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La farsa della giustizia egiziana: in 152 condannati in 10 minuti

Ai manifestanti del 25 aprile dai 2 ai 5 anni di prigione. In galera anche i presunti assassini del francese Lang, ma la corte non spiega le torture. Approvato ieri il disegno dei legge sui media

Quando vuole il regime egiziano è rapidissimo: alla magistratura del Cairo sono bastati 10 minuti per chiudere i processi contro 152 indagati di violazione della legge anti-terrorismo. Processi di massa senza rispetto per gli standard di equità contro chi è sceso in piazza contro la cessione delle isole Tiran e Sanafir all’Arabia Saudita. Dei 1.277 arrestati dal 15 al 25 aprile, spesso preventivamente, 152 sono stati condannati domenica alla prigione: 51 a due anni, 101 a cinque. Tutti dovranno pagare una multa di 100mila sterline egiziane (10mila euro).

I dubbi delle associazioni per i diritti umani sono più che legittimi. Gli dà voce il National Council for Human Rights (Nchr), agenzia statale: i giudici hanno emesso i verdetti troppo velocemente per un processo equo. «Ad un singolo giudice sono stati assegnati i casi delle proteste a Dokki e Agouza – spiega Ragia Omran del Nchr – Non ha avuto neanche il tempo di controllare prove e difese. 50 avvocati hanno parlato davanti alla corte per sei ore e presentato oltre 60 documenti, ma il giudice ha deliberato in soli 10 minuti. Non penso che abbia avuto modo di assorbire tutte le informazioni. È umanamente impossibile». Insomma, aggiunge Omran, l’impressione è che «la decisione fosse già stata presa».

Resta in sospeso la pena per altri 400 manifestanti, mentre veniva condannata a 6 mesi la giovane attivista Sana Seif (sorella di Alaa Abdel-Fattah e Mona Seif) per insulti alla magistratura. Sempre domenica è stato prolungato di 15 giorni l’ordine di detenzione dei giornalisti Badr e al-Saqqa, arrestati il 1° maggio nel raid della polizia nel sindacato della stampa e accusati dal ministro degli Esteri di voler assassinare il presidente.

Resta prevista per oggi l’assemblea generale della stampa che potrebbe discutere del disegno di legge sui media approvato ieri dal governo: 230 articoli che danno vita a due nuove autorità (i cui membri saranno scelti congiuntamente da presidente, parlamento e sindacato) e cancellano le sentenze di condanna legate al lavoro giornalistico (tra cui, in teoria, quelle contro lo scrittore Ahmed Naji e il membro del sindacato Mohammed Ali Hassan).

Un modo per mettere una pezza alla crisi con la stampa? Si vedrà. Di certo quella legge non è stata discussa con il sindacato. Ormai la follia repressiva del regime di al-Sisi supera qualsiasi barriera, di buon senso o timore per le reazioni internazionali: ogni critica è punita con una surreale severità.

La stessa severità non si riscontra fuori: venerdì Il Cairo ha ottenuto dagli Usa l’acquisto di missili per sottomarini dal valore di 143 milioni di euro. Una strategia nello stile parigino con Hollande che il mese scorso ha siglato con l’Egitto 10 memorandum di intesa e 30 accordi commerciali. In quell’occasione il caso di Eric Lang, cittadino francese morto per le botte ricevute in una stazione di polizia nel 2013, non ha avuto spazio.

E se per le proteste interne in 10 minuti si sforna una sentenza, per Lang ci sono voluti tre anni. E la convinzione che giustizia non sia stata fatta: domenica sei persone sono state condannate a 7 anni per la morte dell’insegnante francese. Si tratta dei detenuti con cui condivideva la cella e che lo avrebbero picchiato per un litigio – dice il procuratore – sulla luce accesa.

Il caso è tornato sulle pagine dei giornali dopo l’assassinio di Giulio Regeni. Se per tre anni la magistratura egiziana era ferma al palo, in poche settimane ha scovato i colpevoli, gli stessi accusati sommariamente nel 2013 e poi lasciati liberi. Nessuna spiegazione sui segni di torture trovati sul corpo di Lang.

Al-Sisi balla da solo: è accusatore, giudice e boia, padrone di un sistema di poteri paralleli ma interconnessi che nelle mani dell’ex generale si realizzano. In tale contesto di controllo pervasivo, paranoia e repressione istituzionalizzata, anche una lunga serie di incendi scalda il clima. A dare voce alle «teorie complottiste» della gente è il quotidiano governativo al-Ahram: c’è chi dice che dietro gli incendi che colpiscono da settimane hotel, negozi e case ci sia un governo intenzionato a nascondere (letteralmente) sotto la cenere la questione Tiran e Sanafir.

Gli ultimi incendi si sono verificati nel villaggio di Damietta (il fuoco da una fattoria si è allargato agli edifici vicini) e in una scuola di Sharqeya. Prima era toccato al quartier generale del governatorato del Cairo ad Abdeen e al mercato popolare di al-Attaba: 3 morti, 91 feriti, 236 negozi danneggiati. Qui a al-Attaba la rabbia di artigiani e piccoli commercianti è esplosa. I media, dicono, non dicono la verità: dietro c’è la mano di un incendiario, qualcuno – lo Stato – interessato ad allontanare i piccoli venditori dal centro del Cairo o a far spegnere l’attenzione sulle proteste anti-governative.

Chiara Cruciati da il manifesto