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La legge beffa sulla tortura e le riforme “impossibili”

Possiamo già chiamarla legge beffa. All’indomani della clamorosa sentenza della Corte europea per i diritti dell’uomo sul caso Diaz, il parlamento  si appresta ad approvare un testo di legge sulla tortura che si discosta nei punti chiave dagli standard internazionali e dalle stesse indicazioni della Corte di Strasburgo.

Avremo quindi presto  una legge che qualifica la tortura come reato generico, che non prevede la imprescrittibilità e – dopo i cambiamenti introdotti in commissione alla Camera – con  una definizione di che cos’è tortura così articolata e ricca di sfumature da risultare difficilmente applicabile (un modo classico per svuotare le norme dall’interno).

Che la tortura sia un reato specifico del pubblico ufficiale è una nozione di senso comune ed è anche il motivo per il quale è oggi necessario introdurre una legge ad hoc: l’Italia è un paese dove la tortura si è praticata e si pratica in troppe occasioni (vedi i Rapporti di Amnesty International) ed è quindi necessario che arrivi alle forze dell’ordine un messaggio molto forte, in grado di avviare un cambiamento di rotta nei comportamenti e un aggiornamento dei parametri culturali di riferimento.

Quanto alla prescrizione, la Corte di Strasburgo si è espressa più volte negli anni scorsi sulla necessità di escluderla in materia di violazione dei diritti umani e lo ha ribadito nella sentenza dell’altro giorno, richiamando precise indicazioni venute sia dal Comitato europeo di prevenzione della tortura, sia dal presidente della nostra Corte di Cassazione. Ma il parlamento ha fatto finta di non sentire e di non vedere.

I “realisti” sostengono che una legge imperfetta è meglio di nessuna legge, ma dovremmo tutti domandarci qual è il fine che vogliamo perseguire. Se si tratta semplicemente di colmare un vuoto legislativo, il risultato sarà presto raggiunto.

Se l’obiettivo è invece intervenire sui limiti “strutturali” nella tutela dei diritti umani evidenziati dalla Corte di Strasburgo; se vogliamo contrastare il malinteso spirito di corpo che dopo Genova ha spinto le forze di polizia a mentire sistematicamente e ostacolare il corso della giustizia;  se intendiamo favorire un’evoluzione democratica delle drammatiche carenze evidenziate dalla Corte di Strasburgo, allora è chiaro che siamo sulla strada sbagliata. Roberto Settembre, giudice nel processo per Bolzaneto, ha parlato di “legge spuntata”; Enrico Zucca, pm nel processo Diaz, si è chiesto: “E’ forse un insulto apprestare strumenti che abbiano una forza deterrente?”
Dovremmo chiederci allora perché le forze progressiste non si siano attestate sul disegno di legge iniziale, presentato dal senatore Luigi Manconi. Perché non si è cercata in parlamento una maggioranza (che ci sarebbe) su quel testo? La risposta è semplice: per una precisa scelta politica.

Il testo di legge non è frutto di un compromesso fra destra e sinistra, ma l’esito di una mediazione al ribasso fra il parlamento (con schieramento bi o tripartisan) e forze di sicurezza ostili e ancorate a una tradizione corporativa che affonda le proprie radici in epoche storiche pre repubblicane.

Manconi nei giorni scorsi ha parlato di “sudditanza psicologica” della politica verso le forze dell’ordine. Potremmo aggiungere che siamo di fronte a due debolezze. Quella di forze di polizia a disagio con gli standard di trasparenza e responsabilità tipici delle democrazie avanzate; e quella di forze politiche incapaci di esercitare fino in fondo il proprio ruolo di indirizzo e più propense – anche qui per tradizione antica – a blandire, adulare, proteggere ad ogni costo e in ogni caso i corpi di polizia e i loro vertici.

Queste debolezze non fanno una forza e anzi minano la credibilità degli uni e degli altri, abbassando la qualità della nostra democrazia. La Corte di Strasburgo, entro poco tempo, esprimerà giudizi probabilmente ancora più forti esaminando i ricorsi presentati per i fatti di Bolzaneto (maltrattamenti e torture durati tre giorni alla presenza di centinaia  di agenti) e l’Italia risponderà con la sua legge beffa sulla tortura e con i suoi incerti progetti sui codici di riconoscimento per le divise degli agenti  (si parla di codici di reparto, anziché individuali, una beffa nella beffa).

