Sull’indignazione pelosa dei (soliti) professionisti dell’antimafia
“Se al simbolo della bilancia si sostituisse quello delle manette come alcuni fanatici dell’antimafia in cuor loro desiderano saremmo perduti irrimediabilmente, come nemmeno il fascismo c’è riuscito”. L. Sciascia
Alla notizia della sostituzione della pena ad un detenuto in 41bis per motivi di salute e a 9 mesi dal fine pena, in Italia si è levato il solito coro massmediatico di indignazione pelosa, che stigmatizza l’operato del magistrato di sorveglianza che ha adottato il provvedimento.
Con un copione già visto all’indomani delle pronunce della Cedu e della Corte Costituzionale su ergastolo ostativo e sulla parziale incostituzionalità del 4 bis, i professionisti dell’antimafia cercano di impressionare l’opinione pubblica attraverso slogan suggestivi come “lo Stato si piega alla mafia”, “la mafia ha vinto!”, “presto libera l’intera cupola” e , dulcis in fundo, l’immagine di Falcone e Borsellino con la scritta a caratteri cubitali “boss mafiosi al 41bis liberati, li state uccidendo di nuovo”.
Ora mi chiedo come sia possibile che chi ha studiato (alcuni hanno anche collaborato con i due magistrati) il pensiero e l’operato di Falcone e Borsellino, non sappiano che erano due uomini di Stato che credevano profondamente nella Costituzione, nello Stato di Diritto e in quel (oramai) vilipeso articolo 27 che vuole le pene mai disumane e sempre rieducative? Falcone e Borsellino hanno introdotto il 41bis come strumento eccezionale e temporaneo per fronteggiare, appunto, una emergenza. Mai e poi mai avrebbero voluto che divenisse stabile e perpetuo per gli assegnati a quel circuito. Ci sono persone che si trovano in 41 bis da ben 28 anni e non hanno mai intrapreso nessun percorso rieducativo o di mediazione: qual è il senso della loro detenzione? Lo Stato dovrebbe applicare la giustizia non praticare la vendetta ed una pena fine a se stessa, limitata alla segregazione del corpo, non ha altra funzione oltre a quella vendicativa. Su questo aspetto, e forse si stupiranno gli estensori delle invettive, la figlia minore di Paolo Borsellino, Fiammetta, alcuni mesi fa durante due diversi incontri organizzati a Cosenza e Catanzaro, ha espresso la sua contrarietà all’esistenza del 41bis e dell’ergastolo ostativo in quanto contrari al dettato Costituzionale, ed ha espresso forti critiche alla organizzazione penitenziaria italiana tesa prevalentemente alla funzione sanzionatoria; ha anche avviato, e in tempi non sospetti, incontri di mediazione con i fratelli Graviano e si sta battendo affinché le istituzioni si assumano le responsabilità in merito al vergognoso DEPISTAGGIO (DI STATO) SULLA STRAGE DI VIA D’AMELIO. Depistaggio che, oltre ad aver inquinato le prove, costò 17 anni in 41bis a 10 uomini innocenti per via delle dichiarazioni costruite a tavolino (da uomini e donne dello stato) e messe in bocca a Scarantino. Anche lei amica dei mafiosi? O vogliamo considerare collusi tutti i magistrati che applicano le leggi e le garanzie Costituzionali? Dice bene Laura Longo, ex presidente del Tribunale di Sorveglianza de L’Aquila, quando afferma che “per fare il magistrato di sorveglianza occorre coraggio”. E in un corsivo in risposta alle esternazioni eversive di certi magistrati, politici e funzionari afferma: “Quando i magistrati di sorveglianza fanno il loro dovere applicando le leggi dello Stato, lo stesso Stato prende le distanze trincerandosi dietro all’autonomia del potere giudiziario e fomentando la gogna mediatica. Peccato che l’autonomia del magistrato di sorveglianza non sia ricordata né rispettata, tutte le volte che dolosamente il DAP, che dell’esecutivo è diramazione, non esegue i provvedimenti giurisdizionali a tutela dei reclusi, emessi ex art, 35 O.P. o i permessi di necessità ex art. 30. E’ una storia che i magistrati di sorveglianza conoscono bene, e che vivono sulla propria pelle, ogni volta che non cedono al ricatto e all’intimidazione. (…) Vorrei ricordare che il differimento della pena per condizioni di salute incompatibili con il regime carcerario, che può concedersi con le forme della detenzione domiciliare, non soggiace alle preclusioni previste dall’art. 4 bis. Ma evidentemente è troppo pretendere dai politici e dal ministro della giustizia, conoscenza e rispetto della legge e della magistratura. É solo una piccola riflessione e non merita altro che di essere raccolta da chi condivide il valore della Giustizia. Esprimo massima solidarietà al magistrato di sorveglianza messo alla gogna e grande stima per il suo coraggio. Perché è bene dirlo, per essere un bravo magistrato di sorveglianza non basta conoscere bene leggi e costituzione, ne’ avere sensibilità umana, occorre anche coraggio e tanto, per rendersi senza timore garanti dei diritti inalienabili delle persone recluse, come quello della salute, ed applicare la legge senza distinzioni e condizionamenti esterni. Occorre avere anche la pazienza, la forza, la tenacia e soprattutto una grande passione, per resistere agli attacchi mediatici e alle indecorose ispezioni ministeriali. Ma se si hanno queste qualità è una funzione destinata a trasformare, non solo coloro la cui vita vita si ha in consegna, ma noi stessi che quella vita abbiamo salvato, proteggendo la salute e la speranza.”
