La funzione sempre più pervasiva della magistratura come organo di repressione del dissenso
- maggio 10, 2024
- in misure repressive
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La repressione del dissenso è diventata la normalità in Italia, dove in nome dell’ordine pubblico sembra si vogliano azzerare le proteste sociali e dove la critica e la lotta per una società differente non viene contemplata, ma sempre più criminalizzata
di Monica Cillerai da l’Indipendente
Decreti contro le occupazioni illegali, contro le feste non autorizzate, contro i poveri che commettono reati minori. DASPO urbani per gli “indesiderati” dei centri cittadini, pene aggravate per i blocchi stradali e gli imbrattamenti degli attivisti climatici. Inchieste per associazione a delinquere contro sindacalisti e collettivi impegnati nelle lotte sociali. E manganellate e processi per chi continua a scendere in piazza nonostante tutto. La repressione del dissenso è diventata la normalità in Italia, dove in nome dell’ordine pubblico sembra si vogliano azzerare le proteste sociali e dove la critica e la lotta per una società differente non viene contemplata, ma sempre più criminalizzata. Se le forze di polizia sono il braccio armato di questa parabola autoritaria, la magistratura e i tribunali – insieme agli organi legislatori – ne sono la testa pensante. Nell’epoca delle crisi di fiducia e di partecipazione alle politiche statali, la risposta della maggior parte delle democrazie europee è la repressione di ogni forma di dissenso. Una tendenza verso una forma di “democrazia autoritaria” di cui anche la Giustizia è co-responsabile. Ma quali sono gli strumenti della magistratura per la repressione del dissenso sociale? Cercheremo, brevemente, di fare un riassunto dei reati più usati dalle procure negli ultimi anni e di alcune tra le principali forme di controllo e di sanzione impiegate.
L’interruzione di pubblico servizio e la resistenza contro pubblico ufficiale
22 marzo 2024, Malpensa, aeroporto. Quattro persone vengono arrestate per aver bloccato un aereo della Air Marocco, su cui pensavano ci fosse un attivista che stava in quel momento venendo deportato a Casablanca perché senza documenti e con un decreto di espulsione, sedato e legato. Nel tentativo ultimo di impedire il rimpatrio, si sono messi sulla pista di atterraggio davanti al velivolo, convincendo il comandante a non partire con il recluso sull’aereo. Poco dopo, i quattro sono stati arrestati e portati in carcere con l’accusa di attentato alla sicurezza dei trasporti, resistenza e interruzione di pubblico servizio. L’accusa di attentato non è stata confermata al processo per direttissima e i quattro sono stati scarcerati, ma con varie misure cautelari: obbligo di dimora a Torino, obbligo di firma quotidiano e rientro notturno dalle 7 di sera alle 7 del mattino. Pochi mesi fa, altre dodici persone erano state arrestate e portate in prigione per aver bloccato l’autostrada Roma-Civitavecchia per manifestare contro l’inazione al cambiamento climatico. Due degli attivisti, appartenenti a Ultima Generazione, si erano incollati le mani sull’asfalto e gli altri avevano disturbato la circolazione del traffico con uno striscione per una mezz’ora. I reati contestati erano attentato alla sicurezza dei trasporti, interruzione di pubblico servizio e violenza privata aggravata. Anche in questo caso, dopo tre giorni di carcere, il processo per direttissima ha visto cadere l’accusa di attentato: gli eco-attivisti sono stati scarcerati con l’obbligo di dimora nel Comune di residenza. La resistenza contro pubblico ufficiale, reato punito dai 6 mesi ai 5 anni di carcere, e l’interruzione di pubblico servizio sono tra i reati più contestati durante le manifestazioni pubbliche o le azioni di piccoli gruppi di attivisti, dato il largo spettro di applicabilità.
L’accusa di associazione a delinquere per chi si organizza
Dicembre 2018, Milano. Nove persone vengono arrestate con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata all’occupazione abusiva di immobili di proprietà pubblica e di resistenza a pubblico ufficiale. L’operazione, denominata “Robin Hood”, ha messo sotto indagine in tutto 75 persone, che ruotavano attorno al centro sociale Base di Solidarietà Popolare e che avevano formato il Comitato Abitanti Giambellino, gruppo che si organizzava per aiutare le persone sotto sfratto nel quartiere e anche per occupare immobili vuoti come risposta all’emergenza abitativa. Non c’era nessuna forma di lucro, ma – come dicono le carte processuali – a essere sotto accusa era proprio la propagandata “giustizia sociale” a tutela del diritto della casa: nel 2022 i nove indagati sono stati tutti condannati a pene fino a 5 anni e 5 mesi.
