Come accade da anni anche le prossime elezioni comunali si profilano già come una battaglia tutta giocata su decoro e degrado, antimovida e sicurezza urbana. I comitati di quartiere scrivono diffide contro chi dorme per strada, i vigili urbani rastrellano le coperte, i sindaci se la prendono contro i graffitari. Già, uno degli obiettivi polemici di queste campagne elettorali permanenti sono le scritte sui muri e le tag, simbolo per molti della città invivibile. I giornali sono pieni di dagli all’untore contro i writers, e chi difende le scritte sui muri viene considerato un criminale.
QUESTO CONFLITTO non è nuovo. All’inizio degli anni ottanta ci fu un interessante polemica tra Italo Calvino, in veste di opinionista su Repubblica, e Armando Petrucci, uno dei più grandi paleografi del novecento che spesso collaborava con il manifesto e il Corriere. Calvino recensì un saggio di Petrucci, La scrittura. Ideologia e rappresentazione in cui si rifletteva sulle scritte murali dall’antica Roma a oggi e sulla loro dimensione sociale e culturale. Calvino elogiava il libro, ma poi chiosava il suo pezzo con un risentimento personale: «L’obiezione che mi tenevo nel gozzo fin dal principio è tempo che la tiri fuori. Petrucci insegue un ideale di ’città scritta’, di luogo saturo di messaggi articolati in segni alfabetici, che vive e comunica attraverso il depositarsi di parole esposte agli sguardi. Ora è proprio quest’ideale che io non condivido. La parola sui muri è una parola imposta dalla volontà di qualcuno, si situi egli in alto o in basso, imposta allo sguardo di tutti gli altri che non possono fare a meno di vederla o recepirla. La città è sempre trasmissione di messaggi, è sempre discorso, ma altro è se questo discorso devi interpretarlo tu, tradurlo tu in pensieri e in parole, altro se queste parole ti sono imposte senza vie di scampo. Sia essa epigrafe di celebrazione dell’autorità o insulto dissacratorio, si tratta sempre di parole che ti piombano addosso in un momento che tu non hai scelto: e questa è aggressione, è arbitrio, è violenza. Lo stesso vale per la scritta pubblicitaria, certamente; ma lì il messaggio è meno intimidatorio e condizionante, – ai ’persuasori occulti’ ho sempre creduto poco – ci trova più difesi, ed è comunque neutralizzato dai mille messaggi concorrenti ed equipollenti».
TUTTI GLI STUDI sulla scrittura di Petrucci sulle scritte urbane sono una confutazione di quest’opinione di Calvino. Nel 1999 chiamato di nuovo a reagire all’ordinanza contro i writers dell’allora sindaco Albertini, scrive: «È che sia nell’antichità classica, sia nell’Europa medievale e soprattutto moderna e contemporanea, la città in quanto tale è sempre stata e continua ad essere un ideale luogo di scrittura esposta nelle sue piazze e nelle sue strade, ove campeggiavano e campeggiano manifesti e iscrizioni ‘legittime’ ed espressioni grafiche spontanee, graffite, dipinte, disegnate da singoli o gruppi; così era nella Roma o nella Pompei del I secolo d.C.; era nella Roma, nella Parigi, nella Londra del Cinquecento e del Seicento, ove a epigrafi e avvisi di stampa si contrapponevano scritte dipinte non autorizzate e criminali, cartelli infamanti, pasquinate e disegni osceni». Anche sui cartelloni pubblicitari, Petrucci non ha la tolleranza estetica di Calvino: sono quelli a invadere con «assoluta e drammatica evidenza» il paesaggio urbano, senza che la pubblica opinione, i mezzi d’informazione e le autorità se ne scandalizzino.
Leggere Calvino difensore del decoro, turbato dalla violenza arbitraria delle scritte, e Petrucci studioso della città scritta oggi è quasi uno shock. Negli ultimi vent’anni si sono moltiplicate le ordinanze contro i graffitari, l’ideologia del decoro e della sicurezza urbana è parte integrante di un’ideologia urbanistica trasversale che va dalla destra estrema al Pd, ed è cresciuto in Italia un fenomeno come quello dei retakers, che ha scelto come suo campo di intervento proprio la pulizia dei muri da scritte e tag.
La posizione di Petrucci era non certo maggioritaria allora; oggi sarebbe impopolarissima: «Ciò che nei graffiti sorprende e offende buona parte dell’opinione pubblica, dunque, nonè la presenza e l’esposizione dello scritto, quanto piuttosto chi li esegue, le motivazioni per cui lo fa, il modo in cui le realizza e soprattutto il luogo: in spazi di scrittura che sono sempre o di pubblica o di privata proprietà»: da democratico ragionava sulla polarità repressione/espressione e da marxista dava una lettura di classe di quelle scritte.
