“La politica è diventata una sottospecie del calcio, con i suoi giocatori, arbitri, sostenitori, selezionatori e cannonieri.” – Bernard-Henry Lévy
“Io sono come il centravanti acquistato per fare 30 gol, a cui i compagni non hanno fatto i passaggi giusti e gli avversari hanno spaccato le gambe. Lasciate lavorare il centravanti.” Così, nel dicembre 1994, Silvio Berlusconi racchiudeva in un’unica metafora la sua vita: a marzo, era stato eletto Presidente del Consiglio, dopo essere improvvisamente entrato in politica solo quattro mesi prima, con un partito da lui stesso creato. Prima di allora, era stato un imprenditore di successo, editore di un piccolo giornale e soprattutto proprietario di un grande network televisivo. E proprietario del Milan; anzi, l’uomo che aveva preso il Milan all’inferno e l’aveva portato in Paradiso. “Io, il successo, me lo sono meritato, come Franco Baresi” è un’altra delle sue frasi dell’epoca.
Prima di Berlusconi, calcio e politica non si mescolavano troppo: poteva succedere che qualche calciatore esprimesse una fede politica o che qualche politico esprimesse una fede calcistica, ma si trattava di appendici, di curiosità che non avevano e non volevano avere troppo a che spartire l’una con l’altra. Nel mondo di Montecitorio, il calcio era sempre e comunque da ritenersi una passione giovanile, volgare – nel suo senso più puro, “del volgo” – mentre dentro le sue mura si ragionava da adulti.
Fu anche questa la grande rottura portata da Berlusconi: la politica, sospinta da una vocazione populista, doveva diventare più volgare, più vicina alla gente – “Scende in campo l’Italia della gente contro quella dei vecchi partiti” diceva, vent’anni prima di Beppe Grillo – doveva parlare di sé come si parla del calcio. Quando dovette fondare un partito, scelse un nome che non comprendeva nessuna parola d’ordine ideologica, ma un motto sportivo: Forza Italia.
Sia chiaro: era un terreno ben fertile su cui lavorare. Sport ed elezioni ben si sposano con il linguaggio della competizione, dove c’è chi “vince” e chi “perde”. Lo sport rappresenta il nostro primo approccio con la contesa, e una delle regole non scritte di ogni contesa è il tifo: non tutti siamo realmente impegnati nello scontro, per questo va sviluppato un senso di appartenenza tra un contendente e il suo pubblico, così che quest’ultimo si possa sentire parte in causa pur essendo, di fatto, soggetto passivo.
E il tifo ha proprie logiche, proprie regole, propri dogmi. Berlusconi si ritrovò così a essere l’uomo perfetto per portare avanti il processo di footballizzazione della politica, aprendo una nuova era non solo nella storia della comunicazione, ma anche nel modo di ragionare e guardare il mondo da parte del pubblico.
La deriva del linguaggio
A febbraio 2019, Matteo Salvini si è presentato a un comizio della Lega a Giulianova con indosso una maglia della locale squadra di calcio. Non tifa Giulianova, la società non gliel’ha regalata, non ha alcun legame con il club. Ma per un’iniziativa politica in Abruzzo l’ex-leader nordista ha pensato che il calcio potesse essere il modo più adatto per porsi come “uno di loro”, offuscando la propria lunga tradizione anti-meridionalista. La maglia, sul retro, recava il suo nome e cognome, il numero 1 e il suo soprannome, il Capitano, altro termine di derivazione squisitamente sportiva.
Bernard-Henry Lévy dice che la partita è divenuta il paradigma della narrazione politica; ma forse dovremmo precisare che, più che di partita, occorre parlare di derby. Perché è nei derby che si mettono in scena le rivalità più accese e più feroci, in cui la comunicazione si fa più scorretta. Quello tra PD e M5S è un clima da derby perenne, al limite dell’assurdo: l’accusa insensata del “partito di Bibbiano” ha riacceso di recente uno scontro tra i due partiti che lascia curiosamente in disparte la Lega, che pure è oggi la principale forza politica in Italia.
