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La lezione di Genova

La storia non si fa nelle aule dei tribunali. É una lezione appresa in un’altra epoca, ma questo non ha impedito che siano state coltivate delle illusioni sul fatto che alcune sentenze relative alle giornate di Genova 2001 potessero stabilire, senza ombra di dubbio, che la responsabilità politica degli incidenti seguiti alla carica contro il corteo in Via Tolemaide fossero da attribuire alle forze dell’ordine.

L’assassinio di Carlo Giuliani, le centinaia di persone massacrate di botte da polizia, carabinieri, guardia di finanza, la macelleria della Diaz, gli insulti, i pestaggi a Bolzaneto che solo per pudore non sono definiti tortura sono stati l’esito di una guerra a bassa intensità scatenata contro un movimento che era riuscito a infrangere la plumbea cappa di ciò che solo due lustri fa e frettolosamente è stato chiamato “pensiero unico”. É questa la verità politica che nessun tribunale della Repubblica potrà mai stabilire.
La conferma delle condanne a dieci manifestanti rastrellati nelle strade di Genova è in continuità con la sentenza che ha individuato responsabilità tra funzionari di polizia nella mattanza alla Diaz. Quei funzionari dello stato hanno avuto pene lievi rispetto a quanto accaduto, ma la loro condanna ha fatto sperare, per una manciata di giorni, che un’altra cappa era stata scalfita, quella costruita da tutte le forze politiche in questi undici anni. Non era così. La conferma dell’accusa di “devastazione e saccheggio” della Cassazione di venerdì ribadisce la menzogna che da dieci anni tiene banco nella discussione pubblica: la sospensione dello stato di diritto è stata una conseguenza delle azioni violente di una parte del movimento. Una menzogna bipartisan per occultare appunto quella guerra a bassa intensità che in tre giorni fu combattuta contro il movimento. Non sapremo mai se la presenza di Gianfranco Fini nelle sale di comando delle operazioni di polizia sia stata dovuta a un piano preordinato, preparato in mesi di esercitazioni e che aveva avuto la sua prova generale nell’assalto al corteo del movimento a Napoli solo una manciata di settimane prima. Le due sentenze non hanno quindi nulla di calcistico, con un pareggio che chiude la partita e manda tutti negli spogliatoi. L’una è congrua all’altra per legittimare lo stato di emergenza continuo che deve scandire i rapporti tra movimenti e stato. Il primo è il nemico interno, mentre lo stato è una tecnologia del controllo applicata a tutta la popolazione per definire i meccanismi di inclusione e di esclusione della cittadinanza.
La guerra a bassa intensità di quelle giornate liguri aveva cominciato a prendere forma molto tempo prima nelle strade americane, canadesi, svedesi, quando era chiaro che il movimento globale non sarebbe stato fermato facendo leva sugli strumenti normali della repressione. I grandi della terra temevano quel movimento e decisero che fosse arrivato il momento di istituire uno stato di emergenza globale come era globale il movimento. Poco importa se incontrasse motivi locali per rafforzarsi, l’importante era di fermare quella politicizzazione dei rapporti sociali che il movimento portava avanti. La volontà provinciale di Silvio Berlusconi e Gianfranco Fini di legittimare il loro governo agli occhi del mondo rafforzò il giro di vite che aveva caratterizzato il rapporto tra stato e movimenti da Seattle in poi. Mai in questi anni si sono levate voci dentro i parlamenti europei contro il comportamento delle forze di polizia e la copertura offerta loro da gran parte del sistema politico. La sera dell’assassinio di Carlo Giuliani c’era l’europeo e democratico Carlo Azeglio Ciampi accanto a Silvio Berlusconi e rimase in silenzio quando il presidente del consiglio rivendicò quell’uccisione.
Occorre però precisare che uno stato di emergenza è la fine e al tempo stesso l’inizio di un processo. Non è cioè l’esito di una pianificazione attorno a un tavolo in qualche stanza segreta. Prende corpo e forma nei processi sociali, nella discussione pubblica, fino a quando le condizioni sono mature per la forzatura istituzionale, politica. Non bisogna dimenticare che Genova 2001 giungeva dopo mesi che i media mainstream avevano alimentato lo spettro della crisi economica. Il Nasdaq era impazzito dopo lo scoppio della bolla della New Economy, mentre intere economie regionali erano state sotterrate dal Tsunami originato nel Nord del Mondo per scaricare la crisi del capitalismo nel Sud del Mondo, giungendo a ridimensionare anche la volontà del Giappone di entrare nel club dei potenti. E mentre il movimento sosteneva che l’economia del saccheggio era giunta al capolinea, il Wto, la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale provavano ad immaginare come rimuovere ogni forma di critica e di dissenso al cosiddetto Washington Consensus. E’ in questa contingenza che va collocata quella guerra a bassa intensità. E come in ogni guerra asimmetrica, ciò che conta sono le armi a disposizione. Da una parte le forze di polizia che si comportavano sempre più come eserciti di occupazione in terra straniera; media globali che recitavano lo stesso mantra; dall’altra un movimento disarmato, che aveva individuato nella Rete il suo media, senza però riuscire a gestire sapientemente la sua potenza comunicativa. Forte del consenso che era riuscito a costruire attorno a sé, è arrivato in Via Tolemaide, Via XX settembre, Corso Torino e sul lungomare genovese sperando di reggere l’impatto. A distanza di anni si può dire che non è stato così. Il movimento è uscito sconfitto, ma non annientato a Genova. E’ riuscito cioè a sottrarsi alle tecniche di annientamento politico che come una spirale mortale furono messe in campo. Ma pagò un prezzo alto.
