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La Cedu: va tutelato chi è sottosposto a controlli di polizia

Le persone sottoposte a fermo di polizia o che sono semplicemente condotte o invitate a presentarsi a un posto di polizia al fine dell’identificazione o dell’interrogatorio, e, più in generale, tutte le persone sottoposte al controllo della polizia o di un’analoga autorità, si trovano in una situazione di vulnerabilità e le autorità hanno conseguentemente il dovere di proteggerle.

È un principio più volte ribadito dalla Corte europea di Strasburgo dei diritti umano ( Cedu) in diverse sentenze ( non solo per quanto riguarda l’Italia) relative ai maltrattamenti delle forze di polizia e autorità pubbliche in generale. Il caso di Arafet Arfaoui, il 31enne di origini tunisine, accusato di aver utilizzato una banconota falsa e deceduto giovedì scorso in un money transfer di Empoli durante un fermo di polizia, ha evocato altre circostanze che hanno visto perdere la vita persone fermate in condizioni simili e con metodi analoghi. Diversi casi di maltrattamento finiscono con l’archiviazione e in alcune circostanze, la stessa Corte Europea ha stigmatizzato tale azioni, perché «le autorità devono sempre compiere un serio tentativo di scoprire che cosa sia accaduto e non devono fare affidamento su conclusioni frettolose o infondate per chiudere le indagini o utilizzarle come base delle loro decisioni».

Un mese fa, la Cedu ha presentato al Parlamento la sua relazione annuale sull’esecuzione delle pronunce nei confronti dell’Italia, con riferimento al 2017. C’è un capitolo a parte dove viene ricordata la sentenza Pennino Tiziana contro l’Italia. La ricorrente fu fermata, mentre era alla guida della sua auto, dalla polizia municipale di Benevento, che aveva ritenuto, dalle condizioni di guida ( frenate improvvise e bruschi cambi di corsia), che fosse in condizioni di alterazione per assunzione di alcool. Ne seguì un alterco con gli agenti che, convinti dello stato di ebbrezza della signora, chiesero l’intervento di una pattuglia della polizia stradale per sottoporla ad un test con l’etilometro. A causa dello stato di agitazione in cui versava non fu possibile effettuare il test e pertanto la signora Pennino fu condotta presso il Comando di Polizia municipale per la redazione del verbale di contestazione per guida sotto l’influenza dell’alcool. La condanna da parte della Cedu si basa sui fatti che si svolsero da questo momento in poi, sulle cui concrete modalità di svolgimento sono state registrate due versioni opposte: l’una, prospettata dalla signora Pennino sia in sede di denuncia nazionale che di ricorso alla Corte europea, l’altra, narrata in termini concordanti dagli agenti e funzionari di Polizia municipale e stradale. La ricorrente ha sostenuto di aver subito, presso il Comando di Polizia, maltrattamenti e ferite dagli agenti presenti ( la frattura del pollice, a causa delle manette, ed ecchimosi alla coscia sinistra, ai polsi e al dorso delle mani sono state confermate dai referti medici prodotti dalla ricorrente che, dopo il rilascio, si era recata in ospedale). La versione dei fatti contenuta nel verbale redatto congiuntamente dall’ufficiale in servizio presso il Comando e dai due agenti riporta che la Pennino si trovava in un grave stato di agitazione che richiedeva un’azione di contenimento con l’uso di braccialetti contenitivi. La ricorrente sporse denuncia nei confronti degli agenti che l’avevano fermata durante la guida e di quelli presenti presso il Comando di Polizia, affermando di essere stata aggredita e picchiata, di aver subito lesioni personali, abuso d’ufficio e minacce. Fu avviata un’indagine per la quale, tuttavia, il Pm chiese l’archiviazione, confermata dal GIP. Di contro, la ricorrente fu accusata di diversi reati, fra i quali, resistenza e oltraggio a pubblico ufficiale e guida sotto l’influenza dell’alcool, nonché lesioni personali a un agente di polizia. Sottoposta a processo per tali fatti, la Pennino scelse il patteggiamento e fu condannata ad una pena lieve.