“Cos’è il termine Pidiota se non la trasposizione politica del rubentino?” si chiede giustamente Erick Bazzani. Ebbene, questi due partiti sono oggi – al di là delle periodiche ipotesi di alleanza – i più inconciliabili della scena politica italiana. Due schieramenti opposti e irrimediabilmente rivali, che in questi anni si sono ridefiniti principalmente in opposizione all’altro.
Per contro, la comunicazione di Salvini è chiaramente indirizzata verso i suoi tifosi e verso loro soltanto. Vengono coniati nomignoli ridicoli per gli avversari – “sinistrati”, “buonisti”, “amici degli scafisti”, “immigrazionisti” – non più suddivisi per appartenenza politica, ma messi tutti sotto un termine-cappello denigratorio. Sono i Gufi, i nemici invidiosi che ce l’hanno con noi perché vinciamo. Curiosamente, fu Matteo Renzi a descrivere i suoi avversari come “gufi e rosiconi” – termine, quest’ultimo, poi riutilizzato da Salvini stesso – nel 2014, attaccando proprio il M5S.
La deriva linguistica della politica ha due punti fermi nell’ascesa di Silvio Berlusconi, che trasporta massicciamente il gergo sportivo nella gestione della cosa pubblica, e nel Processo di Biscardi, il programma di riferimento degli appassionati prima dell’avvento di Sky. L’ex-dirigente RAI Angelo Guglielmi ha sostenuto che con il Processo è stato fondato un nuovo tipo di televisione, modello dei talk-show successivi sia in ambito sportivo che, soprattutto, politico.
La commistione tra i due fattori è stata decisiva: Berlusconi avvicina la politica al calcio e segna il trionfo del linguaggio televisivo; Biscardi inventa la nuova tv e, sulla scia berlusconiana, impone il modello del talk “urlato”. Il Processo delinea i nuovi stilemi della comunicazione sportiva e politica. Non è un caso che, negli anni, alcuni politici siano anche stati suoi ospiti, discesi nella feroce contesa del tifo calcistico come se fosse una naturale conseguenza del proprio mestiere.
È su quel campo che sono stati sparsi i semi della comunicazione odierna. Un’arena televisiva in cui si scontravano provocatori alla Maurizio Mosca e provocati, dove non si discuteva ma ci si accusava e insultava, dove ci si “accavallava” nella fiera e studiata indifferenza del conduttore, più aizzatore che moderatore. “Da Porta a Porta a Ballarò, passando per Annozero, Ottoemezzo, e tutto quello che prova a far parlare la politica ma anche no del nostro paese, diventa quella cosa lì, quella che ha reso famoso Aldo Biscardi” scriveva nel 2011 Marco Ciriello. E sulla stessa linea si schiera anche uno uomo di sport come Darwin Pastorin. La conseguenza del Processo e, poi, dei suoi figli è stata quella di sdoganare un nuovo tipo di linguaggio dai toni più alti, tanto nel mondo dello sport che in quello dell’attualità.
Complotto omnia vincit
Le trasmissioni urlate come il Processo si basano sui tifosi: quelli a casa davanti al televisore e quelli in studio, che ne sono una sorta di avatar. E la conformazione dello show consente ai tifosi di dare sfogo ai propri istinti, alle proprie idiosincrasie, alle proprie paranoie: emerge, infine, la logica del complotto, unica spiegazione possibile per le sventure della propria squadra. E le paranoie da accerchiamento rinsaldano il senso di appartenenza meglio di qualsiasi altra cosa: più si è tifosi, più si è paranoici, e più si è paranoici più si è tifosi.