La morte di Carlo Giuliani, i pestaggi degli uomini in divisa hanno avuto il significato terrorista di instillare nella realtà sociale il virus della paura e della consegna dei corpi, della vita all’arbitrio del potere. La funzione pastorale dello Stato fu ripristinata e la potenza politica del movimento si dissolse come neve al sole. Solo così si spiega la facilità con cui nei paesi del G8 furono proposte e ratificate dai parlamenti molti provvedimenti liberticidi dopo l’attacco alle Twin Towers. Non incontrarono resistenza perché il movimento non era riuscito a uscire fuori indenne dalla guerra di Genova. Le accuse di devastazione e saccheggio formulate contro i dieci militanti hanno il significato politico di relegare i movimenti sociali a recaille, feccia, tumulti di “classi pericolose” da stroncare con ogni mezzo necessario. L’entrata dell’Italia nell’Europa di Schengen significava omologazione anche dei comportamenti della polizia. Da allora, i rapporti della polizia italiana con la realtà sociale non è diversa di quella delle brigate anticriminali francesi nelle banlieues o a quella dei bobbies inglesi trasformati in robocop per garantire regimi di quasi coprifuoco nelle periferie delle metropoli di sua maestà la regina. Le operazioni di polizia sono diventate niente di più, niente di meno che controllo militare del territorio. La sequela di morti “accidentali” dopo violenti pestaggi di giovani che costellano la cronaca nera di questi anni non è una anomalia, ma esito di uno stato di emergenza reso permanente. Il movimento non riuscì a fronteggiare questo mutamento della forma stato. Solo pochi mesi dopo si trovò solo di fronte a una guerra che da bassa intensità era diventata la continuazione con altri mezzi della controrivoluzione liberista.
Non è tuttavia utile dilungarsi su una nota politica sulle reazioni,le scelte tattiche, le grandi generosità e le piccole ipocrisie delle diverse componenti e anime che animavano il movimento. Né aiuta a comprendere la distinzione tra il “blocco nero” e il resto del movimento. A Genova ci fu sconfitta. La sentenza di venerdì è espressione di quella sconfitta. Per questo quelle condanne riguardano tutti quelli che a Genova c’erano. Dunque nessuno è assolto e tutti siamo coinvolti. E amareggia il silenzio di gran parte dei militanti che nelle strade di Genova avevano fatto solo ciò che andava fatto: difendersi, cercare di contrastare una macchina di guerra omicida. Affermare che ci fu sconfitta, non significa chiudere in fretta e furia quel capitolo. Semmai serve a individuare i punti di forza di quel movimento e la sua capacità preveggente. Perché va detto che fu un movimento che si mosse su un piano globale perché globale era diventato il regime di accumulazione neoliberista. Aveva intuito quella ridefinizione della sovranità nazionale e l’emergere di un ordine politico mondiale che si fondava non sulla fine dello stato nazione, ma sulla ridefinizione delle sue funzione e sul fatto che la sua legittimità derivava da istituzioni sovranazionale. Tempo dopo, le teste d’uovo del pensiero politico democratico, da Jurgen Habermas in giù, hanno cominciato a recitare la litania sulla democrazia postnazionale e sugli assetti postcostituzionali come se fossero un incidente di percorso e non l’emergere di meccanismi di governance che operano, va ripetuto, selettivamente l’inclusione o l’esclusione di intere componenti della società dai diritti di cittadinanza. Etienne Balibar afferma, a ragione, che la cittadinanza è sempre un terreno di conflitto tra una logica restrittiva e la tensione estensiva della politeia. Più prosaicamente indica, nella contemporaneità, il confitto per riappropriarsi del comune, cioè delle ricchezza prodotta dalla cooperazione sociale. A Genova cominciò a manifestarsi il tema dei beni comuni. É il filo rosso ripreso dai movimenti sociali,che hanno cominciato a tessere nuovamente la rete per sfuggire a quell’espropriazione del comune che scandisce la critica all’ordine costituito. Ma a Genova si impose anche la centralità della comunicazione. Allora la posta in gioco era la costruzione di media autonomi; ora la destrutturazione di una produzione dell’opinione pubblica che si nutre dei comportamenti e delle innovazioni introdotte dal mediattivismo, fino a quando la soglia critica delle compatibilità non viene violata e l’innovazione è ridotta, nuovamente, in comportamenti della recaille. Genova infine è l’intuizione che il confine tra legalità e illegalità deve essere violato per affermare l’altro mondo possibile immaginato dai movimenti. La constatazione della sconfitta non significa dunque rinuncia a misurarsi con questo ordine di problemi, bensì invita a riprendere quel filo rosso, senza rimuoverne limiti. E le straordinarie potenzialità.

Benedetto Vecchi da uninomade