A questo triste ed eversivo teatrino fanno da cornice i difensori dei familiari delle vittime; ed anche rispetto ai familiari delle vittime di mafia credo che alcuni, quelli che non si sono piegati alla logica vendicativa e giustizialista, siano fari illuminanti in questo marasma di manettari: è sempre Fiammetta, a proposito di chi si erge a paladino dei familiari delle vittime disse: “parlare in nome delle vittime della mafia è sbagliato, perché ognuno ha la propria identità, pensieri e vissuti”.
Si rammenta che le corti internazionali e l’Onu hanno dichiarato la detenzione continuata in 41bis equivalente a tortura. A tal proposito Vincenzo Scalia, ci ricorda “che il 41 bis sia lesivo dei diritti umani, è stato sancito in più sedi, nazionali e internazionali. Anche per i mafiosi. I quali continuano ad essere cittadini italiani, o comunque soggetti titolari di diritti. E poi, non mi pare che il 41 bis abbia portato alla sconfitta totale delle mafie. Piuttosto ha spostato il problema da Cosa Nostra a camorra e ndrangheta. E ad altri gruppi. E poi, da comuni cittadini, non vi sorge il dubbio che se a un boss danno il 41 bis a voi potrebbe andare anche peggio?! O c’è un problema di cattiva coscienza? Io ci penserei. Senza, nel frattempo, protestare perché un individuo detenuto, ancorché mafioso, sta usufruendo dei suoi diritti. Perché lo stato democratico è questo. O volete fare la rivoluzione…?”
Questo governo dovrebbe avere il coraggio di emanare una amnistia in virtù della emergenza sanitaria in atto, come stanno facendo tutti gli stati, anche quelli a noi noti come dittature, ma si dubita che tra le fila dell’attuale maggioranza e opposizione vi sia la statura politica di fare una scelta del genere né, tanto meno, possiamo contare in una opinione pubblica che, oramai, assuefatta al tintinnar di manette, tanto caro ai travagliati giornali, ha dimenticato la lezione di Sciascia: “Se al simbolo della bilancia si sostituisse quello delle manette come alcuni fanatici dell’antimafia in cuor loro desiderano saremmo perduti irrimediabilmente, come nemmeno il fascismo c’è riuscito.”
Sandra Berardi – Associazione Yairaiha Onlus
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La fiera delle ipocrisie sulla pelle del detenuto Bonura, ai domiciliari a 9 mesi dal fine pena
Sulla concessione dei domiciliari a Francesco Bonura c’è chi parla di una resa dello Stato di fronte alla logica mafiosa, chi cavalca l’indignazione popolare e chi invoca l’Antimafia…
C’è chi parla di una resa dello Stato di fronte alla logica mafiosa, chi (come il Pd) evoca una commissione Antimafia per verificare se ci sia stato un contrasto con la norma del 41 bis, chi – come Matteo Salvini – cavalca l’indignazione popolare per dire che il decreto “Cura Italia” sta liberando i mafiosi dalle carceri. Nulla di tutto questo. Tutto è partito da una notizia data con enfasi da L’Espresso (e poi in tandem ripresa da Il Fatto Quotidiano) in merito al provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Milano che ha dato i domiciliari al quasi 80enne Francesco Bonura, detenuto al 41 bis di Opera. «Ci sono state affermazioni improprie e strumentali che obliterano il caso concreto», spiegano i suoi legali, gli avvocati Giovanni Di Benedetto e Flavio Sinatra. «A Bonura gli restano meno di 9 mesi di carcere da scontare», osservano gli avvocati sottolineando che la misura emessa non c’entra nulla con il recente decreto “Cura Italia”.
Ed è vero. La misura governativa è rivolta a chi ha una pena residua non superiore di 18 mesi da scontare, ma esclude i detenuti sottoposti a sorveglianza particolare tra cui il 41 bis. L’ordinanza della magistratura, invece, riguarda norme già esistenti e si applicano a discrezione dei giudici.