Luglio 2022, Piacenza. Sei sindacalisti di SI Cobas e USB vengono arrestati e altri due sottoposti a misure cautelari con l’accusa di “associazione a delinquere” per violenza privata, resistenza a pubblico ufficiale, sabotaggio, estorsione e interruzione di pubblico servizio. Le accuse sono legate agli scioperi nel settore della logistica tra il 2014 e il 2021: i “fatti criminosi” del teorema giudiziario sono gli scioperi, i picchetti, le occupazioni dei magazzini, le assemblee. Di fatto, le pratiche di lotta. A marzo di quest’anno la procura emiliana, nella figura dei pm Matteo Centini e della procuratrice Grazia Pradella, ha chiuso le indagini, confermando le ipotesi del reato associativo.
Aprile 2023, Padova. Il pm Benedetto Roberti accoglie le ipotesi di reato formulate dalla DIGOS e accusa dodici militanti di Ultima Generazione di “associazione a delinquere”. Gli episodi contestati sono tre blocchi del traffico con degli striscioni, un incatenamento simbolico nella Cappella degli Scrovegni per protestare contro l’utilizzo del gas e del carbone, una scritta con vernice spray, una performance teatrale e un fallito tentativo di imbrattamento dei muri della sede della Lega. Per il pubblico ministero si tratta di associazione a delinquere con finalità di interruzione di pubblico servizio, ostacolo della libera circolazione, deturpamento di beni culturali e imbrattamento dei luoghi.
Gli esempi continuerebbero. Si potrebbe citare l’inchiesta per associazione a delinquere contro i disoccupati organizzati di Napoli, o il processo in corso contro i militanti di Askatasuna di Torino, accusati per le lotte portate avanti nelle rispettive città. Le accuse di associazione a delinquere – reato punito dai 3 ai 5 anni di detenzione – sono uno dei teoremi principali per perseguire e criminalizzare le lotte sociali, ma non sono gli unici. A questa categoria appartiene anche il reato di associazione sovversiva, con o senza la finalità di terrorismo. L’associazione sovversiva è – ancora di più – nata per criminalizzare e reprimere chi lotta, anche “violentemente”, contro lo Stato per proporre un sistema socio-economico e politico differente dalla democrazia liberale. Le pene per associazione sovversiva vanno dai 5 ai 10 anni di carcere. Questo reato, molto “politico”, viene meno utilizzato ultimamente perché difficile da confermare in Tribunale, ma resta un’accusa molto pesante che, quando utilizzata, permette lunghe misure cautelari.
Un esempio attuale è il processo in corso per il giornale anarchico Bezmotivny, la cui supposta redazione è stata messa sotto accusa per associazione sovversiva con finalità di terrorismo, istigazione a delinquere con l’aggravante della finalità di terrorismo e stampa clandestina. Sotto indagine, nessuna azione: solo i loro testi, considerati “sovversivi” dal Tribunale di Genova. Per tutti e nove gli imputati il pm Manotti aveva chiesto la detenzione in carcere; da agosto, quattro si trovano agli arresti domiciliari e cinque hanno l’obbligo di dimora nel Comune di residenza con rientro notturno. È forse il primo caso in cui un gruppo viene accusato di associazione sovversiva solo per i suoi articoli scritti.
L’istigazione a delinquere e l’apologia di reato. Reati di opinione?
Il reato di istigazione a delinquere prevede che «Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti; con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a euro 206, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni». L’apologia di reato, invece, consiste nell’esaltare o difendere pubblicamente un’azione riconosciuta reato dalla legge della nazione in cui si vive. Negli ultimi anni, questi due capi d’accusa vengono sempre più utilizzati dai pubblici ministeri per processare chi – tramite discorsi pubblici o testi scritti – “sollecita” a non rispettare determinate leggi, a infrangerle, o difende ed esalta chi le ha infrante. Come “il popolo di Fleximan”, l’ormai celebre giustiziere degli autovelox, osannato sui social come “Robin Hood” dei multati. La procura di Treviso aveva ipotizzato l’accusa di apologia di reato per chi applaudiva le sue gesta e per chi esortava, sul web, a ripetere le decapitazioni dei velox.