Ovviamente non sono in agenda altre riforme necessarie , come la revisione dei criteri di accesso alla professione, oggi riservata in via quasi esclusiva a chi abbia prestato servizio militare obbligatorio, o il ripensamento della formazione degli agenti, con una forte spinta verso la  prevenzione anziché la repressione. Un quadro desolante.

Per chi si è impegnato in questi anni sul fronte dei diritti civili e per un’uscita a testa alta del nostro paese dall’abisso genovese del 2001, il bilancio è molto amaro. Abbiamo vinto la nostra lotta sulla ricostruzione della verità e sulla sua interpretazione, ma stiamo perdendo la battaglia più importante, quella che dovrebbe condurre, per dirla con il nostro scaltro presidente del Consiglio, a “cambiare verso”.

L’Europa dovrà ancora occuparsi di noi.

Lorenzo Guadagnucci

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Zucca: tortura alla Diaz? «la nuova legge un pasticcio, difficilmente applicabile»

Intervista al pg nei processi contro gli agenti della «macelleria messicana». La formulazione della legge appena licenziata dalla camera «è ambigua e tende a limitare l’applicazione della norma». «Purtroppo c’è un partito della polizia che condiziona il dibattito». Le dimissioni di De Gennaro? «Un atto di sensibilità istituzionale che non attiene al giudizio sulla persona»

Se il reato di tor­tura, nella con­fi­gu­ra­zione appro­vata gio­vedì scorso dalla Camera, fosse stato già dispo­ni­bile nel codice penale ita­liano all’epoca del mas­sa­cro com­piuto dalle forze dell’ordine den­tro la scuola Diaz durante il G8 di Genova, otte­nere verità e giu­sti­zia sarebbe stato più facile? Una domanda a cui è dif­fi­cile rispon­dere. Ma se c’è qual­cuno che può ten­tare di met­tere in campo que­sta ipo­tesi e pro­vare a capire se in quel caso gli agenti accu­sati e poi con­dan­nati per la «macel­le­ria mes­si­cana» avreb­bero potuto essere incrimi­nati di tor­tura, que­sto qual­cuno è il magi­strato Enrico Zucca, il sosti­tuto pro­cu­ra­tore gene­rale a Genova che ha con­dotto l’inchiesta e i pro­cessi per la Diaz.

In par­ti­co­lare, ci spie­ghi se è lecito rite­nere — obie­zione sol­le­vata da Sel e dal M5S durante il dibat­tito alla Camera — che la norma sarebbe stata di dif­fi­cile appli­ca­zione per­ché restringe il campo delle poten­ziali vit­time a coloro che sono «affi­dati, o comun­que sot­to­po­sti all’autorità, vigi­lanza o custo­dia» delle forze dell’ordine.

È vero che la for­mu­la­zione delle legge è ambi­gua e lascia molti mar­gini di inter­pre­ta­bi­lità. Però nel caso della Diaz, secondo un’interpretazione esten­siva, potrebbe ancora essere appli­ca­bile. Per­ché ci sono delle sen­tenze della Corte euro­pea che ampliano il con­cetto del con­trollo e della custo­dia da parte delle forze di poli­zia. La Cedu ha rite­nuto per esem­pio che la valu­ta­zione dell’uso spro­por­zio­nato della forza — che può dar luogo alla vio­la­zione degli arti­colo 2 o 3 della Con­ven­zione dei diritti umani — si applica anche quando un indi­vi­duo è già sotto il «full con­trol of the police». Quando cioè la poli­zia ha nelle mani una per­sona, anche se tec­ni­ca­mente non è sot­to­po­sta a fermo o arre­sto, ha l’obbligo di pro­teg­gerla. E non può usare una forza supe­riore a quella neces­sa­ria per ridurla all’impotenza. Que­sta è un’interpretazione della Cedu, però per il giu­dice ita­liano è vin­co­lante, come ha chia­rito la Corte costi­tu­zio­nale. Per­ché la Con­sulta dice che la Con­ven­zione euro­pea dei diritti umani, che nella nostra scala di valori viene appena sotto la Costi­tu­zione, non è quella del testo del Trat­tato ma quella inter­pre­tata dalla giu­ri­spru­denza della Corte. E dalle sen­tenze di Stra­sburgo si ottiene un’interpretazione esten­siva che potrebbe essere appli­cata alla Diaz: se la poli­zia irrompe in un edi­fi­cio e ne prende pos­sesso, le per­sone in quel momento pre­senti sono sotto il con­trollo della poli­zia. È chiaro però che per evi­tare dubbi sull’interpretazione la norma dovrebbe essere scritta in modo più chiaro.

