci fosse anche la necessità di rompere questa campagna d’attacco nei nostri confronti e verso chiunque ponesse dei dubbi sulle scelte governative come l’invio di armi (Anpi e Cgil sono state fortemente attaccate, il Papa è stato censurato, ecc.).

In questo clima, dunque, per noi era fondamentale metterci in cammino verso l’Ucraina e cercare anche interlocutori sul terreno della non-violenza. Volevamo anche testimoniare – come abbiamo sempre fatto nei nostri trent’anni di attività –- che la guerra è innanzitutto massacro di civili, anche se qualcuno sembra scoprirlo solo adesso.

Quindi sono molto contento che si sia verificato questo compattamento delle realtà pacifiste e antimilitariste italiane. Dall’altra parte contiamo che il lavoro di interlocuzione con le “controparti” ucraine (abbiamo avuto molti contatti con figure e realtà religiose, mentre più difficile è stato dialogare con sindacati e associazioni politiche) possa proseguire e porre le basi per future azioni. Non è semplice: io ho fatto della marcia dei 500 a Sarajevo, iniziativa che arrivava dopo comunque un anno di interlocuzioni e presa di contatto.

Ci accusano di volere la resa dell’Ucraina, ma non è così. Questo è un argomento che vuole solo delegittimare le nostre posizioni: noi invece sosteniamo che non esiste una soluzione militare al conflitto, e che anzi la resistenza all’aggressione vada organizzata in altro modo da quello puramente bellico, e cioè sostenendo le “forze sane” presenti nella società ucraina, nella società russa e altrove che si stanno opponendo alla guerra».

Ester Castano (Rete mutualismo conflittuale contro la guerra)

«Il nostro viaggio è iniziato il 31 marzo ed è ancora in corso. Siamo partiti con un pullman carico di beni di prima necessità e tre automobili. Una parte della carovana è già tornata, portando con sé 54 persone, in maggioranza donne e bambini, che fuggono dai bombardamenti, dall’incertezza fra la vita e la morte. Abbiamo svolto la nostra attività al confine polacco, prevalentemente a Przemysl e a Medyka.

Ci sono ovviamente situazioni disparate e disperate, dalla donna di cinquant’anni single con un figlio che combatte al fronte alla madre di sei bambini e arrivata coi quattro minori che è al momento incinta… Una parte della nostra carovana invece ha proseguito per Leopoli, consegnando medicinali che ci sono stati richiesti dai nostri interlocutori e fermandosi per girare un documentario.

La nostra iniziativa si chiama “pullman sospeso” (un nome simbolico nato sulla scorta della nostra precedente attività del tampone sospeso che voleva mettere a disposizione i controlli per Covid nelle zone popolari di Milano gratuitamente e a chiunque) e attraverso di essa abbiamo cercato di rispondere all’emergenza della guerra nell’immediato. Un modo per ribadire anche le nostre posizioni antirazziste, antinazionaliste e antifasciste.

Da qui l’idea di accogliere ogni persona, senza discriminanti soprattutto etniche: sappiamo che, per esempio, famiglie di etnia rom faticano molto a trovare chi li accoglie e li trasporta oltreconfine. Il nostro impegno a favore delle vittime, della “povera gente” (per quanto suoni retorico questo termine, ma si tratta della realtà dei fatti che si tocca con mano andando là) che subisce le conseguenze della guerra prosegue anche qui in Italia: abbiamo infatti lanciato una grossa assemblea a Ri-Make con un pranzo a cui parteciperanno le persone arrivate con noi dall’Ucraina.

Un altro risvolto positivo dell’iniziativa (in attesa di ripartire verso fine aprile e inizio maggio) è stato anche l’essere stati capaci di riunire diverse realtà di autogestione e di attivismo cittadine per un obiettivo comune».

Elena Fusar Poli (Mediterranea)

«Abbiamo realizzato due missioni che abbiamo chiamato “Safe Passage“. Un nome che nasce direttamente dal “dna” di Mediterranea, che è costituito appunto dalla volontà di salvare persone nel mar Mediterraneo, ovvero in generale di andare incontro a chi fugge da guerre e condizioni di morte per arrivare in Europa e offrire un passaggio sicuro.

Il nostro sforzo è stato quello di riadattare un tale concetto nel contesto della guerra in Ucraina. In particolare, almeno in un primo momento, ci è sembrato importante concentrarci sul tema delle discriminazioni che comunque avvengono alle frontiere con l’Ucraina: sappiamo che spesso persone non di cittadinanza ucraina subiscono diverse trattamenti, cosa che dimostra come la “Fortezza Europa” riesca a dar vita a comportamenti “abominevoli” anche nel momento in cui sta cercando di dimostrare di essere accogliente al massimo grado.

Ecco perché la nostra prima missione è stata in grado di tornare in Italia portando in salvo 177 persone di sette diverse nazionalità, risultato certamente positivo. Da qui però ci siamo resi conto che il concetto di “passaggio sicuro” era da intendersi in un senso più generale. Perché le motivazioni per cui la fuga da una guerra può essere “insicura” sono milioni, ovviamente.

In primis, c’è il problema della tratta: è stato chiaro fin da subito andando a Medyka che uno dei maggiori allarmi dati da volontari e volontarie che si occupano dell’accoglienza verte su questo rischio. Capita purtroppo che “spariscano” donne e bambini, che magari subiscono ricatti economici o peggio. Non da ultimo, fra le varie vulnerabilità di chi scappa dalla guerra, c’è anche l’orientamento sessuale e/o di genere (si è parlato molto delle persone trans bloccate alla frontiera).

La nostra seconda missione si è dunque concentrata maggiormente su uno spettro di vulnerabilità più ad ampio raggio, per così dire. Anche, fra una missione e l’altra, abbiamo notato alcune differenze dovute all’evolversi del conflitto: quando siamo stati a Leopoli nell’ambito della carovana “Stop the War Now” abbiamo avuto a che fare soprattutto con persone che arrivavano dai territori orientali e, per questo, più a diretto contatto con gli eventi bellici (tante da Mariupol). È chiaro che gli effetti della guerra si sentivano in gradi diversi: una signora, per esempio, è restata per tutto il viaggio sul nostro pullman con addosso un piumone, nonostante il riscaldamento acceso.«Sono rimasta per venti giorni in un bunker, non mi toglierò più il freddo dalle ossa», era la sua spiegazione.

Una volta tornati in Italia, inizia la seconda parte delle nostre missioni, forse la più difficile, ovvero garantire un’accoglienza degna. Le istituzioni sono allo sbando e scaricano sulle associazioni quasi tutto il peso dell’operazione, spesso anche mettendo in atto trattamenti verso rifugiati e rifugiate che appunto non sono per nulla “degni”. Come Mediterranea non smetteremo di denunciare tutto questo».

da DINAMOpress