Nel ricorso alla Cedu la signora Pennino ha lamentato di essere stata maltrattata dalla polizia e che l’indagine relativa alle sue accuse non era stata esauriente né efficace. La Corte ha preliminarmente ribadito che, secondo la propria giurisprudenza, qualora una persona sia privata della libertà, o, più in generale, debba affrontare gli agenti delle forze dell’ordine, il ricorso alla forza fisica, che non sia rigorosamente imposto dal comportamento della stessa, svilisce la dignità umana e costituisce una violazione del diritto sancito dall’articolo 3 della Convenzione. Ha ribadito, inoltre, che tutte le accuse di maltrattamenti contrari all’articolo 3 devono essere corroborate da prove ‘ al di là di ogni ragionevole dubbio’, ricordando, in relazione alle prove, che, qualora i fatti siano interamente, o in gran parte, di esclusiva conoscenza delle autorità, come nel caso di persone che si trovino in custodia sotto il loro controllo, sorgono forti presunzioni fattuali in ordine alle lesioni verificatesi nel corso di tale detenzione. L’onere della prova, in questi casi, spetta quindi al Governo, che deve fornire una spiegazione soddisfacente e convincente, conducendo indagini approfondite e producendo solide prove di accertamento dei fatti. Ciò è giustificato dal fatto che le persone sottoposte a custodia si trovano in una posizione vulnerabile e le autorità hanno il dovere di proteggerle. La Corte ha ricordato anche che l’articolo 3 della Convenzione pone a carico dello Stato l’obbligo positivo di formare le proprie forze dell’ordine in modo da garantire un elevato livello di competenza nel loro comportamento.

Archiviazione frettolosa e standardizzata. Un altro aspetto che la Corte ha ritenuto problematico in ordine all’esaustività delle indagini condotte a livello interno, è la motivazione estremamente succinta della richiesta di archiviazione del procedimento formulata dal pubblico ministero, che appariva redatta in modo standardizzato, e della decisione del giudice per le indagini preliminari in tal senso. Ha rilevato, infine, che il GIP non aveva motivato il diniego opposto alla richiesta della ricorrente di ulteriori atti d’indagine. La Corte ha, quindi, concluso che vi è stata violazione dell’articolo 3, sotto il duplice profilo: procedurale, dal momento che le autorità inquirenti avevano omesso di condurre con la diligenza necessaria le indagini in relazione alle accuse formulate dalla ricorrente, sulle circostanze relative all’uso della forza da parte della polizia, durante il tempo in cui era trattenuta presso il comando di polizia e, conseguentemente, sulla necessità dell’uso di tale forza; sostanziale, poiché il Governo non aveva adempiuto al proprio onere di fornire una prova adeguata e soddisfacente, nè chiarendo le circostanze in cui si erano prodotte le lesioni subite dalla ricorrente né dimostrando che l’uso della forza era rigorosamente necessario nel caso di specie.

Casi simili sono ricorrenti. La Corte ha ricordato che sono sotto monitoraggio altre situazioni, come la sentenza Alberti c. Italia del 24 giugno ( ove l’Italia è stata condannata per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione per i maltrattamenti subiti dall’interessato durante l’arresto, eseguito dai Carabinieri), e per il quale il Segretariato ha sollecitato ulteriori informazioni, concernenti, in particolare, le eventuali procedure disciplinari avviate nei confronti dei responsabili dei trattamenti vietati dall’articolo 3 della Convenzione.

In sede di predisposizione del piano d’azione per l’esecuzione della pronuncia in esame, la Corte dedica particolare attenzione alle informazioni concernenti i procedimenti disciplinari previsti, la loro applicazione, l’eventuale adozione di misure cautelari ( quali la sospensione dal servizio), l’eventuale riapertura delle indagini. Tali informazioni sono state richieste ai competenti Uffici ministeriali e giudiziari e se ne darà conto nella prossima Relazione al Parlamento.

Damiano Aliprandi

da il dubbio