Esiste una superba simmetria tra il complotto contro la Juventus dietro alla scandalo Calciopoli del 2006 e il complotto contro Berlusconi ordito dalla UE nel 2011. Il primo servì a “fare fuori” quello che era l’uomo più potente del calcio italiano dell’epoca, Luciano Moggi, e il secondo sortì il medesimo risultato con l’uomo più potente della nostra politica. In entrambi i casi, si parlò più o meno di un “golpe”: dell’Inter contro la Juventus, della sinistra contro la destra. Le stesse terminologie e gli stessi schemi mentali che si ripetono da un caso all’altro: la cospirazione dei nemici per aggirare le regole meritocratiche (del campo sportivo o del voto democratico) e togliere di mezzo un avversario scomodo.
Prima ancora di Calciopoli, il mondo dei tifosi è sempre stato convinto dell’esistenza di una grande Cupola di potenti del pallone che manovrano i risultati a loro piacimento: per il tifoso di una piccola squadra, si trattava di quelle che un tempo erano dette “Le 7 Sorelle”, cioè le sette squadre che dominavano i posti per le coppe europee negli anni Novanta; per il tifoso della squadra di medio livello, sono le Tre Grandi – Juventus, Inter e Milan; per un tifoso di una grande squadra, la Cupola sono i dirigenti delle altre due, o addirittura la UEFA o la FIFA. La Cupola è una massoneria nazionale o internazionale che presiede all’ordine segreto e immutabile del mondo del calcio, come gli Illuminati – o la BCE, la Troika, la UE, le banche, Soros, eccetera – detengono il controllo del mondo socio-politico, impedendo ogni spinta di cambiamento. Sono loro, i Poteri Forti.
Difficile risalire a chi coniò per primo il termine, ma anche in questo caso siamo di fronte a una parola usata con la stessa identica facilità sia in ambito sportivo che in quello politico. Sono “Poteri Forti” quelli che ritardano l’introduzione della VAR in Europa secondo il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis, quelli che tenevano l‘ex-stella del Milan – e poi deputato – Gianni Rivera lontano dal calcio, quelli che hanno bloccato la carriera di allenatore di Claudio Gentile. E sono “Poteri Forti” quelli che ostacolavano il governo di Matteo Renzi, quelli che hanno disarcionato Berlusconi secondo Enrico Mentana, quelli che si mettono contro Matteo Salvini. Ci sono abbastanza Poteri Forti per tutti, a quanto pare: nessuno è favorito per vincere il campionato, sono tutti outsider.
Lo slittamento dal calcio al contesto socio-politico è abbastanza facile, se consideriamo la somiglianza tra un club e un partito (o meglio ancora un’ideologia): entrambi rappresentano una determinata idea del mondo, dei determinati valori. L’Inter è la squadra “pazza” e sfortunata, il Milan (da Berlusconi in poi) la squadra bella e di successo, la Juventus incarna la fierezza dell’aristocrazia sabauda (non è un caso che, come Casa Savoia ha unificato politicamente l’Italia, la Juventus lo abbia fatto sportivamente). E all’estero ritroviamo il Barcellona (“Més que un club”) dell’indipendentismo catalano, il Real Madrid del potere centrale castigliano, della Corona e del conservatorismo, l’Ajax giovane e rivoluzionario, il Liverpool operaio, e così via.
Questi valori percepiti rendono la mente del tifoso permeabile a teorie paranoidi che giustifichino eventuali difficoltà o limiti della propria squadra. I complotti arbitrali per determinare a priori il vincitore di una partita non sono nemmeno calcolabili: in tempi pre-VAR, erano almeno uno per ogni giornata di campionato, alimentati immancabilmente dalla stampa, che nello sport è divenuta cassa di risonanza del sospetto decenni prima che nell’attualità. L’Equipe, il più importante quotidiano sportivo europeo, sosteneva già senza mezze misure la tesi di un complotto a favore dell’Inghilterra padrona di casa nei Mondiali del 1966, dopo la controversa semifinale contro l’Argentina.