Un altro caso famoso fu l’accusa contro lo scrittore Erri De Luca, nel 2013: «la TAV va sabotata», aveva dichiarato in un’intervista, finendo così sotto indagine della procura di Torino per istigazione a delinquere – e venendo successivamente assolto. Tuttavia, sono numerosi i processi finiti con condanne per semplici scritti, manifesti o discorsi fatti pubblicamente. A oggi, anche la diffusione di video che mostrano reati può finire sotto accusa: è il caso, per esempio, di una 27enne palermitana, accusata lo scorso 21 marzo di istigazione a delinquere per la diffusione del video di un danneggiamento avvenuto nel 2022 della sede di Palermo della Leonardo SPA, storica azienda bellica, e costretta ora a un obbligo di firma. Anche gruppi o collettivi possono essere toccati da questa accusa. È il caso, per esempio, della redazione del giornale anarchico Vetriolo, finita sotto processo nel 2021 per «istigazione a delinquere aggravata dalla finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico» per i suoi testi. Sei le ordinanze di misura cautelare, di cui una in carcere e un’altra agli arresti domiciliari. Viene da domandarsi quale sia il confine tra la libertà di espressione, di opinione e di stampa, e la legge.
Le accuse di “terrorismo” e l’aggravante della “finalità di terrorismo
L’Unione Europea definisce ufficialmente i reati di terrorismo come atti commessi allo scopo di intimidire gravemente la popolazione o costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un Paese o di un’organizzazione internazionale. Questa definizione, arrivata nel 2001, ha allargato il campo di applicazione del concetto di terrorismo a un insieme di situazioni che prima non venivano così definite. Possiamo infatti riflettere su come «costringere i poteri pubblici a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto» possa includere più o meno qualsiasi lotta sociale, che per sua natura è volta a una modifica dello status quo o all’ottenimento di qualcosa. Anche la «finalità di terrorismo» è uno strumento legislativo sempre più utilizzato.
La repressione delle manifestazioni: il caso del corteo anarchico al Brennero
Il processo sul corteo Abbattere le frontiere, al Brennero e ovunque è forse uno degli esempi più espliciti di repressione giudiziaria verso una manifestazione di piazza. Contro la proposta austriaca di costruire un muro anti-migranti al confine con l’Italia (passo del Brennero), vennero organizzate varie mobilitazioni e il corteo Abbattere le frontiere fu una di esse. Ci furono scontri con le forze dell’ordine e una parte del corteo invase l’autostrada e i binari del treno, bloccando il traffico per qualche decina di minuti. I danni furono stimati in poche migliaia di euro e vari furono gli agenti feriti dai lanci di pietre, tutti lievemente. Eppure, la repressione giudiziaria è stata altissima. Inizialmente, i pm della procura di Bolzano avevano richiesto complessivamente 338 anni di prigione per il reato di devastazione e saccheggio. Quest’ultimo prevede pene dagli 8 ai 15 anni, ma l’accusa è caduta in primo grado. Le condanne in appello, soprattutto quelle per resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio e violenza, sono state comunque altissime, arrivando a 129 anni di prigione per 63 imputati. La corte ha stabilito quasi il massimo della pena per gran parte dei reati contestati, a fronte di prove specifiche esigue. Non ci sono video né foto, infatti, che identifichino qualcuno come responsabile diretto dei reati imputati: il materiale probatorio è scarsissimo, e di fatto si basa su supposti «concorsi materiali» e «concorsi morali» non realmente giustificati. Per uno degli avvocati difensori, Claudio Novaro, è stata fatta una «dilatazione del concorso morale del tutto impropria», che in molti casi ha contribuito ad aumentare enormemente gli anni di reclusione. «Nei casi da me difesi c’è un problema spesso di mera presenza, per cui si dice che se l’indagato, per esempio, si trova nelle prime file del corteo quando il corteo sta commettendo un reato, ne deve rispondere». Secondo l’avvocato, tale dilatazione è incongrua ai principi ermeneutici generali del diritto, in quanto «la Cassazione continua a essere ferma su un principio che è quello del nesso di causalità», ovvero sul principio che l’accusato debba dare un contributo causale diretto alla realizzazione del reato. «Ci deve essere un’agevolazione», che di fatto, invece, non è provata dalle carte dell’accusa. La corte ha invece fatto quello che Novaro chiama «un ragionamento collettivo», come se «tutti dovessero rispondere di tutto». Un precedente grave per le manifestazioni in Italia. In secondo grado i giudici avevano anche negato a tutti gli imputati la possibilità di aderire alla riforma Cartabia, di nuovo senza fare distinzioni tra le differenti situazioni legali degli imputati.
