Il sud Sudan martoriato confida nell’intervento delle chiese mentre il Sudan affronta faticosamente una soluzione politica
di Gianni Sartori
Per capirci qualcosa di quel che sta accadendo in Sud Sudan (“a volte l’indipendenza non basta”…ricordate?) bisogna proprio chiedere a quelle organizzazioni a vocazione umanitaria, religiose come i Comboniani (quelli di “Nigrizia” a Verona) o laiche come Medici con l’Africa (a Padova). O magari ai valdesi della Val Pellice.
Restando sempre in ambito cristiano, ricordo che a breve (dal 3 al 5 febbraio) sono attesi nella capitale, Juba, sia l’arcivescovo anglicano di Canterbury Justin Welby (maggior esponente della Comunione anglicana mondiale) cheil pastore Iain Greenshields (moderatore dell’Assemblea generale della Chiesa di Scozia). Oltre naturalmente, ma questo già si sapeva, a Papa Francesco.
Un’iniziativa comunitaria, ecumenica per “la Pace nel Sud Sudan”. Che, ci si augura, potrebbe in parte portare sotto gli occhi della comunità internazionale, quantomeno distratta, le tragiche vicende di questa terra martoriata, periodicamente in stato di guerra, con un evidente aggravamento negli ultimi mesi. Già da agosto con la ripresa dei combattimenti tra opposte fazioni e poi da novembre con la sospensione della partecipazione del governo sud-sudanese ai colloqui di pace di Roma. Una autentica “doccia fredda” per chi vi aveva investito energie e speranze. Anche se “questo non significa che la porta per la pace sia definitivamente chiusa”.
Resta il fatto – grave – che comunque i governativi hanno confermato tale decisione unilaterale, accusando i gruppi di opposizione sud sudanesi non firmatari (NSSSOG) di “mancanza di impegno”.
Intanto bisogna registrare un’altra tragedia, l’ennesima, ai danni dei profughi interni (sfollati) del campo diAburoch (Alto Nilo). Il campo è stato attaccato in questi giorni (come poco prima era accaduto ad un altro campo) da un non meglio precisato “gruppo armato ribelle”. Ad Aburoch i profughi si contavano a migliaia (oltre seimila, pare), originari da altre zone e risalenti al periodo di conflitto 2013-2018. Stando a quanto raccontano alcuni religiosi presenti nell’area, la maggior parte dei profughi ora è in fuga attraverso le paludi. Le vittime sarebbero numerose anche se al momento risulta difficile quantificarle. In ogni caso le loro già fragili sicurezze quotidiane, le nuove esistenze faticosamente ricostruite, sono state spazzate via in pochi attimi.
E IL SUDAN, CHE FA?
Qualche segnale, almeno apparentemente, di segno opposto sembra arrivare dal Sudan. In novembre era stato firmato un accordo (elogiato dall’Unione Africana e anche da Antonio Guterres) tra i militari al potere (dal golpe del 25 ottobre 2021 che aveva abolito la precaria condivisione tra esercito e società civile) e il blocco delle Forze per la libertà e il cambiamento. Un accordo stilato nella prospettiva di una transizione politica in senso democratico e per l’elaborazione di una nuova Costituzione. Va anche precisato che l’entusiasmo per tali accordi non è universalmente condiviso nel Paese africano. Ne diffidano sia quelle organizzazioni che erano contrari al dialogo con i militari (e alla clausola per cui sarebbero comunque rappresentati in un governo civile, all’interno di un Consiglio per la sicurezza e la difesa), sia qualche gruppo islamista come quello legato al deposto Omar El-Bashir.
A riprova di tale dissenso, le recenti proteste del 17 novembre duramente contenute dalla polizia (però stavolta senza che si registrassero vittime).
Le migliaia di sudanesi scesi in strada protestavano per ricordare l’anniversario della sanguinosa repressione subita da chi si opponeva al regime (i morti sono ben oltre il centinaio ormai) del golpista Abdel Fattah al-Burhane.
Al grido “I militari in caserma” e di “Né compromessi, né negoziazione”, i dissidenti muovevano critiche anche alla coalizione delle Forze per la libertà e il cambiamento accusandola di aver “svenduto il nostro sangue” accettando compromessi con i militari.