Ci sono altri punti cri­tici nel testo di legge?

La scelta di tec­nica legi­sla­tiva adot­tata, di con­fi­gu­rare la fat­ti­spe­cie non come un «reato di evento» ma come «reato a con­dotta vin­co­lata» rende ovvia­mente più ristretto l’ambito di appli­ca­zione. Per capirci, ad esem­pio l’omicidio è un reato a forma libera, di evento, in cui ciò che conta è il risul­tato dell’azione indipenden­te­mente dalle moda­lità con cui viene com­piuta. Non a caso, la Con­ven­zione Onu non spe­ci­fica par­ti­co­lari moda­lità della tor­tura — «vio­lenza o minac­cia», secondo il testo ita­liano — ma si limita a dire «con qual­siasi atto». Per­ché più si entra nel det­ta­glio, più qual­che moda­lità rischia di sfug­gire alla previsione. Pen­siamo ad Abu Ghraib: costrin­gere le per­sone a man­te­nere certe posi­zioni, come è suc­cesso anche a Bol­za­neto, tec­ni­ca­mente non è con­fi­gu­ra­bile come «vio­lenza o minac­cia» ma solo come com­por­ta­mento ves­sa­to­rio e umiliante.

C’è poi un’altra limi­ta­zione dell’applicazione della norma che riguarda le vit­time della tor­tura e il loro rapporto con il car­ne­fice, e che non è pre­sente nella Con­ven­zione Onu. La vit­tima deve essere infatti secondo la legge ita­liana «affi­data, o comun­que sot­to­po­sta all’autorità, vigi­lanza o custo­dia» del suo carnefice. In que­sto modo tra l’altro si crea anche un rischio di sovrap­po­si­zione e una pos­si­bile inter­fe­renza tra il reato e il mal­trat­ta­mento in fami­glia (arti­colo 572 c.p.). Anche qui non si fa altro che aumen­tare la confusione.

Alla base c’è il pro­blema più gene­rale della con­fi­gu­ra­zione come reato comune e non tipico di pub­blico uffi­ciale. Lei cosa ne pensa?

Per quanto auto­re­voli giu­ri­sti alla fine abbiano rite­nuto que­sta scelta posi­tiva per­ché in que­sto caso ne amplia il campo di appli­ca­zione, io credo al con­tra­rio che così facendo si perda l’occasione di cogliere la vera natura del reato di tor­tura, disco­stan­dosi dalla tra­di­zione sto­rica, che è quella di essere la vio­lenza del potere e dello Stato dal quale il cit­ta­dino si aspetta pro­te­zione e per que­sto lo col­pi­sce nella sua mas­sima con­di­zione di vul­ne­ra­bi­lità. Per lo meno, accanto a un reato comune si sarebbe potuto meglio con­fi­gu­rare una fat­ti­spe­cie com­ple­ta­mente auto­noma per il pub­blico uffi­ciale, una tec­nica che il legi­sla­tore ha sem­pre adot­tato nel nostro codice penale. Sarebbe bastato rifarsi un po’ di più alla Con­ven­zione che dob­biamo appli­care da trent’anni.

Dei 400 poli­ziotti che entra­rono alla Diaz solo 25 ven­nero con­dan­nati. Lei parlò di atteg­gia­mento omer­toso delle forze dell’ordine.