Poche settimane fa, la Corte di Cassazione ha accettato le prescrizioni per alcuni reati, ma l’impianto accusatorio non è stato messo in discussione. Una delle condanne più alte è andata a chi era stato identificato come “organizzatore” del corteo: condannato a quasi 5 anni di detenzione in appello – condanna riformulata grazie alle prescrizioni a circa 2 anni e 10 mesi – per concorso morale con dolo indiretto (indeterminato, alternativo od eventuale), in quanto «gli eventi verificatisi non potevano non essere necessariamente considerati, per le specifiche modalità e circostanze della manifestazione, come possibile conseguenza ulteriore e diversa dalla stessa». Il suo ruolo – provato da video e foto – era di parlare al megafono, vicino allo striscione. Aveva inoltre rilasciato delle interviste radiofoniche per promuovere la partecipazione al corteo. Nessuna immagine lo ritrae negli scontri, eppure ha ricevuto una delle condanne più alte come – di fatto – “responsabile” di tutti i reati avvenuti.
Nuove e vecchie forme di controllo: la videoconferenza nel processo penale
La videoconferenza è la sostituzione della presenza fisica dell’imputato con uno strumento audiovisivo in aula. Tale strumento era stato pensato per evitare che le organizzazioni criminali potessero condizionare le normali dinamiche processuali o influire sulla serenità dei soggetti chiamati a parteciparvi, tanto più se esposti a pressioni e rischi per la loro incolumità, come nel caso dei collaboratori di giustizia nei processi per mafia. La “Riforma Orlando” ha spostato l’asse degli interessi dalla tutela della sicurezza pubblica alla funzionalità dei processi, non prevedendo un atto motivato nel disporre la videoconferenza ma introducendo automatismi con non poche criticità a detrimento delle garanzie. L’uso del processo telematico fu poi sdoganato nel periodo della cosiddetta emergenza pandemica, teoricamente per un periodo limitato di tempo, ma non è stato così. A oggi, infatti, sempre più spesso viene fatto ricorso alla videoconferenza, che di fatto non permette all’imputato di presenziare fisicamente nemmeno davanti al giudice, ma solo tramite schermo, che può anche essere spento o silenziato se considerato “scomodo”. Le virtual participations a udienze e attività procedimentali non possono dirsi neutre e sollevano da sempre perplessità di ordine pratico e giuridico, visto che toccano direttamente le basi della giustizia penale, tra cui l’immediatezza e il contraddittorio, richiedendo una riconsiderazione della dialettica processuale, della stessa nozione di “udienza” e, soprattutto, della effettività del diritto di difesa.
A inizio marzo, uno degli imputati del processo contro il giornale anarchico Bezmotivny è stato costretto alla videoconferenza. È un piccolo e nuovo salto di qualità, dato che potrebbe essere la prima volta in cui questo strumento viene imposto anche nei confronti di un imputato agli arresti domiciliari, contro la sua volontà. Normalmente, infatti, veniva usato per chi era già detenuto in carcere.
La richiesta preventiva di DNA, una schedatura su base ideologica, e le perizie fisiognomiche
Anche il prelievo coatto di DNA per un’indagine in corso è cosa nuova: è successo a Bologna, dove diciannove persone sono state prima invitate e poi forzate (chi si era opposto) a rilasciare un proprio campione biologico alla procura. I fatti risalgono al novembre dell’anno scorso, quando è stata aperta un’inchiesta per 270bis c.p. – associazione sovversiva con finalità di eversione dell’ordine democratico – contro undici persone, accusate di un tentato danneggiamento ad alcuni mezzi della ditta MARR, dell’interruzione di una messa, dell’occupazione di una gru, del blocco di una via con dei cassonetti incendiati e dell’incendio di alcuni ripetitori. È il periodo della mobilitazione contro il 41bis, in solidarietà allo sciopero della fame di Alfredo Cospito. Altre otto persone risultano indagate unicamente per la partecipazione al presidio solidale svoltosi in occasione dell’occupazione di una gru nel centro di Bologna, dalla quale venne calato uno striscione contro il 41bis. A prescindere dalla scarsità di prove portate per la costruzione dell’associazione, basata soprattutto su manifestazioni pubbliche di piazza, la giudice ha imposto a tutti il prelievo di DNA. «Un’indagine che riflette un cambio di paradigma della procedura repressiva: se prima si dovevano avere delle prove da associare a dei presunti sospettati, adesso si trovano dei sospettati predeterminati su cui cucire delle prove», denunciano gli imputati, che parlano di schedatura genetica su base ideologica, «che oggi colpisce le anarchiche e gli anarchici, e chi ha portato loro solidarietà, e domani chissà!».