Per chi ha voglia di cercarli, complotti e truffe si trovano fin dagli albori del calcio: la prima combine accertata nel nostro paese risale al 1927; le prime ipotesi di complotto in un Mondiale emergono dalla prima edizione, nel 1930. E quando il complotto non è contro una squadra, può essere contro uno specifico individuo: nel 1994, i fan di Maradona denunciarono un intrigo della FIFA per incastrarlo per doping ed escluderlo dai Mondiali, vanificando così le chance dell’Albiceleste di vincere il titolo (andato, poi, ai rivali del Brasile).
Ma finché le teorie assurde restano limitate ai tifosi, il problema è relativo. Diventa rilevante quando esse vengono blandite anche dai dirigenti: di recente, per esempio, l’ex-presidente della UEFA Michel Platini ha accusato TAS e FIFA di aver ordito un “complotto per impedirmi di diventare presidente della FIFA”. Tutta l’epoca recente è incarnata da figure politiche che, abbandonando i moderati toni istituzionali, cedono allo stesso linguaggio e alle stesse narrazioni delle tifoserie. Che differenza c’è tra Platini e Trump che sostiene che il surriscaldamento globale sia un’invenzione anti-americana partorita dai cinesi?
I cosiddetti “Poteri Forti” sono stati sdoganati dai dirigenti delle società minori della Serie A e, da lì, si sono trasmessi ai loro corrispettivi politici, dirigenti di partiti di minoranza intenzionati ad alzare i toni dello scontro per far parlare di sé. Confrontate le affermazioni e le parabole di personaggi come Luciano Gaucci, Maurizio Zamparini, e Vittorio Cecchi Gori, con quelle di Umberto Bossi, Clemente Mastella o Renato Brunetta: stessa terminologia, stessi ragionamenti. Stesse roboanti esagerazioni.
Il regno delle bufale
La grande storia dell’inizio del calciomercato estivo 2019 è stata indubbiamente il caso Guardiola alla Juventus. Una notizia nata non si sa bene dove che è iniziata a crescere e circolare, fino a venire rimbalzata da giornalisti tradizionalmente affidabili come Luca Momblano e, autoalimentandosi con ricostruzioni oltre il limite della paranoia complottista e finti testimoni e profili social fasulli – pronti a giurare di avere visto il tecnico spagnolo a Torino – è arrivata fino su Agi, uno dei più seri e affidabili organi d’informazione italiani. Mentre, appena più in là, la maggior parte dei professionisti del settore smentiva categoricamente la possibilità e veniva sbeffeggiata dai tifosi. Finché, dopo settimane di speculazioni, la Juventus ha ufficializzato Maurizio Sarri.
Ma questa di Guardiola è stata solo la più recente e clamorosa delle fake news del calciomercato: l’estate di ogni appassionato vive di decine di storie del genere a cadenza annuale. E, a dire il vero, non è nemmeno più solo l’estate, perché il calciomercato dura tutto l’anno. Anche in questo caso, ringraziamento d’obbligo a Berlusconi, che tramite le sue tv impose il mercato permanente, trasformando le contrattazioni – un tempo affari riservati a dirigenti e procuratori – in soap opera appassionanti come quelle di Rete4. E non è un caso che proprio Berlusconi abbia legato il calciomercato del Milan alle campagne elettorali di Forza Italia, acquistando i giocatori giusti per guadagnare voti appena prima della consultazione.
Perché il calciomercato, in fondo, è propaganda: StudioSport è sempre stata una trasmissione a uso e consumo del tifoso rossonero, costruita per esaltare il Milan e far sognare i supporters. Similarmente, il TG4 esaltava la statura politica di Berlusconi e sviliva i suoi avversari. Chi pensa che il calciomercato moderno consista nella compravendita dei giocatori si sbaglia: il punto sono le promesse e i sogni che i possibili acquisti – e non necessariamente quelli reali – si portano appresso. È l’illusione, che conta.
Nel 2016, l’Oxford Dictionary celebrava l’avvento dell’era della Post-Verità, con riferimento a come le notizie false avessero orientato il referendum sulla Brexit o le elezioni negli USA verso risultati inattesi. Ma il calcio viveva nella Post-Truth Era già da diversi anni: la propaganda del mercato serve a vincere la corsa agli abbonamenti, vera spia della forza di una società, come lo sono i militanti di un partito. E, mentre il calciomercato diveniva permanente, la stessa cosa succedeva alla campagna elettorale.