Certo, e que­sto lo con­fer­mano le sen­tenze dei giu­dici ita­liani di tutti i gradi di giu­dizi e con mag­gior forza la Cedu. Il pro­blema è che qual­siasi pro­po­sta con fina­lità di con­trollo viene vis­suta come ingiu­sta­mente cri­mi­na­liz­zante nei con­fronti della poli­zia. Anche la pro­po­sta bana­lis­sima di intro­durre i codici iden­ti­fi­ca­tivi, non a caso men­zio­nata dalla Cedu, solo in Ita­lia è rifiu­tata dalla poli­zia. Che sem­bra avere il diritto di veto. Purtroppo da noi c’è un par­tito della poli­zia che con­di­ziona il dibat­tito e richiama ad uno ste­rile schieramento. Una debo­lezza di fondo che poi si riflette sulle leggi. Dico di più: in realtà, e non sem­bri un’esagerazione, que­sta legge deve essere “puni­tiva” nei con­fronti delle forze dell’ordine, ma pro­prio per seguire le fina­lità della Con­ven­zione. Tutta la giu­ri­spru­denza della Cedu pone l’enfasi sull’efficacia deterrente del mec­ca­ni­smo repres­sivo degli abusi. Ma non mi sem­bra sia stata molto con­si­de­rata nei lavori parlamentari.

Lei crede che l’allora capo della poli­zia De Gen­naro dovrebbe dimet­tersi dal suo attuale ruolo a capo di Finmeccanica?

Non sono certo tito­lato io a dirlo. Rilevo solo che le dimis­sioni, o il famoso passo indie­tro, sono un atto di respon­sa­bi­lità, di sen­si­bi­lità isti­tu­zio­nale, che non atten­gono neces­sa­ria­mente al giu­di­zio sulle qua­lità profes­sio­nali o per­so­nali. Durante tutto il pro­cesso per i fatti della Diaz abbiamo ascol­tato l’esaltazione delle qua­lità eccel­lenti di coloro che poi ven­nero con­dan­nati. Come se avere qua­lità eccel­lenti, che non si negano, garan­tisse l’immunità o l’esenzione da cri­tica per gli errori. La recente sen­tenza della Cedu, spiace dirlo e spiace con­sta­tare che altri non l’abbiano detto, indi­vi­dua spe­ci­fi­che vio­la­zioni della Con­ven­zione adde­bi­tan­dole a pre­cise isti­tu­zioni dello Stato ita­liano. Quindi fa i nomi e i cognomi dei responsabili.

da il manifesto

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Una legge ingiusta camuffata da legge giusta di Roberto Settembre da Libertà&Giustizia

Tre sono le ragioni d’essere della legge penale: due primarie e una conseguente. La prima è dissuadere. La seconda è punire, o meglio retribuire la condotta con la sanzione adeguata. La terza è recuperare il reo alla vita consociata, che ha senso solo se le prime due funzionano. Ma la legge che non dissuade e che non punisce tradisce se stessa. Così è per la legge italiana che vorrebbe istituire il reato di tortura.

Il nostro legislatore l’ha redatta costituendo l’ipotesi di un reato COMUNE, che può essere commesso da chiunque, come il furto o l’omicidio. Ma l’Italia, che arriva 65 anni dopo la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo del 1950, 31 anni dopo la Convenzione di New York del 1984, che ha respinto al mittente le messe in mora dell’ONU e che nel 2006 ha risposto al Comitato Europeo contro la Tortura con le parole beffarde: tale reato è out of our mentality, finge di non sapere che la tortura è invece il delitto del potere dello Stato. Il delitto più infame che lo Stato possa commettere contro un cittadino inerme alla sua mercé. E’ l’abietto maltrattamento inumano e degradante di cui all’art. 3 della CEDU, portato alle più nefaste conseguenze. E può essere commesso, per sua stessa natura, solo dallo Stato nella persona del suo organo. Questa è la ragione, lo spirito che anima tutte le Convenzioni Internazionali che la vietano, fin dalla Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra, passando per la CEDU , la Convenzione di NY, e fino ai Protocolli ONU del 2002.E tutte queste Convenzioni l’Italia ha ratificato. Ha solo omesso di istituire questo reato come reato PROPRIO.

