In questi giorni la vicenda della caserma Levante di Piacenza viene continuamente paragonata a romanzi o a serie televisive. L’aggettivo che si spreca a sproposito è “incredibile” quando il fenomeno delle bande all’interno delle forze dell’ordine è endemico a livello internazionale e viene raccontato da almeno una ventina di anni.
Anche in Italia, paese privo ormai di memoria, sono stati già inquisiti e puniti episodi altrettanto gravi che non hanno riguardato solo l’Arma dei carabinieri. Si tratta di storie che ovunque si basano sempre sugli stessi elementi: un gruppo di agenti, guidati da un capo carismatico, si distingue per i risultati alla lotta al traffico di stupefacenti e i diretti superiori, ossessionati dalla carriera, non si pongono il problema dei metodi con cui vengono ottenuti.
Ma una banda si comporta come tale e violenza, ricatto e corruzione sono gli strumenti fondamentali per arrivare a effettuare la giusta quantità di arresti e confische da esibire nelle conferenze stampa. E data la quantità impressionante di denaro che circola negli ambienti dello spaccio, agli agenti che rischiano la vita ogni santo giorno sembra giusto intascarne una parte, magari come fondo pensione.
Alla fine però arriva sempre il personaggio incorruttibile che ristabilisce la legalità ed espelle le mele marce dal corpo, giusto per ribadire che il crimine non paga e che lo Stato di diritto trionfa sempre.
Quanto accaduto alla Levante sta già stuzzicando l’interesse di romanzieri e sceneggiatori sempre a caccia di intrecci tra realtà e finzione, ma al momento la vicenda presenta buchi narrativi che anche la più sfrenata delle fantasie avrebbe difficoltà a colmare.
Piacenza non è una metropoli ma una bella e civile città di provincia dove lo spaccio è sempre stato circoscritto e controllato dalle forze dell’ordine. La prima stranezza riguarda gli informatori della Questura e della Guardia di Finanza che non hanno mai riferito nulla su questa banda di carabinieri che agiva alla luce del sole da oltre tre anni.
Eppure l’obiettivo dichiarato era quello del controllo del mercato locale, perseguito tra torture, vessazioni di ogni tipo, arresti pilotati e appoggiando alcuni spacciatori italiani con cui si facevano fotografare sventolando banconote. E qui la faccenda diventa ancora più inquietante perché non si capisce quali interessi criminali rappresentassero questi signori.
A questo punto l’ombra di una “benedizione”, diretta o mediata, della cosche ammorba l’intera vicenda perché è evidente che, nella geografia del traffico di stupefacenti, questa gestione della piazza piacentina a qualcuno di “grosso” doveva far comodo, altrimenti i carabinieri della Levante sarebbero stati neutralizzati ben prima. Le ‘ndrine, ben radicate nel territorio, non avrebbero mai rinunciato ai propri guadagni.
Invece nel 2018, anche sulla base di arresti fasulli, la caserma riceve un encomio solenne. Difficile da digerire oggi, alla luce delle torture e dei festini a base di escort che si consumavano all’interno. Per decenza è stata abbandonata la linea del “nessuno sapeva” in nome di “chiacchiere che circolavano da tempo”, ma la vera domanda è perché si è permesso che la banda agisse per un tempo così lungo. Domanda che non riguarda solo l’Arma, ovviamente.
Fino a questo momento però è una storia già raccontata, letta e vista sia nella realtà che nella finzione. Anche i personaggi ricalcano cliché: l’appuntato leader del gruppo, la sua fidanzata, i gregari, lo spirito di corpo deviato. La villa con piscina, lo champagne, l’ostentazione sfacciata di un tenore di vita incompatibile con lo stipendio di un servitore dello Stato. La pratica disinvolta della violenza.
La vera novità di questa storia è la meno presente nella narrazione mediatica e cioè che la banda trattava delinquenti e onesti allo stesso modo. L’episodio del concessionario costretto a vendere al capo una macchina di lusso a basso prezzo perché picchiato a sangue e minacciato con le pistole deve far riflettere.
Perfino lo spacciatore che accompagna l’appuntato si stupisce e in un’intercettazione afferma che sembrava una scena di Gomorra. Durante il lockdown mentre Piacenza lottava contro il virus e contava le vittime, la banda accompagnava gli spacciatori a rifornirsi a Milano e organizzava feste. Una vicina chiama il centralino dell’Arma per protestare e non solo non viene ascoltata ma segnalata al padrone di casa.
Alla Levante non solo si sono pericolosamente intrecciati e stratificati interessi di vario tipo ma l’impunità, che qualcuno forse aveva garantito, ha determinato nuove forme di comportamenti illegali. Una sorta di salto di qualità che finora non avevamo conosciuto.
Massimo Carlotto
da il manifesto