Le elezioni non sono altro che una finale di coppa, un match aperto in cui – se il mercato ha funzionato bene, i tifosi sono caldi, e la tua strategia è adeguata – puoi vincere un titolo. E dopo il trofeo cosa c’è? Festeggiamenti, dileggio degli sconfitti, e di nuovo progettazione della prossima stagione e calciomercato. Non si governa più; al massimo si fa qualche decreto, destinato a scadere in un paio di mesi e che necessita quindi d’essere rifatto. Anzi, governare è irrilevante: il punto è vincere le elezioni, e poi iniziare a progettare come vincere le prossime.
E se il calcio ha aggiunto i tornei estivi per non rischiare di farci annoiare, la politica ha trasformato in tornei estivi i turni delle amministrative, i referendum, le elezioni europee. Vittorie e sconfitte che stabiliscono lo stato di forma della squadra in vista del trofeo più importante del quinquennio, come i Mondiali e gli Europei. I tifosi citano le percentuali ottenute nei sondaggi come se fossero dati reali: un partito che ha ottenuto il 10% alle elezioni e il 15% in un sondaggio un anno dopo, “sta al 15%” anche se il suo peso parlamentare non è cambiato.
Solo negli ultimi anni le bufale sono diventate un problema reale nel mondo dell’informazione, schiava del click, delle visualizzazioni che portano introiti pubblicitari e consentono di mettere in secondo piano la deontologia professionale. Il giornalismo sportivo, invece, ci si è confrontato con decenni di anticipo, quando i click erano le copie vendute, e invece che combatterle ci è venuto a patti: in cambio di maggiori guadagni, la stampa calcistica ha rinunciato di buon grado a parte della sua credibilità, affidandosi all’idea che lo sport sia un argomento leggero e “poco serio”, e quindi che la sua informazione vada giudicata con minore severità.
I lettori-tifosi ci credono, in definitiva, perché vogliono; “Siamo noi a volerne ancora e ancora e ancora, fino a ubriacarci e non capire più la differenza tra i sogni e la realtà” scrive Giuseppe Pastore, a proposito del calciomercato. Sul tema sono stati condotti diversi studi di psicologia, i cui risultati dicono che selezioniamo “le informazioni che riceviamo in modo che corrispondano alle nostre convinzioni, mentre vengono scartate come poco affidabili o credibili le informazioni dissonanti”.
Confondendo realtà e finzione, le fake news finiscono per generare un curioso paradosso: ci portano a diffidare dei giornalisti – anzi, dei “giornalai”, termine dispregiativo coniato in ambito sportivo, e nel 2014 riutilizzato dal leader del M5S Beppe Grillo – abbassando così le notizie vere al livello delle false. Entrambe possibili allo stesso tempo; non fatti e invenzioni, ma entrambe opinioni.
La militanza, dalla politica allo stadio
Una delle cose che più spesso si dicono a proposito della crisi della politica è il calo dei militanti: un tempo il PCI poteva schierare un vero e proprio esercito di volontari che credevano ciecamente nel partito e tenevano in piedi eventi, manifestazioni, volantinaggi, raccolte fondi, e via dicendo. Oggi non è più così, ma il bisogno di militanza si è spostato dalla sfera politica a quella sportiva: negli ultimi decenni, infatti, sono state le tifoserie ultras a guadagnare un’influenza sempre maggiore nel mondo del calcio. La curva non è più “l’epilogo di una settimana militante, ma diventa l’unico posto di aggregazione giovanile”, scrive Italia Proletaria.
