Menu

La doppia morte di Emmanuel Namdi e la nostra vergogna

Finita nel dimenticatoio la morte del migrante ucciso da un fascista. La moglie costretta a lasciare Fermo, mentre le istituzioni tacciono

Emmanuel Chidi Namdi è morto meno di sei mesi fa, eppure a Fermo sembra passato un secolo da quel 5 luglio, quando lui – nigeriano, 36 anni – non abbassò la testa dopo che il 39enne ultras della Fermana e simpatizzante di estrema destra Amedeo Mancini diede della scimmia a sua moglie. Quella frase – agli atti: «Africans scimmia» – è uscita così, d’istinto, mentre la coppia passeggiava per la strada che sale fino a piazza del Popolo. Emmanuel tornò indietro, ne nacque una rissa, lui batté la testa e morì in ospedale dopo diverse ore di coma.

La provincia ha un’arma crudele e infallibile per i casi del genere: la rimozione, il colpo di spugna che sfuma i contorni e confonde i piani.

Sul piano giudiziario, Mancini ha accettato di patteggiare a quattro anni, per l’accusa di omicidio preterintenzionale con aggravante razzista. Il suo avvocato difensore, Francesco De Minicis, ha provato a sostenere che la pena mite è dovuta al fatto che a cominciare la rissa sarebbe stato il nigeriano. In verità il Ris ha appurato che le cose non sono andate esattamente così: sul paletto stradale usato come clava durante la rissa, del Dna di Emmanuel non ce n’era, mentre di tracce di Mancini ne sono state trovate in abbondanza. Tutti particolari che non verranno discussi in aula, però: il patteggiamento significa anche che un processo non ci sarà mai.

Per il Comitato 5 Luglio, nato grazie a Cgil, Anpi e altre associazioni proprio per cercare di non dimenticare quello che è successo, si tratta di una mezza sconfitta: «È una pietra tombale sulla verità. Rimarranno però tante pericolose chiacchiere e tanti infondati tentativi di giustificazione», dice con più di una punta di rassegnazione Peppino Buondonno di Sinistra Italiana.

Impresa difficile: dopo le prime parole di cordoglio (e di circostanza), la Fermo che crede di contare qualcosa si è innervosita. In un’incredibile esibizione di ipocrisia a metà tra la retorica del borghese piccolo piccolo e la negazione pura e semplice dei fatti, si è cominciato a dire che tutto quel parlare di «omicidio razzista» era «una cattiva pubblicità per il territorio», quasi un attentato al settore turistico nel cuore della bella stagione.

Al sindaco Paolo Calcinaro ci è voluto meno di una settimana per mettere sullo stesso piano Emmanuel e Amedeo Mancini, definendoli entrambi vittime. La spiegazione di un’uscita del genere è semplice nella sua piccineria: Calcinaro è stato eletto grazie a una lista civica che ha raccolto molto anche negli ambienti della destra cittadina, attigua alla curva della squadra di calcio locale e sin troppo indulgente verso il razzistume di certi ambienti. Mancini, d’altra parte, è un ultras della Fermana e, si sa, in provincia un amministratore può fare di tutto e passarla relativamente liscia, ma inimicarsi il tifo organizzato è garanzia di impopolarità. Meglio non rischiare.

«È come se da queste parti ci si rifiutasse di mettersi in discussione, di guardarsi allo specchio – riflette il consigliere comunale Massimo Rossi –. Nessuno vuole ammettere di essere affetto da una sorta di subdola xenofobia a bassa soglia: un torbido impasto di timore e insofferenza nei confronti degli stranieri, il cui stigma dell’indigenza costringe a gettare lo sguardo oltre le rassicuranti mura cittadine».

Fermo, però, non è una città razzista, «anche se è stupido, ipocrita e pericoloso credere che qui di razzisti non ce ne siano», conclude Buondonno.

Due settimane dopo l’omicidio di Emmanuel, ancora a Fermo, ci fu l’arresto di due persone accusate di aver fatto esplodere delle bombe davanti ad alcune chiese della zona. Guarda caso, tutte parrocchie che accoglievano rifugiati e richiedenti asilo. I primi lanci delle agenzie riferivano di arresti negli ambienti anarchici, poi venne fuori che si trattava di due persone legate alla curva della Fermana, probabilmente fomentate dal clima di intolleranza diffuso a tutte le ore, a reti e social network unificati. La vicenda ha tenuto banco appena per qualche giorno, poi non se n’è saputo più nulla.

Un processo di piazza, in compenso, è stato fatto. Non a Mancini, e nemmeno ai bombaroli, ma a Emmanuel. Ne sono state dette (e scritte) di tutti i colori, sono usciti testimoni improbabili che raccontavano di come fosse stato il nigeriano a picchiare come una furia prima di venire steso da un unico pugno, versione che non ha trovato alcun riscontro nelle indagini. A un certo punto è stato tirato fuori anche che al suo funerale si sarebbero fatti vedere anche esponenti del Black Axe, la mafia nigeriana, riconoscibili dai vestiti neri e dalle coccarde rosse. Era una bufala, ma smentire pare sia servito solo ad amplificare la voce. Adesso, a chiedere in giro siamo di fronte alla storia di un immigrato provocatore e di un ragazzo finito nei guai non si sa bene perché: «Amedeo è un allegrone, tira le noccioline quando vede un negro, ma lo fa per scherzare. Ha avuto una vita difficile e non può più andare allo stadio perché è stato diffidato», questo è il profilo dell’aggressore tracciato da una fonte di primissima importanza, suo fratello.

Il finale è amaro: Chimiary, la vedova di Emmanuel, è andata via da Fermo. Era arrivata scappando da Boko Haram, e nel viaggio verso l’Italia perse anche il bambino che aveva in grembo. Lo scorso novembre, la giunta regionale aveva preparato gli atti per conferirle il Picchio d’Oro, la massima onorificenza marchigiana. Alla fine non se n’è fatto niente, malgrado sull’albo pretorio fosse addirittura apparsa una delibera sul punto. La giustificazione fornita dai palazzi anconetani è un manifesto ambientale: si è trattato di un errore amministrativo dei dirigenti. Perché in fondo così è la vita, anche per Emmanuel. È stato un errore. Soltanto un errore.

Mario Di Vito

da il manifesto