Parte male: anzi non parte affatto, il legislatore italiano, perché tradisce lo spirito di tutte queste Convenzioni, fallendo nella sua deterrenza, perché l’efficacia di una legge che abbia per destinatario il potere dello Stato quando viene esercitato nel modo più aberrante e abbietto, non deve lasciare scampo a chi si macchia di tale onta. E dev’essere imprescrittibile. E invece la pena minima, che è quella da cui partono i giudici, di fatto, nel sanzionare la condotta del reo, è di 3 ANNI DI RECLUSIONE. TRE anni significano, nel nostro sistema, DUE anni con la concessione delle attenuanti generiche ( che difficilmente si negano) e, nel caso del patteggiamento o del rito abbreviato, ANNI UNO E MESI QUATTRO. A cui seguono i benefici di legge. Arma spuntata, dunque.

Tuttavia il legislatore ha previsto che se l’autore della tortura è un Pubblico Ufficiale, la pena è sensibilmente aumentata. Ma è un’aggravante: non si tratta di un reato autonomo. E le aggravanti entrano nel bilanciamento con le attenuanti, che, se sono giudicate equivalenti (e come non concederle al Pubblico Ufficiale incensurato e magari sedicente pentito?) fanno sparire l’aggravante, e questo significa tornare alla pena base del reato comune. Se poi ipotizziamo il risarcimento del danno, scendiamo ad anni 1 e mesi 4, e se ci aggiungiamo un bel patteggiamento scendiamo di un altro terzo, oppure se il tutto avviene con il rito abbreviato!

La pena prevista dal nostro legislatore è dunque scarsamente punitiva e non costituisce idoneo deterrente. Ma non è tutto. Per aversi tortura, il nostro solerte artefice delle leggi ha ipotizzato che sull’inerme alla mercé del torturatore, debbano essere commesse VIOLENZE. E non VIOLENZA. E la differenza tra l’uso accorto del singolare invece del plurale è palese ( fatte salve sottili interpretazioni in malam partem), per cui, ipotizziamo, lo spegnimento di una sola sigaretta nell’occhio della vittima non sarebbe tortura! Ma il legislatore ha pure pensato che non basti una serie di violenze per integrare il reato, ma pure che la vittima debba trovarsi sotto la tutela, cioè sotto il potere del P.U. ( tipico il caso dell’arrestato). Così sorgono dubbi interpretativi: che succede in caso analogo alla “Macelleria messicana” commessa alla scuola DIAZ nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001 a Genova? Gli agenti entrarono e massacrarono le vittime, che però non erano ancora state arrestate. Non fu tortura quella? La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo ha delirato allora con la sentenza di condanna dell’Italia del 7 aprile 2015? Allora dov’è la deterrenza? Ma c’è di più: nella legge di parla di “Sofferenze” non di malattia o di danno. Indeterminate dunque.

Infine la legge specifica che c’è differenza tra la morte non voluta del torturato ( punita con 30 anni di reclusione) e la morte voluta, punita con l’ergastolo. La legge così istituisce il principio che, se alla commissione deliberata e cosciente di torturare un essere umano segue la morte di questi, il giudice debba entrare nel merito per verificare se il torturatore avesse in animo “solo” di  torturare e non di uccidere, come nell’omicidio preterintenzionale, dove la morte si verifica perché oltre l’intenzione dell’agente. Singolare inversione dell’onere della prova!

Si dice: meglio questa legge che nessuna legge. Obiettiamo: meglio nessuna legge che una legge ingiusta. E’ più difficile combattere contro una legge ingiusta camuffata da legge giusta, che lottare per ottenerla nella vacuità legislativa.

*Roberto Settembre è nato a Savona nel 1950. Dopo alcuni anni di attività forense, è entrato in magistratura nel 1979 e ha lavorato quasi sempre nel settore penale. È stato l’estensore della sentenza d’appello sui fatti accaduti nella caserma di Bolzaneto, poi resa definitiva dalla Cassazione. Su questa drammatica vicenda ha scritto un libro, Gridavano e piangevano, pubblicato da Einaudi nel 2014. È uscito dall’ordine giudiziario nel 2012.