E molto spesso queste tifoserie sono tutt’altro che apolitiche: già nel 1976, Lotta Continua metteva in evidenza la “spinta all’organizzazione e alla solidarietà collettiva” dei gruppi ultras, gettando un ponte tra l’epoca d’oro dell’attivismo politico e l’inizio di quella dell’attivismo sportivo. Proprio dal primo, i gruppi ultras ripresero alcune forme comunicative (“Boys carogne tornate nelle fogne”, solo uno dei tanti slogan traslati dalla politica extra-parlamentare al campo da gioco) o l’abbigliamento (bastoni avvolti negli stendardi, passamontagna e fazzoletti sul volto). Così, mentre la militanza politica si trasferiva sul piano sportivo, la politica si “footballizzava” a sua volta, e partiti e movimenti si legavano in maniera sempre più stretta agli ultras.
Non stiamo parlando solo di Salvini che confabula amabilmente con Luca Lucci, uno dei leader della Curva Sud del Milan con due condanne penali in curriculum. Le tifoserie di calcio sono di frequente in contatto con la politica, specialmente con quella di destra ed estrema destra: Francesco Baj, tra i condannati per l’assalto dei tifosi interisti a quelli napoletani del Santo Stefano 2018, è uno dei proprietari di una cascina in zona Rosate che ha spesso ospitato i raduni dell’associazione neonazista Lealtà Azione. Tra i neofascisti a cui, nel luglio 2019, sono state sequestrate diverse armi da fuoco e pure un missile aria-aria, figurano anche alcuni ultras della Juventus.
L’ambito ultras è quello in cui la commistione tra politica e sport è più evidente. Proprio negli stadi sono arrivati i primi DASPO: nati espressamente con finalità limitate all’ambito sportivo – l’acronimo, infatti, significa Divieto di Accedere alle manifestazioni SPOrtive – sono poi stati estesi, senza mutarne il nome, a quello urbano, divenendo omologhi ai decreti di espulsione per soggetti a vario titolo indesiderati. Confermati a settembre 2018 dal governo di destra Lega-M5S, erano stati precedentemente introdotti da un governo di centrosinistra, dimostrando la trasversalità della norma.
Il continuo ricorrere, comunque, della Lega tra i principali riferimenti della footballizzazione della politica, non è sintomo di faziosità del sottoscritto. Giorgio Triani scrive che il partito fondato da Umberto Bossi è stato fin da subito il “più puntuale e compiuto prodotto della calcistizzazione della società italiana, la traduzione partitica di un’ideologia che ha avuto ed ha i suoi luoghi deputati nelle curve degli stadi e attorno ai tavoli del bar sport”.
La Lega Nord nasce come partito “dal basso”, come una libera associazione di “tifosi” delusi che pretende di sostituirsi all’allenatore e fare la formazione. Parallelamente, negli ultimi anni i gruppi ultras hanno ottenuto un potere tale da arrivare addirittura a ottenere colloqui con la società, i giocatori e l’allenatore per esporre le proprie lamentele o ottenere scuse per un cattivo rendimento, cosa che fino a pochi decenni fa sarebbe stata impensabile.
A dicembre 2018, il leghista Daniele Belotti – già frequentatore della curva dell’Atalanta – ha annunciato di stare lavorando alla creazione di un gruppo interparlamentare di politici-tifosi per affrontare la questione ultras, coinvolgendo colleghi come Paolo Lattanzio, M5S e membro della curva del Bari dai 14 anni; Francesco Critelli, Pd e curva del Catanzaro; Claudio Barbaro, Lega e curva sud romanista; e Pasquale Pepe, anche lui leghista che, come avvocato, ha difeso numerosi tifosi colpiti dal DASPO.
Infatti, se la politica in passato ci ha abituato a parlare di “tollerenza zero” dopo gli episodi di tifo violento, successivamente agli scontri di Inter-Napoli Salvini è intervenuto in maniera diamentralmente opposta: “Chiudere gli stadi e vietare le trasferte condanna i tifosi veri, milioni di persone che hanno diritto a seguire la propria squadra e che non vanno confuse con pochi delinquenti che girano con il coltello in tasca” ha spiegato a gennaio 2019 il Ministro. La Lega, negli anni, sembra essersi trasformata allora dal partito del bar-sport a quello della curva.