LE GRAVI PATOLOGIE
Ma quali patologie ha Bonura, tanto da essergli concessi i domiciliari? Lo si legge direttamente dal provvedimento della magistratura di sorveglianza. «Dalla relazione sanitaria del 7 aprile 2020 – osserva il giudice Gloria Gambitta – risulta che il detenuto, di anni 78, riporta in anamnesi ipertensione arteriosa in terapia, ateromatosi carotidea con stenosi della carotide interna sinistra del 40% non emodinamicamente significativa, ipercolestertolemia; nel 2013 sottoposto ad intervento chirurgico per adenocarcinoma stenosante del colon e successiva chemioterapia adiuvante, attualmente in follow-up oncologico a causa di riscontro di aumentati valori dei markers tumorali; pregresso intervento di aneurismectomia aorto bisiliaca; Bpco in ex fumatore; presenza di laparocele addominale». A tutto ciò, ovviamente, si aggiungono anche i rischi da Covid 19 visto che Bonura ha tutte quelle patologie per le quali il virus potrebbe diventare fatale. Infatti il magistrato ritiene che «in considerazione dell’età avanzata del soggetto e della presenza di importanti problematiche di salute, con particolare riguardo alle patologie di natura oncologica e cardiaca, vi siano nell’attualità i presupposti per il differimento facoltativo dell’esecuzione della pena ai sensi dell’art. 147 co 1 n. 2 c.p., anche tenuto conto dell’attuale emergenza sanitaria e del correlato rischio di contagio – indubitabilmente più elevato in un ambiente ad alta densità di popolazione come il carcere – che espone a conseguenze particolarmente gravi i soggetti anziani ed affetti da serie patologie pregresse».
Ovviamente ai domiciliari è sottoposto, come prescritto dal magistrato, a vari obblighi e sarà perennemente vigilato dalle forze dell’ordine. Il Coronavirus è sicuramente un elemento aggiuntivo, ma il differimento pena è per motivi di salute. Il 41 bis non prevede, almeno sulla carta, l’accanimento nei confronti di una persona oggettivamente malata. Soprattutto quando, dettaglio non piccolo, gli rimarrebbe comunque poco da scontare. Non parliamo di un ergastolano (anche in quel caso il diritto alla salute dovrebbe prevalere), ma di uno che comunque avrebbe finito presto di scontare il regime duro. Sarebbe comunque ritornato a casa, salvo se non fosse morto prima come il detenuto Vincenzo Sucato (sempre ostativo) gravemente malato al carcere di Bologna e deceduto quando ha contratto il virus.
I RADICALI E I POLIZIOTTI
Per l’associazione del Partito Radicale Nessuno Tocchi Caino si tratta di «decisioni ineccepibili dal punto di vista Costituzionale e normativo. La Costituzione riconosce il diritto alla vita e alla salute come diritti fondamentali, prevalenti su ogni altra considerazione, ragione di sicurezza o di ordine pubblico».
Gli esponenti dell’associazione aggiungono che «nei casi in questione, stiamo parlando di persone gravemente malate, a rischio della propria vita nel perdurare dello stato di detenzione. Inoltre è sbagliato e fuorviante parlare di benefici come di scarcerazione avendo il tribunale di sorveglianza di Milano disposto un differimento pena per motivi di salute». Prende posizione il sindacato Uil della polizia penitenziaria tramite il rappresentante Gennarino De Fazio: «Non ci scandalizziamo affatto se un magistrato esercitando le sue funzioni decide una qualche forma di scarcerazione per età avanzata e accertate condizioni di salute, fidandoci, appunto, delle valutazioni di quel magistrato che abbia potuto disporre di quante più informazioni possibili».
SE LA DIETROLOGIA STRAVOLGE I FATTI
Secondo Nino Di Matteo, membro togato del Csm, lo Stato sta dando l’impressione di essersi piegato alle logiche di ricatto che avevano ispirato le rivolte. Sì, perché secondo lui le rivolte carcerarie avrebbero avuto una regia mafiosa. Eppure è esattamente il contrario. La cultura mafiosa all’interno delle carceri, da sempre, è quella del mantenimento dell’ordine. Non a caso, tale ordine è stato sconvolto proprio negli anni che cominciarono a entrare in carcere i ragazzi appartenenti alle organizzazioni politiche di estrema sinistra.
Il Dubbio, a tal proposito, ha riportato la testimonianza dell’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci. Alla domanda se è stato costretto a scontrarsi con altri detenuti quando propose di ribellarsi contro il sistema carcerario, lui ha risposto così: «Sì. Molti di loro entravano in carcere già “istituzionalizzati”. Non dallo Stato, ma dalla cultura mafiosa che è volta all’ubbidienza e all’ordine. Mi ritrovai a scontrarmi con alcuni boss mafiosi, perché io pretendevo che ci ribellassimo tutti insieme alle torture che subivamo all’Asinara. Loro invece no, rispondevano che avrebbero subito le umiliazioni e torture a testa alta. Io pur essendo stato un delinquente, avevo acquisito una coscienza ribelle durante le sommosse degli anni 70 che avvenivano anche negli istituti penali minorili». Siamo sempre lì. Alle dietrologie che stravolgono la verità oggettiva dei fatti. Punto primo. Nessun decreto governativo ha facilitato la liberazione di chi si è o si sarebbe macchiato di mafia. Punto secondo. Parliamo di provvedimenti a firma di magistrati, indipendenti dal potere politico e soprattutto da quello esecutivo. Sono scelte individuali, si valuta lo stato di salute e tanti altri fattori. L’unico punto di riferimento è il Diritto. I retropensieri offuscano la ragione e molto spesso, purtroppo, non si fermano solo in alcuni giornali ma si concretizzano anche in alcune aule di tribunale.
Damiano Aliprandi
da il dubbio