L’utilizzo sempre maggiore di perizie antropometriche e fisiognomiche da parte delle procure è un’altra innovazione recente: questi periti cercano di identificare l’autore di un determinato delitto comparando i tratti del suo corpo e perfino i gesti con i possibili sospetti. Spesso si finisce per trovare dei presunti responsabili, la cui colpevolezza però non è così certa. Si rischia infatti di cercare – e “trovare” – conferme dove si vuole, soprattutto se si cerca in una cerchia ristretta di persone. È il caso, per esempio, di due donne, accusate nell’Operazione Scintilla di associazione sovversiva per la lotta portata avanti contro i centri di detenzione per migranti di Torino. Entrambe hanno passato molti mesi di detenzione cautelare in carcere perché accusate di essere le responsabili dei tentativi di incendio a due Postamat. Nei video che le incriminerebbero si vedono solo due figure interamente coperte, ma ciò che le avrebbe inchiodate sarebbe il modo in cui una delle due appoggia il piede destro nella camminata, e la maniera in cui l’altra si sistema i capelli e muove il braccio mentre deambula. Tutte le accuse sono cadute durante il processo, insieme all’impianto associativo. Ma, intanto, le due donne hanno passato molti mesi in prigione. I contro-periti, inoltre, sono molto costosi e chiedono migliaia di euro a perizia; ciò preclude a chi non può permetterselo la possibilità di difendersi dalle accuse di questo tipo.
La sorveglianza speciale, una condanna senza reato
La sorveglianza speciale di pubblica sicurezza è una misura di prevenzione regolata dal decreto legislativo del 6 settembre 2011, n. 159 e successive modifiche. Sia in Italia che in Europa si è più volte discusso della sua legittimità costituzionale e della conformità ai princìpi contenuti nella Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o CEDU, in quanto può essere applicata anche solo sulla base di indizi e senza nessuna prova di commissione di illeciti. La sorveglianza speciale, insieme al foglio di via e all’avviso orale, appartiene all’antico sistema delle misure di prevenzione. Tale misura risale a una concezione autoritaria dello Stato prevista dal codice Rocco del 1931, molto usata in epoca fascista, ma è stata più volte riconfermata e anzi estesa con appesantimento delle pene per le violazioni, ed è a tutt’oggi ampiamente utilizzata, soprattutto verso chi impegnato in lotte politiche.
Si applica ai soggetti già colpiti da avviso orale che non hanno accolto l’invito da parte del questore a cambiare la propria condotta e il proprio stile di vita. La sorveglianza speciale è accompagnata da una serie di prescrizioni che devono essere seguite al fine di dimostrare il cambiamento di stile di vita. Essa obbliga il soggetto a «vivere onestamente, rispettare le leggi, non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza, non associarsi abitualmente alle persone che hanno subìto condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, non accedere agli esercizi pubblici e ai locali di pubblico trattenimento, anche in determinate fasce orarie, non rincasare la sera più tardi e non uscire la mattina prima di una data ora e senza comprovata necessità e senza averne data tempestiva comunicazione all’autorità locale di pubblica sicurezza, nonché di non detenere e non portare armi e di non partecipare a pubbliche riunioni. La sorveglianza può inoltre essere aggravata dall’obbligo di soggiorno nel Comune di residenza o dal divieto di soggiornare in un determinato Comune». Viene inoltre sospesa la patente e revocato il passaporto per tutta la durata della sorveglianza, che può avere un massimo di 5 anni. Tali norme sono state spesso criticate come violazione dei diritti politici, di manifestazione e di associazione garantiti dalla Costituzione a tutti i cittadini. Prescrizioni molto stringenti, che obbligano il sorvegliato, anche se non ha commesso nessun reato ma è solo accusato di essere “pericoloso” per le sue idee o per il suo stile di vita, a una forma di semi-libertà.
Gli strumenti utilizzati dalle procure e dai tribunali per controllare e reprimere il dissenso sono molti e in continua evoluzione. Qui ne abbiamo citati solo alcuni. I decreti legge approvati negli ultimi anni stanno implementando l’armamentario giuridico repressivo, aumentando le pene per i reati minori e di carattere politico, così come gli strumenti di controllo e di sanzione. Solo un’adeguata – e ascoltata – critica della repressione sociale potrebbe mettere in discussione la tendenza sempre più autoritaria dello Stato italiano.
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