Calcio e politica / calcio è politica
Il lato ironico di tutto ciò è che, ancora oggi, non è infrequente udire persone uscirsene con messaggi del tipo “Lasciate la politica fuori dal calcio”. Lo ha detto, ad esempio, l’allenatore della Svizzera Vladimir Petkovic, ma anche l’ex-sindaco di Roma Walter Veltroni. Sostenere una cosa del genere denota una disarmante ingenuità: sarebbe come chiedere che la politica resti fuori dall’economia.
Che il calcio sia (anche) politica dovrebbe essere evidente anche senza aver letto tutte le righe precedenti. E su questo assioma sono nel tempo sorti alcuni siti che fanno del racconto del calcio in chiave ideologica il loro perno, come Minuto Settantotto, Sport Popolare o Sport Alla Rovescia. Il calcio, in quanto fenomeno sociale, è pervaso da differenti visioni del mondo, e questa è politica. Il rapporto tra i due fattori, ormai, è divenuto inscindibile.
La grottesca incursione di Salvini alla console del Papeete non è la solita banale riproposizione del modello del politico vicino alla gente comune: Milano Marittima è stata per anni la spiaggia simbolo delle vacanze dei calciatori della Serie A. Personaggi come Filippo Inzaghi e Bobo Vieri erano protagonisti degli anni d’oro del nostro campionato e pure delle notti estive romagnole: sono stati – Vieri in particolare – l’archetipo stesso del Bomber, campione di calcio sì, ma anche e soprattutto fenomeno della vita notturna, machista e sciupafemmine un po’ rozzo e “ignorante”. Il fenomeno del bomberismo ha preso ispirazione da personaggi come loro e si è poi esteso oltre lo sport, una filosofia di vita che ha prosperato grazie a pagine Facebook come Sesso, Droga e Pastorizia, ma soprattutto Chiamarsi Bomber, Calciatori Brutti, Serie A – Operazione Nostalgia e via così.
Dal nostalgismo calcistico a quello politico, il culto del Bomber è germogliato in quelle pagine trasformandosi presto nel culto del Capitano: tra quei post si è formata la nuova destra-social italiana, un po’ come l’alt-right statunitense ha fatto con 4chan. Proprio Minuto Settantotto, nel 2016, aveva scritto un duro articolo contro Serie A – Operazione Nostalgia, la pagina che nel frattempo è assurta a miglior simbolo del fenomeno, essendo arrivata a organizzare partite di vecchie glorie trasmesse in pompa magna su DAZN. Il più diretto riferimento culturale di Salvini, al netto di tutte le cervellotiche riflessioni, proviene esattamente da qui.
Le recenti ascese della destra populista in politica e nel calcio sono due fenomeni che raramente sono stati messi in relazione, ma è abbastanza evidente che quest’ultima abbia educato uno specifico bacino d’utenza per l’altra. E questo è un percorso da cui non è possibile tornare indietro: auspicare una “depurazione” del calcio dalla politica o viceversa vale come sperare un ritorno all’economia del baratto. Si può modificare un paradigma, ma non cancellarlo dalla storia.
Invece, una presa di coscienza della situazione può rappresentare il primo passo per elaborare una strategia efficace per rispondere alla destra in entrambi i campi. Anche perché, in mezzo alla sempre più grave crisi dell’informazione, ci sono alcuni esempi di siti in crescita che riescono a proporre contenuti di valore, utilizzando uno stile popolare e facilmente fruibile da tutti pur parlando con serietà e affidabilità questioni spesso anche tecniche e complesse. Nel calcio, il miglior esempio è L’Ultimo Uomo; nell’attualità politica, vale la pena citare Il Post: entrambi denotano il bisogno di una crescente parte dei lettori di sottrarsi a una comunicazione divenuta sempre più becera, frivola ed esasperata. Se si vuole un punto di partenza, non può che essere questo.