QUANDO CALVINO si scaglia contro chi scrive sui muri «si situi egli in alto o in basso» sta manipolando il discorso: le scritte sui muri non sono certo fatte da chi «sta in alto», sono la rappresentazione di chi pretende spazio per le classi più basse, del resto «le classi egemoni hanno sviluppato un sistema di conservazione dello scritto attraverso l’apparato degli archivi e delle biblioteche. Le classi popolari non hanno archivi né biblioteche» (sempre Petrucci). I muri della città diventano spesso quegli archivi effimeri delle classi popolari.
Oggi invece l’unica lettura che viene data è quella che contrappone legalità e illegalità. Si può rifiutare questa falsa antitesi? In Elogio del tag, Andrea Cegna scrive: «Primo dato di fatto: anche i bambini sanno benissimo che quando fanno una tag o una qualsiasi scritta su un muro, non commissionata, eseguono un atto contrario al codice civile». Ma se è questa l’unica misura della nostra riflessione, «dovremmo usare lo stesso zelo nei confronti di tutte le azioni deturpanti il decoro pubblico: arrestando decine di migliaia di architetti, ingegneri, affaristi costruttori, amministratori locali e politici; con l’accusa di aver disseminato il paesaggio di quartieri mostruosi, ecomostri, grandi opere inutili, devastazioni ambientali e paesaggistiche, infinitamente più drammatiche e invasive dei banali messaggi in luoghi pubblici. Dovremmo demolire interi quartieri, rimuovere metà di quanto è stato edificato in Italia».
Le tag sono l’evoluzione delle scritte che possiamo trovare ancora oggi nei siti archeologici di Pompei o di Ostia. Apparse nei quartieri più poveri di New York alla fine degli anni Sessanta, oggi sono dappertutto nel mondo. Nascono in un contesto sociale ben preciso, rappresentando un modo per affermare la libertà di espressione e legittimare le presa di possesso delle strade da parte dei gruppi marginalizzati di giovani africani e latini americani a New York e Philadelphia.
LE CITTÀ ATTRAVERSO le scritte raccontano le evoluzioni sociali, culturali, politiche di una città. A Roma per esempio da qualche anno, in contemporanea con le primavere arabe, appaiono molte scritte e tag in arabo: ce ne sono a Testaccio, a Manzoni, San Lorenzo, a Centocelle, a Casilina, a Prenestina, a Ostiense, a Repubblica, a Quarticciolo, a Alessandrino, a Pigneto, a Rebibbia. Sono graffiti devozionali, sociali, politici, ingiuriosi, commemorativi; sono in lingua coranica e in dialetto. Anche qui esiste una tradizione che risale agli inizi della civiltà islamica, scritte murali parallele alla scrittura ufficiale.
A sapere l’arabo, sui muri romani possiamo leggere Dio è grande o Palestina libera ovviamente; ci sono proteste contro i regimi autoritari come Al-sisi assassino, Al-sisi per quanto rimarrai lo stronzo di Egitto?, Erdogan assassino; ci sono insulti personali come Vattene pappone o Ezzedine testa alcalina. Testa alcalina? Beh, sì, è un’espressione che si usa in Marocco per dire che ti ha dato di volta il cervello, ma anche «testa a pera»; dalle scritte impariamo culture diverse. Ma le tag arabe raccontano come Roma sia cambiando; e del resto l’arabo ha una scrittura più espressiva graficamente del latino. Ci si possono leggere i nomi di nuovi abitanti come Nur o Ghali, che si sovrappongono a quelli di Geco e altri.
C’è una possibilità di mediazioni tra queste due posizioni? Tra chi pensa che le tag deturpino le città e chi invece è convinto che una città senza scritte sui muri non sia una città? Probabilmente non c’è compromesso, ma un conflitto fecondo. Oppure si può prendere spunto da quello che si racconta sia accaduto a Camargo, un paesino del Messico – poche vie grandi, tanti vicoli e niente muri bianchi. A Camargo le scritte sui muri e i tag sono non solo consentite ma incoraggiate: invece di investire i soldi in squadre antigraffiti, si regala della vernice bianca a ogni abitante per disegnare. Chiunque può scrivere, riscrivere, coprire le scritte degli altri.
Le scritte sui muri, le tag, ci mostrano, come una comunità, che sia un pueblo in Messico o una capitale d’Italia, possono creare una città multigrafica e multilinguistica, che è un modo come un altro di dire civiltà.
da il manifesto